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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE IV

:«È questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste». Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?» Mark Fischer realismo capitalista

:«L’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata o modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura». Mark Fischer realismo capitalista

:«Chi si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì» Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

Nel mondo dell’industria culturale qual è il prodotto più ricercato, il top di gamma? A giudicare dalla quantità di bandi, concorsi, residenze, progetti dedicati agli Under 35 si direbbe che i giovani siano la punta di diamante. Ma l’apparenza inganna. Il prodotto “giovani” è l’esempio più esauriente di come i dettami dell’economia di mercato applicate alla cultura falsino le prospettive. Dietro alla possente esposizione del prodotto “giovani” si nascondono pericoli, insidie e purtroppo, a volte, sfruttamento. Malauguratamente non esiste un dato nazionale consultabile per verificare quante opere con autori Under 35 siano sul mercato ogni anno. Sarebbe interessante un tale censimento per comprendere il reale stato di fatto e soprattutto verificare il divario, se esiste, tra produzione ed effettiva circuitazione.

Detto questo non si può non notare come ogni anno sia “obbligatorio” immettere sul mercato un certo numero di opere giovani e questo nonostante il mondo dello spettacolo dal vivo sia, come visto nei precedenti articoli, un settore gravato da iperproduzione, come se non esistesse alternativa professionale alla creazione di spettacoli, soprattutto in giovane età. Il settore giovani quindi sembra affetto dallo stesso morbo iperattivo e ipercinetico dei senior, con l’aggravante di ridurre le loro possibilità professionali e di crescita.

Innanzitutto non si può non notare come le scuole dedicate ai vari settori delle performing arts (Accademie, Scuole legate agli Stabili, Scuola Holden, IED, Etc) abbondino, crescano persino, e immettano sul mercato ogni anno nuova forza lavoro in un panorama economico che stenta, e nel dire stenta siamo ottimisti, a fornire ai propri lavoratori un orizzonte meno che precario. Eppure tutte queste istituzioni, gravate anch’esse da dettami del mercato, quindi di indici di crescita, di numeri e guadagni, sono indotte a vendere per sopravvivere un sogno che tale non è. La retorica imperante è “dare spazio e occasioni alle giovani generazioni” ma, nonostante le buone intenzioni sottese, come fa notare Byung-Chul Han: «il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti».

In effetti i giovani artisti assomigliano molto ai Tributi degli Hunger Games raccontati da Suzanne Collins. Ogni anno i dodici distretti devono fornire a Capitol City ventiquattro giovani, due per distretto, i quali dovranno combattersi a morte nell’arena in un reality concepito per il divertimento dei ricchi e civilizzati cittadini. Per avere più chance di sopravvivenza, i giovani tributi si devono accaparrare i favori degli sponsor, i cui aiuti diventano fondamentali nel combattimento. Alla fine ne rimarrà soltanto uno a ottenere in premio una vita di ricchezza e attenzioni. Il contesto distopico di Suzanne Collins, descrive molto bene il meccanismo del neoliberismo nei confronti delle giovani generazioni: un bacino da sfruttare il più possibile, non importa quante vittime si lascino sulla strada, perché la giovinezza è la novità, la freschezza, lo stato in cui bisogna perdurare per essere cool. Vecchio significa obsoleto, quindi non utilizzabile. L’obsolescenza è il peccato della contemporaneità, la cui punizione inappellabile consiste nel divenire scarto, rifiuto, relitto da smaltire ed eventualmente riciclare. E questo in tutti i settori lavorativi, non solo nelle performing arts. Il cinema, il romanzo e il migliore giornalismo hanno raccontato con dovizia le tragedie di chi, over quaranta, perde il lavoro e come sia difficile rientrarvi e reinventarsi soprattutto nelle posizioni di carriera acquisite.

Viviamo dunque in una società illusa di vivere in un perpetuo presente, in un forsennato update perché, sempre come afferma Byung-Chul Han: «la percezione seriale non indugia mai». Fermarsi significa morire e per questo è diventato lo stimolo principale nella caccia di nuovi talenti che presto diventano obsoleti e, nel caso specifico dello spettacolo dal vivo, non a caso hanno una data di scadenza: trentacinque anni, oltre i quali ecco che svaniscono bandi, sostegni, fondi. L’orizzonte improvvisamente si fa ristretto e grigio. Conseguenza: o ti sei fatto un nome, un certo giro di solidi contatti e ottenuto una certa stabilità amministrativa entro i trentacinque (e non è detto che basti) o sei condannato a un inevitabile destino di obsolescenza.

