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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – I PARTE

… forse il domani somiglierà all’oggi. Si direbbe che noi seminiamo una semente contaminata. Ignazio Silone Vino e pane

Quando giunge il momento di agire, il tuo pensiero deve essere già completo. Non ci sarà spazio per pensare quando l’azione comincerà. Richard Morgan Il ritorno delle furie

:«Sopporti che la bandiera imperiale domini sulla galassia?» :«Non è un problema se non guardi in alto». Rogue One

PREMESSA NECESSARIA

Crisi è la parola probabilmente più usata nel corso dei primi vent’anni di questo secolo. Si passa da una all’altra, dal terrorismo alle catastrofi naturali che naturali spesso non sono, dall’economia alla sanità. Oggi più che mai nemmeno la cultura riesce a sottrarsi a questo termine dopo mesi di serrate forzate, ristori a singhiozzo (quando arrivano), provvedimenti mal digeriti. Alla parola crisi però si fa fatica a far seguire un’indagine sulle ragioni che l’anno generata, spesso perché l’attenzione è già rivolta a quella successiva, e quindi più attuale. L’indagine è però quantomai necessaria proprio per comprenderne i motivi ed eventualmente emendarli, correggerli, porvi rimedio. Non è superfluo ricordare che Crisi è parola di origine greca dal verbo Krino, separare, e che, più in particolare, ha il significato di discernere, valutare, giudicare. La parola contiene quindi in sé l’azione positiva dell’indagine volta a un superamento, non dunque uno spauracchio da agitare per smuovere reazioni istintive e spesso sbagliate.

Nel campo delle arti performative sarebbe atto di chiarezza riconoscere che l’attuale congiuntura non è stata generata dall’epidemia di Covid-19, quanto piuttosto da essa aggravata e/o accelerata. La crisi performativa era in atto da anni, forse da decenni. Ricordate Carmelo Bene da Maurizio Costanzo nel 1992? Parlava di finanziamenti denunciando che questi ultimi, erogati a pioggia, in base alla semplice emissione del borderò SIAE, non avrebbero favorito la ricerca ma la mediocrità. Sempre negli anni ’90 si generò il movimento de I Teatri Invisibili che riuniva coloro che venivano esclusi dal sostegno pubblico e dal sistema dei privilegiati portando avanti istanze di rinnovamento e di riforma. Se confrontiamo le necessità di allora con quelle di oggi, facendo la tara rispetto alle chiusure dovute alla pandemia, si può chiaramente individuare una continuità nelle problematiche e nelle richieste.

I problemi quindi ce li portiamo avanti da tempo e il legislatore così come il comparto, si sono limitati a mettere pezze qua e là per permettere all’intera filiera di continuare a lavorare, ma non si è mai proceduto a verificare quali assunti fossero errati alla base. Senza rivedere le fondamenta su cui si posa tutto l’edificio teatrale non riusciremo mai a risolvere i problemi che inceppano gli ingranaggi della macchina nel suo complesso. Questo va fatto senza por altri indugi perché una cosa è apparsa evidente in questi mesi di serrata dovuta alle misure di contenimento: contrariamente ad altri settori di attività come i ristoratori o gli impianti sciistici o le palestre, a chiedere la riapertura sono stati solo i teatranti e gli operatori non il pubblico, il quale non si è per niente stracciato le vesti per essere stato impedito a frequentare il teatro. Cosa significa questa distanza dalla società che abitiamo? Quando abbiamo perso il contatto? Quando abbiamo perso necessità?

In questa serie di articoli che prende il titolo dal libro di Benjamin Labatout Quando abbiamo smesso di capire il mondo proviamo a individuare, seppur sommariamente e per accenni, le origini e le ragioni della crisi del settore delle arti performative, nella speranza che altri integrino, sviluppino ed emendino le inesattezze. Prima di passare in rassegna i singoli settori dell’intera filiera è bene però inquadrare il contesto, la cornice entro cui si disegna lo scenario in cui ci troviamo ad agire, perché uno dei principali errori che si possono commettere nell’analizzare un problema che riguarda il teatro è pensare che esso riguardi esclusivamente la sfera teatrale come se non si fosse collegati a un corpo sociale. Contrariamente ai sogni e aspirazioni di Antonin Artaud non è il teatro fonte di contagio ma è la civiltà occidentale che noi tutti abitiamo a essere un ecosistema affetto da gravi malanni non solo di origine biologica, malesseri che contagiano il sistema teatrale provocando varianti sue proprie. Occorre quindi in primo luogo individuare la malattia e poi analizzare i sintomi per sperare di trovare una cura.

