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Resistenze Artistiche

RESISTENZE ARTISTICHE. INTERVISTA A FRANCESCA GAROLLA

Secondo appuntamento col il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche. Questa settimana risponde alle nostre domande Francesca Garolla, drammaturga e direttrice artistica del Teatro I di Milano, direzione che condivide con Federica Fracassi e Renzo Martinelli.

Il progetto Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Francesca Garolla Ph: @Valerio Ferrario

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Teatro I è rimato chiuso al pubblico per un anno e mezzo. Prima la chiusura forzata, poi una riapertura impossibile, perché avremmo potuto ospitare solo 20 spettatori, nel rispetto della normativa. In tutto questo tempo, soprattutto tra fine 2020 e inizio 2021, abbiamo lavorato su progetti collaterali legati alla scrittura, alla drammaturgia, allo scouting e alla valorizzazione di istanze artistiche non ancora emerse, “invisibili” già in tempi di normalità e in quel periodo del tutto impossibilitate ad esprimersi. Nel tentativo sia di mantenere, nella distanza, un contatto con un pubblico conosciuto, prossimo al progetto culturale del teatro, sia di intercettare un pubblico più estemporaneo, magari distante dal teatro, ingaggiabile grazie ad una proposta differenziata e, soprattutto, a un buon utilizzo dei mezzi a disposizione. Niente streaming, insomma, ma rinnovamento e sperimentazione.

D: Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Sulla molteplicità dei punti di vista, sull’ampliamento delle progettualità, sulla necessità di valorizzare la drammaturgia al di là della sua rappresentazione scenica inevitabilmente ridotta, sul confronto tra artisti grazie a iniziative collettive e a momenti di scambio tra pari, sull’alta formazione e la creazione di format differenti (e-book, podcast, biblioteca online, incontri online, scritture collettive).

La parte produttiva ha inevitabilmente subito un arresto, ma questo è stato compensato da un progetto culturale più ampio e variegato.

D: Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni non si sono esposte in maniera particolare a tutela del settore, a parte, appunto, i fondi elargiti e qualche estemporanea manifestazione di solidarietà o dissenso. C’è stato, questo è vero, il tentativo di “ammorbidire” la normativa, di posticipare, di venire incontro, ridefinendo i parametri che permettono di accedere ai contributi pubblici.

Non c’è stata, però, alcuna riflessione di sistema, né un reale coinvolgimento degli operatori in un dibattito che poteva essere un’occasione, in questo tempo di sospensione, di confronto e di ridefinizione di un contesto che già prima della pandemia era traballante.

Crediamo che la solidarietà sia stata soprattutto “dichiarata”, ma, in un certo senso, anch’essa istituzionalizzata, purtroppo però non è riuscita a trasformarsi in reale partecipazione.

D: Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Nell’impossibilità di presentare spettacoli, abbiamo voluto rendere visibile il processo che porta a delle scelte artistiche. In realtà non solo abbiamo voluto renderlo visibile, ma anche partecipato e condiviso, attraverso i media a disposizione.

Un esempio di questa strategia è stato la creazione di una biblioteca online dedicata alla scrittura contemporanea (www.teatroi.org/biblioteca-virtuale/). Grazie ad una call inaugurata nel dicembre del 2020 abbiamo creato uno spazio virtuale dove iniziare a scoprire la nuova drammaturgia, i testi sono stati selezionati, tra oltre 200 proposte, dapprima da un Comitato di Lettori esperti (Magdalena Barile, Federico Bellini, Claudia Di Giacomo e Valentina De Simone, Valentina Diana, Omar Elerian, Chiara Lagani, Pier Lorenzo Pisano, Michelangelo Zeno) e, in seconda istanza da un Comitato di Spettator-Lettor, coinvolti anch’essi tramite una call.

Ecco, a questo secondo step hanno partecipato più di 100 persone, a livello nazionale, confermando il fatto che è necessario “compromettere” il proprio percorso, aprirlo, metterlo in discussione, per avvicinare (oltre a mantenere) nuovo pubblico.