Marinetti nel Manifesto del Futurismo 1909 scriveva: «I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili». Non immaginava certo che lo avrebbero preso alla lettera. E pensare poi che la data di scadenza si sta anche notevolmente abbassando. Già si intravedono i bandi Under 30 e persino Under 25.

Questa gara sull’età conduce a una serie di nefaste conseguenze. Proviamo a esaminarle, premettendo che gli strumenti volti a dare sostegno agli Under sono nati con le migliori intenzioni e con lo scopo effettivo di tentare di aiutare le nuove generazioni in un paese senescente. Quando apparvero nel panorama italiano furono una vera ventata di speranza e novità. Nella maggior parte dei casi sono stati pensati come strumenti di agevolazione nell’entrata del mondo del lavoro. Quindi onore al merito a chi ha contribuito al tentativo di dare ai giovani delle possibilità concrete per sviluppare la propria arte. Non si vuole quindi in questa sede fare alcun processo ma cercare di individuare le criticità che il sistema neoliberista inevitabilmente crea pervertendo tutto alle proprie logiche.

Il problema principale è che tali strumenti sono stati tarati solo sull’età, e per la massima parte non a sostegno dell’intera filiera. Si potrebbe prendere esempio dal mondo cinematografico dove nel processo di immissione nella filiera produttiva si finanziano le opere prime, seconde e terze, come avviamento al lavoro e inseguito prevedere altri tipi di sostegni più atti allo sviluppo. Nelle arti performative si sostiene invece quasi interamente la sola produzione e, inevitabilmente tutte queste nuove opere vanno solo ad alimentare un mercato stantio e intasato, e una forsennata gara al debutto prima possibile, perfino quando non si è minimamente pronti per affrontare il pubblico o il mondo del professionismo. Inoltre si è creato un mercato a basso cachet tutt’altro che virtuoso.

Prima e più evidente conseguenza è dunque la mercificazione delle giovani generazioni. Esse si trovano nella scomoda posizione di essere commercializzate e sfruttate il più a lungo e il prima possibile, da una parte indotte a produrre a ritmi forsennati, e in seguito a spendere e spendersi per ottenere luce e visibilità. Prolificano le occasioni vendute ai giovani, siano essi concorsi o residenze, in cui questi devono immettere risorse proprie per pagarsi praticamente tutto (viaggio, vitto, alloggio, e produzione, oltre a lavorare praticamente gratis o a cachet ridicoli), nell’illusione e nella speranza di poter vincere un premio, un residenza in un festival importante, ottenere una data in più, essere visti da chi di dovere. Anche quando pagati, i giovani hanno, come detto e come accade anche in altri settori lavorativi, cachet bassi, a volte in maniera misera e risibile, i quali vengono accettati proprio nell’ottica della “gavetta”, di un percorso inevitabile, condizionato, obbligato e persino necessario. Dire di no è difficile, così come contrattare, soprattutto se non si hanno molte carte in mano e dietro di te c’è una fila affamata pronta ad accettare anche di meno. In molti casi dunque i giovani si vampirizzano invece di offrire loro delle vere occasioni di crescita. E questo processo non è in atto da pochi anni ma da almeno tre decenni.

L’eccessivo focalizzare sulla produttività e creatività conduce i giovani inoltre a farsi autori anzitempo, tralasciando il lavoro di bottega necessario per l’acquisizione di tecniche indispensabili per formarsi un linguaggio autonomo. Il lavoro con il maestro e il necessario scontro con la sua autorità è un processo necessario per un’indipendenza linguistica e formale. Una vera formazione “a bottega” richiede però tempo, unica cosa che manca nella società iperveloce e cronofaga che abitiamo. La data di scadenza si avvicina e la spinta a produrre con i relativi finanziamenti comporta che una volta finite le scuole, la formazione si parcellizzi in mini corsi, stage di pochi giorni, con più maestri possibili dove si “assaggiano” le varie tecniche senza approfondirle, degustazione agita soprattutto a fini curricolari. Persino in molte residenze creative, luoghi pensati per la creazione e sperimentazione, la necessità della restituzione a un pubblico ha portato all’emersione di sottoprodotti incompleti e creati nell’ansia di un “mini debutto”, a creare dunque prima quasi di pensare lo spettacolo nella sua interezza e organicità. Anche dove si dovrebbe avere solo il tempo e il luogo per riflettere sul proprio mondo creativo, l’obbligo di produrre e l’imperio del borderò fanno sentire la propria frusta. Ai giovani viene tolto quindi lo spensierato peregrinare, il placet experiri. Tutto deve essere finalizzato e monetizzato prima che sia troppo tardi.