EGEMONIA DEL PENSIERO ECONOMICO, SGRETOLAMENTO DEL TEMPO E LACCI BUROCRATICI

Potremmo iniziare dicendo che tutto cominciò il giorno in cui l’economia è diventata la regina assoluta di ogni attività umana e, di conseguenza, anche del mondo delle arti performative. Come per la selva dantesca non è dato sapere quando esattamente siamo entrati nella fase in cui ogni aspetto del reale si misura sotto la lente esclusiva dei valori economici. Persino il lessico è cambiato radicalmente: Know-how, marketing, governance, tax credit, mercato, prodotto, impresa. Sono parole ormai d’uso comune nell’ambito delle arti tutte e che si adottano senza problema e senza pensare troppo alla loro origine. Per non parlare di complicati bilanci preventivi e consuntivi, indici di crescita, algoritmi predittivi e parametri di misurazione con cui ogni attore del mondo teatrale e della danza deve prima o poi scontrarsi. Ad un certo punto nel mondo artistico culturale sono scomparsi i termini relativi alla propria sfera di attività e il dizionario si è trovato colonizzato dal pensiero economico. Per rendersi conto del fenomeno ecco un breve passaggio dal Libro verde della Comunità Europea per lo sviluppo e il potenziamento delle industrie culturali: «Con il concorso del settore dell’istruzione, le industrie culturali e creative possono anche svolgere un ruolo decisivo nel dotare i cittadini europei delle necessarie competenze creative, imprenditoriali e interculturali. In questo senso, le industrie culturali e creative possono alimentare i centri d’eccellenza europei e aiutarci a diventare una società fondata sulla conoscenza. Allo stesso tempo, queste competenze stimolano la domanda di contenuti e di prodotti più differenziati e più raffinati, e questo può dare ai mercati di domani una forma meglio consona ai valori europei». Cultura e istruzione sono subalterne e funzionali allo stimolo di domanda per creare mercati consoni ai valori europei.

L’economia dunque ha fatto irruzione in ogni ambito e così nel consueto e scontroso dialogo tra arte e cultura da una parte e potere politico istituzionale dall’altro si è inserito un nuovo personaggio. E questa fin da subito si è posta come leader dettando agli altri due commensali l’agenda delle cose da fare. E nel farlo pone come unico argomento di forza non la conoscenza, e nemmeno la competenza, ma il denaro che spende a sostegno della cultura sopperendo in maniera massiccia alle carenze degli assessorati regionali e comunali e a volte persino del Ministero. In cambio di questo detta linee guida che spingono in maniera decisa verso l’aziendalizzazione della cultura, così come parimenti spinge verso l’aziendalizzazione della sanità (e abbiamo visto i danni causati) o dell’istruzione (pensiamo come con l’aumento delle tasse e della riforma negli anni ’90 il livello di conoscenza si sia abbassato dal vecchio al nuovo ordinamento, così come è messa in dubbio l’indipendenza degli atenei sempre più finanziati dal capitale privato).

Se la politica si è adeguata senza opporre resistenza e anzi si è sentita sollevata che qualcun altro pensasse a risolvere la questione, dal côte culturale ci si aspettava qualche resistenza e invece nulla, anzi si è fatta la corsa ad adeguarsi perché il refolo di finanziamenti che giungeva dall’alto si ingrossava un pochetto grazie al mondo economico finanziario e poi come dice Alain Denault :«il denaro finanzia subito un considerevole sforzo di inibizione: il silenzio. “ti pago, sta zitto”. È la prima ingiunzione implicita che accompagna la retribuzione salariale».