D: Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Crediamo che non si possa ripartire come niente fosse. I teatri, i progetti artistici, non possono rimanere fermi per più di un anno e poi riprendere dallo stesso punto in cui si sono interrotti. Ma il nuovo decreto, ci pare, mira soprattutto al ritorno ad una presupposta normalità, afferma: fate lo stesso numero di repliche, le stesse giornate lavorative, assumete, mantenete il personale, fate tournée come prima, eccetera eccetera. Non si tiene conto di quello che è successo, ed è come pensare che dopo un anno di prigione qualcuno riprenda la sua vita (e la sua libertà) come se niente fosse, con le stesse relazioni, lo stesso lavoro, la stessa faccia, gli stessi pensieri. È impossibile. Non si vuole vedere, si preferisce andare avanti, negare l’incertezza, non ammettere che nel frattempo alcuni progetti si sono esauriti e dovranno ripensarsi completamente, non ammettere che il futuro che ci aspetta risentirà di quello che è successo, comunque.

Quello che ci aspettiamo è che, presto o tardi, questa contraddizione tra ciò che si vorrebbe e ciò che è, questa visione alterata del contesto teatrale, si evidenzi sempre più, obbligandoci, in ogni caso, a una presa di coscienza e quindi ad un rinnovamento, se non delle istituzioni, dei singoli soggetti, nel bene e nel male.

Teatro I – Interno

D: Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Si è sospeso il tempo, non lo si è sfruttato per una riflessione di sistema e sul sistema. Le istanze di rinnovamento sono state diverse, ma anche frammentate, per grandezza, per categoria, per territorio. Si è evidenziata la mancanza di confronto.

Al contempo, pensiamo, sono diventati visibili, sempre più, i limiti di questo agire e quindi, se anche non sono stati sfruttati appieno questi due anni, potrebbero essere serviti a rendere visibile la necessità di un cambiamento. Non è successo ieri e non sta succedendo oggi, ma è un punto di partenza per domani.

www.teatroi.org

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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – III PARTE

:«Per l’essenziale, i Beni culturali plasmeranno in serie gli individui che formano il bacino di clienti e di sostenitori necessari al capitale» Alain Desnaul La mediocrazia

«Bisogna accettare, come fosse una legge della ragione, che il reale esiga in ogni circostanza una sottomissione piuttosto che un’invenzione?» Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«La pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma ripropone e accelera ciò che è già disponibile» Byung-Chul Han La società della stanchezza

Nel nuovo e incalzante mondo dell’impresa in cui le arti performative si apprestano a fare il proprio ingresso è lecito farsi una domanda preventiva: di quale capitale dispone la neonascente industria di cultura? Prima di tutto di quello derivato dal sostegno dello Stato attraverso tutte le sue istituzioni (Ministero della Cultura, Regioni, Comuni, Circoscrizioni, Municipalità); in secondo luogo le Fondazioni Bancarie, le quali in alcuni territori, sono veri pilastri nel sostegno alle attività di cultura; in misura più marginale da progetti europei nei suoi vari canali dedicati (Interreg e Alcotra per esempio); infine una minima parte derivata da incasso da attività propria (Bar, biglietteria, merchandising, corsi, affitti sale, etc). La sponsorizzazione privata generalmente, a parte rari casi e in maniera molto diseguale, si concentra nei riguardi di Enti Lirici, Teatri Nazionali, Tric e Grandi Festival che possono garantire ai marchi di prestigio un ritorno di immagine. Per strutture medie e piccole il finanziamento privato, pur con lo strumento dell’art bonus, ossia un credito di imposta pari al 65% per le donazioni liberali nei confronti del patrimonio culturale, stenta e risulta molto saltuario e legato a rapporti personali o territoriali.