Alfred Kubin Austrian school. Suicide, Selbstmord Etching. (Photo by Photo 12/ Universal Images Group via Getty Images)

Per produrre bisogna vincere i bandi che, come abbiamo visto, nella quasi totalità dei casi hanno obiettivi già previsti. In questo contesto diventa assai difficile una ricerca verso un proprio mondo estetico-formale e politico. Il rischio è accontentare il committente per ottenere i finanziamenti e ancora incrementare il proprio curriculum affinché diventi il più concorrenziale possibile, saltando di argomento in argomento senza una vera logica autoriale. Corollario inevitabile è l’assomigliarsi dei temi e delle opere, e così si finisce per intasare ulteriormente un mercato già asfittico di prodotti in serie. La vita delle opere dei giovani è brevissima spesso, proprio perché il numero è esorbitante per il piccolo mercato teatrale dove, come visto nei precedenti articoli, la distribuzione è alquanto difficoltosa e a compartimenti stagni. In questo contesto ciò che importa è ancora una volta l’età più che il loro nome o il loro lavoro.

Le produzioni ottenute attraverso vittorie di bando prevedono poi vari percorsi di tutoraggio. Tali osservatori e sguardi esterni hanno preso il posto del maestro. Oggi i consigli vengono erogati professionalmente in forma di consulenza, tutto è in forma positiva, di consiglio per il tuo bene, si è cancellato l’agonismo intellettuale tra le diverse generazioni. E così si corre il rischio di generare l’Effetto Parasite, ossia l’emulazione anziché la rivolta. Le generazioni devono vivere in opposizione se si vuole innescare un vero ricambio generazionale di linguaggi. Il passaggio di testimone non è mai indolore sebbene non sia cruento. È un necessario rito doloroso. Nel buddismo Zen è nota la massima :”se incontri il Buddha uccidilo” e non è certo un invito al delitto, ma un segnalare il pericolo che il Buddha stesso possa diventare un legame e un impedimento nel raggiungimento della perfezione. A un certo punto i tutor vanno rigettati perché troppe attenzioni genitoriali finiscono con impedire una vera indipendenza. Da qui si genera la frustrazione degli esami perenni,l’ansia di non essere mai pronto, abbastanza aggiornato, abbastanza maturo.

Ulteriore criticità che sembra in qualche modo smentire la precedente, ma è solo apparenza essendo solo un effetto complementare. La positività univoca in cui siamo tutti immersi crea un brutto rapporto con la critica. Questa, da qualsiasi parte provenga, mette in crisi le fragilità ma, se fatta in buona fede, non è volta a distruggere ma a far crescere, a mettere in luce quelle parti del lavoro su cui è necessario lavorare, ma nel mondo in cui abitiamo, dedicato alla concorrenza più sfrenata e in cui ogni fallimento è visto come inappellabile e da nascondere sotto il tappeto, non si può proprio dire che un lavoro non funziona. Eppure la caduta, e il relativo confronto rispetto ad essa, è un necessario percorso sulla via difficile della creazione artistica. Dalle cadute si impara a camminare, e sono i fallimenti più cocenti quelli che insegnano e fortificano. Avere un giusto rapporto di distacco con le critiche e le bocciature è fattore importante per la crescita personale. Invece la vita nel modello neoliberista ci impone un dover essere sempre in un costante presente di successo da condividere sui social, ottenendo like e attenzione, anche se tutto questo dura meno della caduta di Atlantide, sommersa in una notte e un giorno. Non ci si può permettere di sbagliare e così ogni report negativo è un affronto personale e non un gradino necessario alla formazione di un proprio linguaggio.