Il capitalismo economico, soprattutto quello degli ultimi decenni dettato dall’iperliberismo deregolamentato, porta però con sé concetti che mal si accordano con gli scopi dell’arte. L’opera non è un prodotto, il pubblico non è un cliente, il teatro non è un centro commerciale. Confucio diceva: quando i termini non si accordano alle cose inizia la decadenza dello stato. Il rapporto tra artista e pubblico non si basa sull’accontentare un bisogno o un desiderio, ma su una necessità che l’artista individua a volte nonostante la società che abita, e nemmeno il compito dell’artista è quello di creare bisogni indotti che inducano il consumatore a comprare ciò di cui non ha nessuna necessità. Esso si basa su altri presupposti, spesso conflittuali e violenti. L’opera d’arte, per lo meno nei suoi presupposti e nei suoi esiti migliori, è, di volta in volta, una chiave di comprensione del reale o uno specchio deformante, comunque sempre un mezzo di conoscenza perché teatro è prima di tutto Teatron: Il luogo da cui si guarda. Il gran teatro del mondo non ha dunque niente a che vedere con la Nutella, alla quale se venisse alterato il sapore o il profumo, perderebbe ogni sua attrattiva. Il teatro brama e necessita di cambiamento, soprattutto di quello non richiesto e nemmeno desiderato. E soprattutto non è un allevamento di polli in batteria: le opere non devono essere tutte uguali e della stessa misura, anzi dovrebbero nutrirsi di diversità, di antagonismi estetici e formali, tutto insomma ma non l’omologazione prevista dal prodotto di mercato che deve replicare le performance di vendita quando non innalzarle.

Il pericolo quando l’economia diventa soggetto dominante è appunto un appiattimento verso valori mediocri volti ad accontentare la maggiore fetta di mercato possibile. L’eccellenza è garantita solo nei beni di lusso che accontentano le poche élite in grado di permettersele, per gli altri resta l’aurea mediocritas, altro valore che mal s’accorda con la natura dell’arte ma va a braccetto con l’intrattenimento, che guarda caso, conquista sempre più spazio. Come avvertiva il già citato Alain Denault: «al denaro succederà di servire l’arte e di servirsi dell’arte, per sentirsi un mezzo capace di veicolare le pulsioni nell’ineffabile splendore della mediocrità».

Il pubblico poi a teatro è nato come agorà e oggi si trova al rango di un cliente che deve essere soddisfatto o rimborsato, un ruolo svuotato di ogni cromosoma politico. Un settore dell’umanità da conquistare alla propria causa, blandendolo e convincendolo a passare il suo tempo nelle nostre sale, dove verrà prontamente sollazzato a dovere. E questa parte di umanità deve crescere esponenzialmente e senza conoscere pausa alcuna come il PIL di uno stato, per non correre il rischio di entrare in un vortice di decrescita.

Ecco dunque che senza sapere bene perché, oggi il mondo culturale è dominato dal pensiero economico, e questo nonostante scuota con violenza i valori su cui esso si basa. Ma l’ingresso dell’economia porta con sé due gravi conseguenze.

La prima è l’erosione del tempo. Il neocapitalismo è mostro cronofago, pronto a divorare il bene più prezioso di cui siamo possessori. Noi siamo sempre connessi, sempre attivi e reperibili, operativi h24 sette giorni su sette. Qualsiasi lavoratore ha visto incrementare le ore di lavoro dagli anni ’80 a oggi. Le grandi società dell’intrattenimento digitale (social e piattaforme) provano a erodere quello che fino a pochi anni fa era il tempo del riposo. Oggi ci troviamo a lavorare in maniera passiva, tramite l’utilizzo del nostro tempo, per Amazon, Facebook o Netflix. Il semplice gesto di ordinare la cena è un lavoro che genera altrui profitto e relativo sfruttamento di nuove categorie deboli. Inoltre la tanto sbandierata semplificazione digitale in realtà è ulteriore lavoro che viene scaricato sulle spalle dell’utente che erode il proprio tempo libero. Tutti noi abbiamo provato sulla nostra pelle a fare domande online, richieste di SPID, pagare bollette e fare bonifici. Di fatto è un lavoro part-time per banche, amministrazioni pubbliche e fornitori. Qualcuno obietterà che fare la fila alla posta, in banca o all’anagrafe era forse una perdita di tempo maggiore, eppure vi sorprenderà sapere che oggi abbiamo meno tempo a nostra disposizione di trent’anni fa!