Da questa ricognizione si può trarre una prima considerazione di base: senza il sostegno dello Stato, della Comunità Europea e delle Fondazioni Bancarie non esisterebbe alcuna impresa di cultura. Gli incassi derivati dalla vendita del prodotto cultura non sono minimamente sufficienti a sostenere alcunché, nemmeno gli artisti che li creano, figuriamoci chi deve vendere e distribuire i loro prodotti. L’impresa culturale si configura quindi come un’impresa senza capitali propri o, nella migliore delle ipotesi, con capitali insufficienti a mantenere la propria attività. Perché dunque insistere così tanto nell’aziendalizzazione del settore culturale quando appare lampante che le arti performative per mantenere uno standard di qualità elevato necessitano di investimenti fuori mercato? La risposta più ovvia parrebbe quella paternalistica: per evitare gli sprechi (cosa tutta da dimostrare), per imporre agli artisti, sempre pronti all’utopia, una concretezza di scopi, e delle finalità raggiungibili attraverso un percorso organizzato di costi e ricavi. Buone e cattive gestioni patrimoniali però si sono viste fin dalla nascita ormai secolare dei teatri a capitale privato o delle compagnie di giro. Fare buona economia delle risorse non necessita un regime di impresa. Forse come si sta facendo notare da più parti non siamo più in grado di mettere in discussione l’imperio di un modello economico che non manca di dimostrarsi fallimentare. Eppure noi ci affidiamo sempre all’economia convinti che essa sappia come uscire dalle crisi.

La cultura però, e l’abbiamo rimarcato più volte, non si costruisce in serie, non si vende ogni mattina al mercato e necessita di tempi variabili e molto elastici per il suo confezionamento. La proposta di legge Orfini sul contratto di lavoro e la tutela previdenziale e sociale dei lavoratori del settore dello spettacolo e delle arti performative. proposta che prevede l’inserimento nel nostro ordinamento dell’intermittenza alla francese, la quale finalmente riconosce che il lavoro dello spettacolo è di necessità saltuario, costituito di momenti di pausa formativa e di ricerca oltre che di intervallo tra un contratto e un altro, definisce la diversità del lavoro artistico. E quindi come si concilia questo con l’idea di impresa dove il lavoro è continuativo, ripetitivo e volto alla perpetua crescita dei ricavi, ma soprattutto con l’iperproduzione imperante? Ancora una volta tutti noi, dal legislatore, all’operatore, all’artista stiamo affidando un intero settore in mano agli economisti senza mettere in discussione la fallacia del modello. Bisognerebbe costruirne uno apposito, non basato sul neoliberismo, per non far la fine di sanità e istruzione, in cui l’ingresso del modello aziendalista ha abbassato gli standard e la qualità.

George Grosz I pilastri della società

Seconda conseguenza del fatto che il capitale necessario allo sviluppo dell’impresa di cultura derivi in massima parte da erogazioni di Stato e Regioni più le Fondazioni Bancarie, è che gli obiettivi e le finalità dell’attività dell’impresa siano eterodirette. I bandi di finanziamento definiscono di anno in anno, o di triennio in triennio, gli ambiti di intervento a cui bisogna adeguarsi per ottenere i fondi necessari. L’attività culturale e artistica, e questo lo si dice senza nessun giudizio o pregiudizio in merito, diventa spesso sussidiaria di altre attività, soprattutto sociali e didattiche verso soggetti deboli e aree disagiate. Se in molti casi questo avverrebbe e avviene con naturalezza e per istintiva attrazione, e il legislatore ha dunque percepito semplicemente una potenziale alleanza che andava sviluppata e sostenuta, bisogna però anche dire che l’attività culturale non si indirizza solamente in quest’unica direzione e le diverse progettualità possono anche anticipare necessità non ancora evidenti, perché l’arte, per dirla con Agamben, è sempre inattuale, ossia sempre leggermente sfasata dal presente. Siamo dunque ben lontani dalla cronaca. Si parla del mondo ma anticipandolo o riconsiderandolo, non certo correndogli dietro come un cronista dietro alla notizia. Inoltre come ovvio corollario se i bandi si orientano verso una determinata area di intervento giocoforza avremo l’immissione sul mercato di prodotti simili e orientati nella stessa direzione. In economia non sarebbe questa una contraddizione? Considerare una certa libertà d’azione in un campo così aleatorio dovrebbe essere non solo auspicabile ma necessario, e in passato effettivamente sono state considerate domande libere a progetto con cifre però inadeguate. Ora questa possibilità è un ramo pressoché estinto nell’albero dell’evoluzione dello spettacolo dal vivo.