Michel Huellebecq dice: «oggi non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte». Il nostro mondo induce a limitare, se non eliminare, il rischio. In genere lo si affronta in maniera molto calcolata e cinica, cercando di capire dove soffia il vento e così ciò che appare nuovo invece è la riproposizione di modelli vincenti riadattati (non a caso in ogni settore dell’industria creativa e culturale vanno alla grande la cover, il remake, il riciclo). Anche come pubblico, come dice Mark Fisher: «abbiamo rinunciato ad aspettarci sorprese dalla cultura: e ciò vale sia per la cultura “sperimentale” che per la cultura pop». Dai giovani soprattutto non ci aspettiamo più che ci sciocchino, o ci sfidino. Li andiamo a vedere con la coscienza di chi aiuta un bisognoso, con un certo paternalismo. È come se fosse subentrato un bisogno di protezione del quale i giovani non hanno punto bisogno. Necessitano di reali possibilità di giocarsi il proprio futuro non di ipocrite gentilezze.

La mancanza di sorpresa è una certa stanchezza inventiva nonché la riposizione dei cliché è un processo storicamente iniziato decenni fa quanto il capitalismo è diventato l’unico modello a cui fare riferimento e si è espanso come un corpo estraneo in attività e settori incompatibili con il modello economico proposto. La cronofagia legata al neoliberismo ha fatto il resto. Non c’è tempo per studiare, valutare, fare esperienza. Produrre è l’imperativo univoco che viene urlato ad ogni cantone e nel fracasso si fanno evanescenti tutte le altre possibilità meno roboanti. Ci sarebbe davvero bisogno di un po’ di silenzio.

Nell’uniformità, quello che Byung-Chul Han chiama “l’inferno dell’eguale”, è sparita qualsiasi forma di opposizione o, meglio, le opposizioni vengono subito riassorbite dal sistema. Come dice Badiou, lo scandalo è solo l’eccezione, la parte evidente di un modello basato sulla corruzione, e in quanto eccezione è nel sistema, non si oppone ad esso. Sono come i glitch in Matrix, il sistema che riaggiorna se stesso e corregge gli errori. Come suggerisce Mark Fisher l’unica via di uscita a un sistema di perenne consenso è che: «il nemico oggi può essere meglio definito come capitalismo creativo, e la sua sconfitta richiederà non l’invenzione di nuovi modelli di positività, ma di nuove forme di negazione».

Se abbiamo iniziato dunque questo articolo con l’immagine gladiatoria degli Hunger Games concludiamo con l’immagine di un’altra visione della fantasia, quella di Tito di Gormenghast il quale, unico giovane erede di un vetusto e polveroso reame colmo di vuote ritualità e di congiure da operetta, decide di rinunciare al regno, di andare per il mondo e scoprire se esista un’alternativa. Essa esiste. Va costruita, pensata, immaginata, e necessita di molti fallimenti e soprattutto di molti dinieghi. Nel modello di progresso posto di fronte davanti a noi come una superstrada infinita verso successi sempre più clamorosi, se facciamo un passo di lato ecco subito l’apparire dietro il grande e ostentato ottimismo, l’aura di morte che spira e conduce tutti anzitempo nel limbo dell’obsolescenza e da questo solo i giovani ci possono salvare. L’importante è dar loro le giuste opportunità soprattutto in un paese ipocrita in cui il ricambio generazionale e la parità di genere sono tutt’altro che agevolati.