Questo fenomeno di erosione temporale come si manifesta in ambito teatral performativo? La vita degli spettacoli si accorcia terribilmente. In ogni dove si va a caccia della prima, della novità, del nuovo talento. Così da una stagione all’altra la maggior parte dei lavori appassisce e cade nel dimenticatoio. E poi la tenuta in cartellone si è ormai ridotta a una solo data in piccoli teatri e nei festival. Solo i Teatri Nazionali e i Tric possono permettersi una tenuta maggiore ma pur sempre di pochi giorni. I giorni di prove si assottigliano. Ventuno quelli canonici per le produzioni sostenute da teatri nazionali. Rare le eccezioni verso tempi più lunghi. La norma è una frammentazione in tempi di residenze brevi e dilazionate. E poi da ultimo non dimentichiamocelo: quando diventi over 35 ormai sei vecchio. E il pericolo si sta aggravando con l’entrata in campo degli under 25. Non si lascia il tempo dunque ai giovani di prendersi il tempo per acquisire conoscenza e formazione. Devono produrre il prima possibile.

Il luogo di erosione maggiore del tempo per il teatro è indubbiamente la burocrazia e lo sanno benissimo coloro che nel mondo dello spettacolo dal vivo sono stati alle prese con le domande ministeriali o la compilazione di bandi bancari o delle amministrazioni regionali con relative scadenze per presentare la domanda, per non parlare delle relative rendicontazioni. Tutto lavoro a carico di compagnie, festival, teatri. A questo si assomma la quotidiana attività di promozione sui canali social a cui nessuno oggi può sottrarsi pena la caduta nell’anonimato. A tutto ciò si è aggiunto lo streaming. Tutto tempo eroso al lavoro di creazione che si vede sempre più relegato ai margini dell’attività artistica.

Il silenzio creativo, il raccoglimento per la costruzione di un’opera è diventato sempre più un’utopia. Oggi la creazione si svolge veloce, in mezzo a mille impellenze burocratiche e digitali quotidiane. Questo nelle migliori condizioni perché spesso il momento creativo si svolge in un vero campo minato tra burocrazie, rappresentazioni, compilazione di bandi, rendicontazioni, promozioni, pubbliche relazioni, visioni, trasferimenti, residenze. La cronofagia comporta pericolose minacce al tempo creativo sempre più simile a una specie in via di estinzione.

Secondo macro-problema di cui in parte si è già accennato è la sterminata, intricata e pungigliosa selva burocratica in cui ciascun cittadino della Repubblica si trova a perdersi per aprire un ristorante o per far il bagnino o gestire uno spazio culturale. Nell’ambito culturale ogni amministrazione sia essa comunale, regionale o ministeriale, ogni fondazione bancaria, ogni bando europeo, ALCOTRA o INTERREG presenta forme burocratiche e legislative completamente diverse, che bisogna padroneggiare e comprendere alla perfezione per aspirare a un risultato positivo. Conseguentemente i sistemi di rendicontazione, le spese ammissibili, i costi di gestione sono calcolati in diverse modalità. Inoltre ogni regione italiana e quasi ogni comune ha regole sue proprie a complicare il già difficile paesaggio. E questo solo per i bandi e i finanziamenti. Altro paio di maniche la contrattualizzazione del lavoro, l’amministrazione ordinaria, il pagamento delle imposte e dei contributi. Da marzo 2021 con la riforma del Terzo Settore perfino scegliere la forma istituzionale per la propria associazione risulta incomprensibile tanto che perfino l’AGIS non sa cosa consigliare. La selva è talmente intricata che nemmeno i commercialisti, specialisti in questo, sono concordi su quanto bisogna effettivamente versare al fisco o quale forma societaria assumere. Una semplificazione sarebbe non solo necessaria ma doverosa. È inconcepibile un tale groviglio di regole ed eccezioni.

Imperio economico, erosione del tempo e infine il nodo gordiano della burocrazia sono dunque la cornice entro cui si inscrive la profonda crisi teatrale che stiamo attraversando e che il Covid non ha causato ma semplicemente ha fatto esplodere in tutta la sua evidenza. In questo paesaggio la vita dell’artista si fa sempre più stretta e obbligata come nella favola di Kafka, e per non far la fine del topolino nelle fauci di un grosso gatto urge cambiar direzione e prendere coscienza del fatto che, come dice Hans Magnus Enzensberger: «Da molto tempo la “classe dominante” non crea più la propria cultura e non manifesta alcun bisogno di un prodotto di questo genere».