Sempre per restare nell’ambito dei finanziamenti dobbiamo considerare anche una ingente sperequazione degli stessi su base territoriale. Se infatti in regioni come Piemonte o Lombardia operatori e compagnie possono accedere a svariate linee di finanziamento, pubbliche e private, a cui si assommano bandi transfrontalieri come Interrag e Alcotra, nelle Regioni del Sud nella prevalenza dei casi è lo Stato con le sue istituzioni a sostenere l’intero settore. Inoltre anche tre le Regioni vi sono effettive diseguaglianze nei sostegni e per questo basterebbe controllare i bilanci regionali e confrontare l’ammontare dei contributi regionali per lo spettacolo dal vivo. Per fare qualche esempio nel 2020 Regione Campania 15.000.000; Regione Emilia Romagna ha stanziato 3.172.000 € a cui si sommano 459.500 € per la danza e 1.535.000 per le attività multidisciplinari in cui rientrano le residenze artistiche; Regione Piemonte 1.176.000 €; Regione Lazio 1.400.000 €; Regione Toscana 450.000 € più 2.000.000 € per il RAT, sistema di residenze; Regione Sicilia 1.025.485 € ma non prevede sostegno ai festival; Regione Sardegna 6.825.086,21 di cui solo 90.000 alla danza. Ulteriore analisi sarebbe necessaria per la ripartizione di tali fondi ma non è questa la sede. Qui ci interessa semplicemente riportare una radicale differenza nei territori.

George Grosz Eclissi di sole

Veniamo ora a esaminare il mercato di un’impresa che come abbiamo visto iperproduce ben al di sopra dell’effettiva domanda, non possiede capitali propri ed è in massima parte eterodiretta nei suoi obiettivi.

Partiamo dal mercato interno. Esso si costituisce in gran parte di circuiti chiusi e impermeabili. Teatri Nazionali e Tric hanno un loro mercato costituito nella quasi totalità di reciproci scambi, nella logica del raggiungimento della quota annua di borderò e di giornate lavorative minime, per il riottenimento dei fondi legati al FUS. Gli scambi detto per inciso sono un male diffuso e in qualche modo necessario in ogni ramo del mercato teatrale italiano. Se infatti l’obiettivo è soddisfare i minimi richiesti dal ministero in qualche modo ci si aiuta reciprocamente nello scopo. Nefasta conseguenza della pratica è un mercato chiuso che non genera economia di ricaduta, in quanto ci si scambia i cachet e i borderò.

Torniamo ai Teatri Nazionali e Tric la cui programmazione a slot prevede l’inserimento di giovani, donne, repertorio, nuova drammaturgia etc. Nel riempire le caselle dedicate agli under 35 più che al mercato ci si rivolge alle proprie “cantere” ossia alle scuole, che diventano dei veri e propri vivai su modello calcistico. Questo se da un lato permette la crescita dei giovani, dall’altro impedisce l’ibridazioni con linguaggi meno scolastici ed eterodossi. Si rischia un linguaggio “da stabile”. Difficilmente infatti i gruppi indipendenti, per quanto apprezzati da pubblico e critica, entreranno nei palinsesti di questi teatri per molte ragioni prima fra tutte la non reciprocità del borderò, e a seguire l’indisponibilità delle varie direzioni artistiche a puntar sui nuovi linguaggi destabilizzanti per gli abbonati. Da ultimo ovviamente il fatto che nuovi gruppi hanno poco richiamo e un calo di pubblico farebbe abbassare gli indici per l’algoritmo ministeriale e conseguentemente i finanziamenti nell’anno a venire. Si punta sul sicuro, possibilmente con nomi di richiamo televisivo, scommettendo sulle nuove generazioni il tanto che basta.