CHIAMALACULTURA: INTERVISTA A ENZO FRAMMARTINO CANDIDATO AL CONSIGLIO COMUNALE DI TORINO

Ieri sera, giovedì 05 maggio alle ore 19, al Fluido di Torino sulla terrazza che da sul Po, sono andato ad ascoltare il programma per le politiche culturali del candidato PD al consiglio comunale di Torino di Enzo Frammartino. Sono sempre scettico, tremendamente scettico e disilluso, quando sento un candidato che parla di strategie di politiche culturali in tempi di elezione. Le promesse elettorali in questo paese trovano raramente, se non mai, spazio nella vita reale una volta raggiunto lo scopo. Per cui sono andato per curiosità, per sentire sulla carta se ci fosse un vago e raro spiraglio di apertura che lasciasse intendere per lo meno la volontà di trapassare il muro del consueto. Le politiche culturali in Italia sono in uno stato di abbandono, ne abbiamo già parlato molte volte su queste pagine: produzione incancrenita in schemi obsoleti, distribuzione inesistente, nessuna attenzione al contemporaneo, nessun sostegno alla ricerca e alle sue metodologie, teatri stabili e enti lirici affossati da debiti e ingessati in programmazioni veterotestamentarie, giovani generazioni allo sbando, i trenta e quarantenni disillusi, sfiduciati, alla ricerca spasmodica della fuga all’estero, costantemente alla rincorsa di un bando che faccia racimolare quattro soldi per la sopravvivenza. E non parliamo poi che nel paese dello spreco costante e assoluto, se si deve tagliare qualcosa, la prima voce, chissà perché, è sempre la cultura. Ma cos’è la cultura? Da una parte, potremmo affermare, per dirla con Simmel, che sono tutti quei prodotti dello spirito che partono dall’io per tornare all’io, ossia tutti quei fenomeni che permettono all’io, io direi alla comunità, di riflettere su se stessa, di affrontare ciò che la tormenta, che la scuote, che la inquieta. Uno sguardo sulla vita del mondo in tutti i suoi aspetti e fenomeni, uno sguardo tagliente che induca a riflettere, a scostare il velo del quotidiano e scoprire ciò che fa fremere la vita intorno e dentro la società.

Poi c’è l’enterteinment. Prodotti intesi al passare lietamente il tempo. Ciò che ci permette di dimenticare per un momento le noie della vita, i problemi che ci affliggono. L’intrattenimento è utile, serve. Mica si può stare a spaccarsi il cranio tutto il giorno, c’è bisogno anche di sollievo, di divertimento, di leggerezza.

E infine c’è il patrimonio culturale acquisito dal passato. Questo in Italia è enorme. Il più grande del mondo. E questo pesa come un macigno sull’oggi. Mantenerlo, tenerlo in buono stato di conservazione, renderlo visibile e accessibile. Marinetti già nel 1909 affermava che questo patrimonio era un freno al contemporaneo, impediva all’oggi di emergere con tutta la sua potenza. Ovviamente estremizzava per far comprendere un problema reale. Oggi potremmo dire che il necessario sostegno e mantenimento di quel nostro glorioso passato culturale assorbe tre quarti del budget disponibile. E questo è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che dobbiamo far cadere Pompei, per sostenere la cultura di oggi. Vuol semplicemente dire che devono essere due problemi separati. La cultura di oggi non è quella di ieri e non ha gli stessi problemi. Dovrebbe occuparsene un ministero diverso, un assessorato diverso. Perché il patrimonio culturale italiano del passato può essere fonte di turismo, di impiego, di immagine del nostro paese.

Ma anche la cultura di oggi può e dovrebbe essere volano di economia. Perché ciò avvenga però sono necessarie delle politiche forti che disarticolino e scardinino le pratiche invalse negli ultimi venticinque anni in questo Paese. Carmelo Bene già negli anni ’80 affermava con forza che la ricerca era negletta agli occhi delle istituzioni. Il lavoro dell’artista che cerca nuove forme e nuovi linguaggi non era riconosciuto. L’occhio era puntato sul risultato, senza considerare il lavorio estenuante e lungo di ricerca. Oggi di fronte a questo si risponde con il sistema delle residenze: dieci giorni qui, sette là, due da un’altra parte. Come se questo bastasse, ma basto solo a calmare la coscienza e a dire che in fondo si fa pur qualcosa. E si nasconde con questo discorso che le residenze servono più a chi le organizza che a chi le fa. Inoltre mancano gli spazi, l’accessibilità a luoghi di prova e ricerca. Quasi inesistente la possibilità di sperimentare su grandi pezzature. Ci si limita a piccoli spazi, al monologo, al solo, al duo. E come si formano le competenze quando a muoversi sulla scena sono dieci persone su grandi spazi?