I festival sono il vero circuito off. Essi sono diventati anche produttori oltre che un vero e proprio circuito alternativo per le nuove tendenze. Purtroppo lo possono fare in maniera insufficiente per mancanza di veri fondi dedicati alla produzione spesso avviata tramite lo strumento della residenza. In questi ultimi anni hanno creato reti alternative ai circuiti regionali e soprattutto costruito collegamenti con l’estero, interfacciandosi con i colleghi stranieri e aprendo dei canali per l’immissione dei nostri artisti sul mercato europeo. Due esempi virtuosi di rete e circuiti: Open, creazione urbana contemporanea avviato da Pergine Festival, insieme a In\Visible Cities, Zona K, Giardino delle Esperidi, Indisciplinarte e Periferico Festival, che oltre a favorire la creazione di nuovi lavori ogni anno sostenendoli in produzione e residenze creative, si costituisce come un microcircuito. Altro esempio la rete Med’Arte con capofila Tersiscorea di Cagliari che riunisce più di trenta soggetti di produzione e creazione nella danza contemporanea da quattro paesi europei e sette regioni italiane. Lo scopo è fornire ai giovani danzatori diversi strumenti dalla formazione, alla residenza creativa, alla distribuzione al fine di far crescere le loro creazioni.

Da poco è nato un coordinamento dei festival il cui scopo è di cercare di avviare politiche comuni oltreché interfacciarsi unitariamente con il legislatore. Molto resta ancora da fare in questo senso, soprattutto nella professionalizzazione delle curatele non sempre preparate al compito, e nella creazione di vere piattaforme di mercato stabili e continuative, ma i festival restano l’unica vera alternativa di mercato per giovani artisti indipendenti e soprattutto per la danza contemporanea che nei Teatri Nazionali e nei Tric risulta molto meno che marginale, relegata in piccole rassegne fuori abbonamento. I festival però sono stati i veri dimenticati nell’emergenza Covid non avendo ricevuto alcun ristoro. Altra anomalia che sa di beffa: il direttore artistico in Italia non è un mestiere riconosciuto.

I circuiti regionali sono la vera anomalia distributiva italiana. Molto si potrebbe dire sul loro funzionamento o malfunzionamento, ma in questa sede ci limiteremo a indicare le anomalie perché quanto ci preme è evidenziare la fragilità dell’intero sistema così come concepito più che puntare il dito su questo o quell’altro settore. I circuiti regionali dovrebbero essere sulla carta il collegamento tra centro e periferia, il diramarsi delle produzioni dalle piazze centrali a quelle più periferiche. La logica numerica voluta dalla centralità ministeriale (minimi di 220 rappresentazioni all’anno con titolarità di borderò) porta a equiparare territori che in nessun modo possono assomigliarsi e necessiterebbero di politiche distributive proprie. Per farla breve il Molise o la Sardegna non sono la Lombardia o il Piemonte. Il caso Basilicata con successivi fallimenti e male gestioni dovrebbe forse essere analizzato anche secondo questa logica, perché il rischio è che anche se ben gestito, con le attuali normative non potrebbe rispettare comunque i parametri numerici imposti.

Altro caso anomalo è Regione Lombardia che ha lasciato il settore in mano a imprenditori privati in libera concorrenza. Risultato: i circuiti sono ben dodici, di cui solo uno Claps è riconosciuto dal Ministero. In Umbria, regione in cui un circuito non si sarebbe potuto sostenere, il Centro di Residenza C.U.R.A. (Indisciplinarte di Terni, La Mama Umbria International di Spoleto, Centro teatrale Umbro i Gubbio, Micro Teatro Terra Marique di Perugia e GE.CI.TE SOC. COOP. Di Foligno) ha formato un piccolo circuito autonomo. Le difficoltà e le divergenze territoriali come si vede abbondano in un paese disomogeneo come il nostro, dove l’unità pare ottenuta solo di nome e non di fatto. Viste le difficoltà in alcuni territori nell’instaurare un circuito, il legislatore sembra voler dare facoltà a quelli esistenti di estendere le proprie attività a regioni confinanti se non dotate di circuiti, Così Arteven opera nell’intero Triveneto e probabilmente il Piemonte annetterà a livello spettacolare la Liguria.

Oltre a questi vettori principali molto disomogenei nelle politiche, nell’efficacia e nella distribuzione territoriale resta la distribuzione fai da te. Per raggiungere i minimi per i contributi ministeriali infatti molti si “accontentano” di piazze molto periferiche, non professionali e con fondi non adeguati alla professionalità degli artisti. Tali piazze si accettano per ottenere il borderò e cumulare le giornate lavorative ma a cachet molto ridotti. Per integrare si scorporano parte di fondi di produzione. In questo modo se ci si garantisce il raggiungimento dei minimi per concorrere al finanziamento ministeriale, allo stesso tempo si impoverisce il tesoretto per la produzione. Infine i giovani e giovanissimi all’esordio non trovando spazio nei principali circuiti, occupano ogni spazio possibile, spesso in maniera gratuita, senza tecnica, al limite del dilettantesco rischiando così di rimanere invischiati in un anonimato senza speranza. A livello di distribuzione interna quindi il paese sembra un un organismo male assemblato, con i diversi organi che non solo non comunicano tra loro ma paiono far parte di corpi alieni e sconosciuti.

Se la situazione del mercato interno non è rosea per impermeabilità dei sistemi, disomogeneità regionali e anomalie gestionali e normative, sul côte internazionale scarseggiano strumenti sistemici, organismi nazionali dedicati, competenze e soprattutto, una visione e investimenti a lungo raggio.

Innanzitutto mancano istituzioni che investano sull’immissione e la promozione degli artisti italiani sul mercato estero sul modello per esempio di Pro Helvetia in Svizzera, organismo volto a favorire e promuovere le arti in ambito internazionale, o di Alliance Française (organismo che si autosostenta al 95% con i corsi di francese e percepisce dallo Stato solo il 5% del budget). Qualcosa in questo senso fanno i nostri Istituti di Cultura Italiana all’estero ma in maniera disomogenea, saltuaria e con pochi fondi a disposizione per lo più per la copertura di viaggi e le spese di vitto e alloggio. Notiamo che gli Istituti Italiani all’estero sono in numero di 85 contro le circa 1072 di Alliance Française di cui 51 solo in Italia.

Da qualche anno è stato attivato da parte del Ministero il bando Boarding Pass Plus i cui scopi sono: internazionalizzare le carriere e i processi creativi e valorizzare le reciprocità. I progetti ammessi sono ventuno divisi tra danza, musica, teatro, circo e progetti multidisciplinari finanziati per 1.050.000 quindi tra i 40.000€ e i 60.000 €. Una commissione sceglie i progetti tra le domande pervenute e il progetto di sviluppa su un biennio. Oltre a Boarding Pass Plus, ulteriore strumento a disposizione ma limitato a chi è finanziato dal FUS è il Fondo Cultura Estero a sostegno delle tournée italiane, dove la domanda viene sempre valutata da una commissione e le tempistiche di risposta non sono per nulla celeri in quanto solitamente comunicate a fine luglio. Chi venisse invitato dal Festival di Mosca o di Johannesburg ma non accede a questi due unici motori di internazionalizzazione, e nemmeno riesce a instaurare un rapporto con un Istituto Italiano all’estero e quindi magari ottenere dei fondi dal Ministero Affari Esteri, si paga il viaggio oppure resta a casa. E poi ci si domanda perché i nostri artisti siano poco presenti in Europa e nel Mondo?