Difficile l’accesso a professionisti che si occupano di produrre il lavoro di un artista. La figura del produttore di teatro o di danza contemporanea, è inesistente se non a livelli di musical e grandissime produzioni. L’artista solo deve occuparsi anche di questi aspetti sottraendosi al lavorio artistico che gli compete. Il produttore è figura fondamentale sia per le competenze che mette in campo, ma anche perché protegge e solleva l’artista dalla burocrazia. Permette che il lavoro di ricerca sia protetto e fecondo. Ma tali figure mancano quasi totalmente.

Poi c’è la distribuzione dei lavori che faticosamente, quasi senza sostegno, vengono alla luce. La distribuzione quasi non c’è. Non si sono occasioni per smuovere il mercato, per attirare i buyers, per offrire il prodotto italiano contemporaneo all’estero e all’Europa e non solo all’Italia. Anziché creare le condizioni di esportare l’eccellenza italiana, proteggendola come fosse un grande marchio, si lascia che l’emorragia di cervelli svuoti questo Paese, che intere generazioni fuggano oltre confine arricchendo gli altri.

E tutto questo tralasciando l’accessibilità al sostegno, necessario come il pane. I bandi privilegiano il noto e il grande evento, tralasciando ciò che emerge, e che non ha una rete sufficientemente allargata o strutture associative importanti. La piccola compagnia, l’artista singolo, il giovane che tenta di emergere, l’outsider. Non si privilegia in sede di valutazione il progetto di ricerca in sé, ma i suoi aspetti economici, dimenticandosi che il valore economico di un’opera d’arte, quale essa sia, non è certo e che i nuovi linguaggi per affermarsi, necessitano di tempo. Il loro successo non è immediato. E la storia dell’arte è piena di fenomeni negletti che sono diventati importanti dopo anni se non decenni.

E il problema non ce l’hanno solo gli artisti ma anche gli operatori di festival, i direttori artistici costretti a lavora al buio sui finanziamenti, con delibere che vengono emanate post eventum, a fronte della concorrenza europea che può contare su programmazioni a legislatura.

A fronte di questi problemi che ho trattato velocemente, a volo d’uccello, solo per accenni, ma, lo sapete, se ne potrebbe parlare per ore, il ruolo della politica diventa fondamentale. Ecco perché sono andato a sentire cosa il candidato Enzo Frammartino vorrebbe fare per la cultura di questa città che abito e ho imparato ad amare come fosse la mia.

E dalle sue parole ho intravisto una sincera passione, una volontà di far bene. Ma ho anche sentito parole che ricalcano schemi obsoleti. Bisogna pensare laterale, essere imprevisti e imprevedibili, per far fronte a un’emergenza e a problemi che il Paese e la città si trascina da decenni. Ho sentito il progetto di far emergere ciò che non è a sistema per farlo rientrare nel sistema, la volontà di mettere tutti in rete, di far diventare la cultura un volano economico per la città. Ma ho sentito parole più rivolte alle grandi mostre e ai grandi eventi più che alle fasce deboli del sistema. Per cui alla fine della sua presentazione gli ho chiesto un’intervista che riporto. Frammartino mi ha concesso il suo tempo e ha cercato di spiegarmi cosa intende davvero fare. Io gli auguro, se verrà eletto, e sottolineo che non mi interessa minimamente a che partito appartenga, che ascolti più le critiche che i complimenti, che faccia le cose giuste anche se questo dovesse alienargli i consensi, che sappia essere veramente un attore di una politica seria e innovativa. E così mi aspetto da da chiunque venga eletto.

EP: Come intendi attuare il programma che hai presentato? Intendo nella pratica, perché serva veramente agli artisti e al loro lavoro quotidiano.

EF: Per quanto riguarda la cultura dobbiamo cercare di mettere a sistema quella che è l’offerta, settore per settore. Faccio degli esempi così magari è più chiaro. Noi abbiamo un problema serissimo, per esempio, nel teatro, dove abbiamo tantissimi operatori accomunati da un’unica cosa: di essere generalmente delle monadi straordinarie, di grande valore, ma che hanno poca interazione con gli altri soggetti. Ognuno di loro va messo a sistema, bisognerebbe cercare di costruire una rete con i grandi teatri e le grandi istituzioni del teatro con i piccoli soggetti che stanno facendo dei progetti di ricerca straordinari. Così facendo siamo in grado di costruire un sistema teatrale più forte, un sistema teatrale che condivida le risorse sia sul piano economico, ma anche sul piano delle risorse umane, degli spazi. Attraverso una rete possiamo fare dei progetti europei per recuperare delle risorse che non riusciremmo a prendere diversamente, mettendo in rete il lavoro che si fa sul territorio, perché per vincere un bando europeo serve una rete locale, e serve poi una rete internazionale. Quindi se il TPE ha dei contatti importanti a livello internazionale e li mette a sistema con quelli che ha il Teatro Stabile e con quelli che hanno altri soggetti più piccoli, noi saremmo in grado di ottenere delle risorse in più, ma saremmo in grado anche di avere un sistema più ricco anche per il pubblico e a un’offerta più interessante.

EP: Questo è un discorso importante. Ma c’è un però. Gli strumenti che sono predisposti dalle istituzioni non tengono conto delle reali esigenze degli artisti. I bandi bancari, per esempio, privilegiano l’aspetto economico finanziario a quello artistico, non tengono conto dell’accessibilità agli spazi, e delle condizioni reali di lavoro che spesso si avvicinano al volontariato, con associazioni che accedono a fondi limitati benché i loro progetti abbiamo un reale valore di ricerca. E questo impedisce loro l’accessibilità a tali fondi. Tali strumenti sono spesso motivo di isolamento e frustrazione più che un reale aiuto. Privilegiano chi è già a sistema più che dare un’opportunità a chi è fuori dal sistema.

EF: Guarda normalmente mi propongono di fare degli spazi dedicati alla ricerca, e nell’arte questo è un tema tutto aperto che va realizzato. Ma pensare di fare quegli spazi lasciandoli liberi diciamo di progettazione e totalmente scollegati dal sistema è perfettamente inutile. Noi creeremmo dei buchi neri, perché anche se quei ragazzi trovano delle cose, rimarrà lì e morirà lì. Se noi non costruiamo dei sistemi scalabili, in cui tu puoi partire dal basso, fare ricerca, avere una formazione, perché nessuno nasce imparato, avere una formazione di livello e dopodiché riuscire ad agganciare un sistema di risorse, perché una rete la devono fare anche coloro che governano, perché è assurdo che ci sia un bando bancario che abbiamo criteri diversi da quelli del bando della Regione e da quelli del Comune. Occorre mettersi tutti insieme, studiare quali siano i criteri che, secondo me, aggancino il più possibile quelli che sono i parametri europei, in maniera tale dove ci sia un fondo europeo intercettato, c’è sia anche un fondo regionale intercettato, meglio anche se ci sono dei bandi nazionali a cui si può accedere, per provare a non disperdere le risorse, fare con queste un progetto di carattere formativo serio e poi abbinare a tutto questo il circuito teatrale. A un giovane bisogna anche spiegare che il problema non è fare una data in più a Torino ma cominciare a costruire un percorso che lo porti fuori da Torino.

EP: Prima però nel tuo discorso hai parlato dei trenta e quarantenni di coloro che insomma la loro formazione l’hanno già fatta e necessitano di altro, di distribuzione e produzione più che di formazione.

EF: Si io parlavo prima di classe dirigente. L’investimento va fatto sui ventenni.

EP: Questo però significa che da questo progetto si taglia fuori la generazione dei trenta e quarantenni, quelli che si sono fatti la gavetta in condizioni miserevoli e che vengono nuovamente abbandonati a se stessi.

EF: Sì, quelli bisogna recuperarli. Però bisogna anche essere meritocratici, perché se a quarantanni tu non sei formato, io ti assicuro che tu non sarai disponibile a questi percorsi.

EP: Io però non sto parlando di chi non è formato, ma di coloro che, e ti potrei fare tantissimi esempi perché conosco molto bene l’ambiente, che hanno altissima formazione e non trovano spazio nel sistema perché il sistema non è fatto per accoglierli.

EF: Quindi coloro che esprimono qualità e non vengono intercettati.

EP: Esatto. Sono coloro che hanno subito il malcostume in ambito di politica culturali degli ultimi vent’anni, che hanno creduto in questo paese, e che nonostante il loro valore sono rimasti sommersi. E quindi questi cosa sono? Sacrificabili? Ancora una volta?