Sia Bording Pass sia il Fondo Cultura Estero sono dunque interventi estemporanei, limitati, non sistemici e soprattutto sottofinanziati. Per sostenere i nostri artisti all’estero bisognerebbe lavorare su ben altro livello, finanziando in primis ogni soggetto che riceve un invito da un festival o teatro estero indipendentemente che percepisca sostegno dal FUS e aldilà delle valutazioni delle commissioni. Inoltre si dovrebbe sostenere non solo le spese di viaggio ma tutta una serie di attività atte a potenziare e facilitare l’esportazione delle opere dei nostri artisti, dalla sottotitolatura degli spettacoli, al sostegno ai viaggi degli operatori esteri nel nostro paese al fine di visionare opere italiane e soprattutto istituire una o più piattaforme di mercato permanenti in cui favorire gli scambi con l’estero.

La NID platform nella danza si muove in quest’ottica ma con dei difetti congeniti. Innanzitutto è biennale, i lavori ammessi sono in numero troppo ridotto, a produzione chiusa (ossia dopo un debutto) e poco spazio viene concesso ai cosiddetti progetti open, ossia a quelle creazioni in fase iniziale di lavorazione alla ricerca di partner di coproduzione, ambito in cui veramente si potrebbe e dovrebbe potenziare la collaborazione internazionale soprattutto per implementare le scarse fonti di finanziamento alla creazione.

Una modalità per strutturare interventi sul lungo periodo potrebbe essere prendere esempio dal settore cinematografico (vera industria culturale) in cui i grandi festival si sono costituiti come piattaforme di mercato e di incontri tra operatori del settore promuovendo all’interno delle programmazioni, appuntamenti dedicati all’industry con coproduction forum tra paesi europei, pitching di produzione a cui seguono One-to-one tra artisti e produttori, fondi e bandi per le opere prime e seconde (in Italia un esempio è il Torino Film Lab durante il Torino Film Festival, ma il vero modello è Hubert Bals Fund di International Film Festival di Rotterdam). Ovviamente questo significherebbe un radicale rinnovamento del settore che andrebbe finanziato con capitoli di spesa appositi.

Per concludere questo breve excursus sul mercato interno ed estero nel settore dello spettacolo dal vivo, non si può non continuare a notare l’anomalia di voler spingere un settore verso il mercato e l’aziendalizzazione delle sue attività quando mancano tutte le strutture atte a far sì che un impresa operi appunto da impresa. Un’industria culturale che non ha mercato né interno né estero, non possiede risorse proprie a meno che non venga sostenuta da organismi statali o fondazioni private, che non può nemmeno operare pienamente a scopo di lucro a meno di non perdere i fondi di cui sopra, e infine, si trova costretta a proporre ogni anno nuovi prodotti su un mercato saturo in cui l’offerta supera di ben tre volte la domanda, è un’industria che, allo stato dei fatti, può far concorrenza solo al Titanic a meno che non si riveda l’intero sistema.

Da ultimo poi ci si dovrebbe porre la domanda: ma tutto questo sarebbe veramente necessario? Non esistono scenari alternativi? Creare un’industria dello spettacolo dal vivo non cancellerebbe le sue funzioni primarie, quelle politiche e culturali, che ne sono state a fondamento? Questa domanda non nega che ci debba essere sostenibilità dell’impresa, e nemmeno che l’intera produzione abbia solo alte finalità, ma se tutto diventa un prodotto culturale sottoposto a principi esclusivamente economici non si rischia di rendere quasi impossibile la creazione volta a formulare nuovi paradigmi di pensiero? Non si rischia di avere con la comunità-pubblico solo un rapporto economico e non di scambio di relazioni, esperienze, visioni?

Prima di accettare senza discutere la trasformazione voluta da Economia, a cui sembra vengano delegate tutte le risoluzioni dei problemi, benché non sappia nemmeno prevedere le magagne che la riguardano, forse dovremmo farci qualche domanda e considerare se veramente vale la pena saltare sul carro che da quarant’anni ci insegnano essere inarrestabile, benché non cessi di dimostrare quanto proceda a stento e tra crisi continue da lui stesso causate.