EF: Questo è un problema che non riguarda solo la cultura, riguarda tutto il Paese. Se hai fatto attenzione a quello che ho detto prima quando dicevo :”siamo troppo giovani per… e in un attimo siamo troppo vecchi per…” è un problema che è avvenuto su un’intera generazione, forse su due generazioni, perché chi ha preso il potere, inteso nel senso di luoghi di potere, in tutti i settori, trent’anni fa, sono ancora le persone che hanno in mano quel potere. E questo non ha consentito di includere dei contemporanei e se tu vuoi fare un città contemporanea devi includere i contemporanei.

EP: Sì però se si parla di formazione, di residenze formative, non si include veramente quella fascia di artisti.

EF: Quello è un pezzo del ragionamento. Non è che le cose si limitano a quello. Fare un investimento formativo sulle nuove generazioni, sui ventenni che si affacciano sulla scena culturale, non vuol dire che non si faccia anche un investimento sui quarantenni. Quelli devono essere già pronti a prendere il posto.

EP: Sì, sono d’accordo, però vedi il sistema oggi prevede quasi solo ed esclusivamente residenze. E queste non sono così utili. Non è che due settimane aiutano la mia ricerca. Ci vorrebbero altri strumenti che garantiscano ad artisti già formati di poter effettuare il loro lavoro. Garantendo loro tempo e strumenti. Luoghi e supporti produttivi e distributivi. La formazione l’hanno già fatta anche se non si finisce mai di imparare.

EF: Ti dico una cosa: non credo che sia giusto pensare che si smetta completamente di formarsi nelle varie fasi della vita. Siamo solo noi italiani che pensiamo di essere arrivati.

EP: Sì, d’accordo, ma all’estero, e sono stato all’estero, uno a quarantanni non è considerato uno da formare. È considerato un artista maturo, nel fiore dei suoi anni e che può già esprimersi con un linguaggio complesso e personale.

EF: Questo è evidente, ma in tutto il mondo esiste la formazione continua. Da noi no. Noi abbiamo delle persone che spesso già si ritengono arrivate già a trentanni e non continuano a perfezionarsi e questo è un danno. Poi c’è un altro problema che sottende a quello che tu stai dicendo. Il problema di come a un certo punto, ok sono preparato, comincio a essere in grado di, come vengo incluso all’interno dei sistemi? C’è un sistema permeabile, scalabile, chiamalo come vuoi che mi consente di arrivare al vertice di strutture sulla base della preparazione e del merito che ho avuto anche senza essere del solito giro? Questa è la partita vera. La scommessa vera è qua. Ma io questo non lo dico nell’interesse dei quarantenni bravi che abbiamo e che rischiamo di perdere se non interveniamo, lo dico nell’interesse della città. Perché quello che dicevo prima è esattamente questo: io penso di poter dare in questa sfida proprio la mia contemporaneità, nel fatto che vada a visitare certi laboratori, che vada in certi locali dove si sta facendo cultura, e vada ad incontrare delle cose nuove in spazi e luoghi che mio padre non avrebbe frequentato.

EP: Io quello che però voglio dirti, la causa che voglio perorare in questa nostra conversazione, è che i quarantenni di valore, quelli che hanno combattuto e creduto in questo paese, cominciano a non crederci più, guardano oltre confine, cercano la fuga. E questo è un danno non solo per la città ma per il paese. Si perde della ricchezza perché non le si da luce. E a questo cercare delle soluzioni immediate. Trovare sistemi che ridiano fiducia e permettano a questa gente, e ne conosco tanti che hanno vinto premi nazionali, che hanno fatto cose importanti, che stanno smettendo perché non c’è spazio, non ci sono fondi, non c’è distribuzione. Questa è la sfida se vuoi veramente occuparti di cultura.

EF: Bisogna dare delle opportunità e ridare fiducia, questo è certo. Il problema non è sono non far fuggire quelli che abbiamo. Poi in un mondo globale è anche normale che qualcuno cerchi fortuna altrove, o che trovi opportunità interessanti da un’altra parte e le colga. La cosa importante è anche accogliere quello che viene da fuori. Questa è una città universitaria, piena di Erasmus, che raccontano di una città fighissima, ma poi vanno via perché non trovano l’opportunità di continuare. La sfida vale per le opportunità per i torinesi, ma vale anche per chi viene da fuori.