Ieri sera, giovedì 05 maggio alle ore 19, al Fluido di Torino sulla terrazza che da sul Po, sono andato ad ascoltare il programma per le politiche culturali del candidato PD al consiglio comunale di Torino di Enzo Frammartino. Sono sempre scettico, tremendamente scettico e disilluso, quando sento un candidato che parla di strategie di politiche culturali in tempi di elezione. Le promesse elettorali in questo paese trovano raramente, se non mai, spazio nella vita reale una volta raggiunto lo scopo. Per cui sono andato per curiosità, per sentire sulla carta se ci fosse un vago e raro spiraglio di apertura che lasciasse intendere per lo meno la volontà di trapassare il muro del consueto. Le politiche culturali in Italia sono in uno stato di abbandono, ne abbiamo già parlato molte volte su queste pagine: produzione incancrenita in schemi obsoleti, distribuzione inesistente, nessuna attenzione al contemporaneo, nessun sostegno alla ricerca e alle sue metodologie, teatri stabili e enti lirici affossati da debiti e ingessati in programmazioni veterotestamentarie, giovani generazioni allo sbando, i trenta e quarantenni disillusi, sfiduciati, alla ricerca spasmodica della fuga all’estero, costantemente alla rincorsa di un bando che faccia racimolare quattro soldi per la sopravvivenza. E non parliamo poi che nel paese dello spreco costante e assoluto, se si deve tagliare qualcosa, la prima voce, chissà perché, è sempre la cultura. Ma cos’è la cultura? Da una parte, potremmo affermare, per dirla con Simmel, che sono tutti quei prodotti dello spirito che partono dall’io per tornare all’io, ossia tutti quei fenomeni che permettono all’io, io direi alla comunità, di riflettere su se stessa, di affrontare ciò che la tormenta, che la scuote, che la inquieta. Uno sguardo sulla vita del mondo in tutti i suoi aspetti e fenomeni, uno sguardo tagliente che induca a riflettere, a scostare il velo del quotidiano e scoprire ciò che fa fremere la vita intorno e dentro la società.
Poi c’è l’enterteinment. Prodotti intesi al passare lietamente il tempo. Ciò che ci permette di dimenticare per un momento le noie della vita, i problemi che ci affliggono. L’intrattenimento è utile, serve. Mica si può stare a spaccarsi il cranio tutto il giorno, c’è bisogno anche di sollievo, di divertimento, di leggerezza.
E infine c’è il patrimonio culturale acquisito dal passato. Questo in Italia è enorme. Il più grande del mondo. E questo pesa come un macigno sull’oggi. Mantenerlo, tenerlo in buono stato di conservazione, renderlo visibile e accessibile. Marinetti già nel 1909 affermava che questo patrimonio era un freno al contemporaneo, impediva all’oggi di emergere con tutta la sua potenza. Ovviamente estremizzava per far comprendere un problema reale. Oggi potremmo dire che il necessario sostegno e mantenimento di quel nostro glorioso passato culturale assorbe tre quarti del budget disponibile. E questo è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che dobbiamo far cadere Pompei, per sostenere la cultura di oggi. Vuol semplicemente dire che devono essere due problemi separati. La cultura di oggi non è quella di ieri e non ha gli stessi problemi. Dovrebbe occuparsene un ministero diverso, un assessorato diverso. Perché il patrimonio culturale italiano del passato può essere fonte di turismo, di impiego, di immagine del nostro paese.
Ma anche la cultura di oggi può e dovrebbe essere volano di economia. Perché ciò avvenga però sono necessarie delle politiche forti che disarticolino e scardinino le pratiche invalse negli ultimi venticinque anni in questo Paese. Carmelo Bene già negli anni ’80 affermava con forza che la ricerca era negletta agli occhi delle istituzioni. Il lavoro dell’artista che cerca nuove forme e nuovi linguaggi non era riconosciuto. L’occhio era puntato sul risultato, senza considerare il lavorio estenuante e lungo di ricerca. Oggi di fronte a questo si risponde con il sistema delle residenze: dieci giorni qui, sette là, due da un’altra parte. Come se questo bastasse, ma basto solo a calmare la coscienza e a dire che in fondo si fa pur qualcosa. E si nasconde con questo discorso che le residenze servono più a chi le organizza che a chi le fa. Inoltre mancano gli spazi, l’accessibilità a luoghi di prova e ricerca. Quasi inesistente la possibilità di sperimentare su grandi pezzature. Ci si limita a piccoli spazi, al monologo, al solo, al duo. E come si formano le competenze quando a muoversi sulla scena sono dieci persone su grandi spazi?
Difficile l’accesso a professionisti che si occupano di produrre il lavoro di un artista. La figura del produttore di teatro o di danza contemporanea, è inesistente se non a livelli di musical e grandissime produzioni. L’artista solo deve occuparsi anche di questi aspetti sottraendosi al lavorio artistico che gli compete. Il produttore è figura fondamentale sia per le competenze che mette in campo, ma anche perché protegge e solleva l’artista dalla burocrazia. Permette che il lavoro di ricerca sia protetto e fecondo. Ma tali figure mancano quasi totalmente.
Poi c’è la distribuzione dei lavori che faticosamente, quasi senza sostegno, vengono alla luce. La distribuzione quasi non c’è. Non si sono occasioni per smuovere il mercato, per attirare i buyers, per offrire il prodotto italiano contemporaneo all’estero e all’Europa e non solo all’Italia. Anziché creare le condizioni di esportare l’eccellenza italiana, proteggendola come fosse un grande marchio, si lascia che l’emorragia di cervelli svuoti questo Paese, che intere generazioni fuggano oltre confine arricchendo gli altri.
E tutto questo tralasciando l’accessibilità al sostegno, necessario come il pane. I bandi privilegiano il noto e il grande evento, tralasciando ciò che emerge, e che non ha una rete sufficientemente allargata o strutture associative importanti. La piccola compagnia, l’artista singolo, il giovane che tenta di emergere, l’outsider. Non si privilegia in sede di valutazione il progetto di ricerca in sé, ma i suoi aspetti economici, dimenticandosi che il valore economico di un’opera d’arte, quale essa sia, non è certo e che i nuovi linguaggi per affermarsi, necessitano di tempo. Il loro successo non è immediato. E la storia dell’arte è piena di fenomeni negletti che sono diventati importanti dopo anni se non decenni.
E il problema non ce l’hanno solo gli artisti ma anche gli operatori di festival, i direttori artistici costretti a lavora al buio sui finanziamenti, con delibere che vengono emanate post eventum, a fronte della concorrenza europea che può contare su programmazioni a legislatura.
A fronte di questi problemi che ho trattato velocemente, a volo d’uccello, solo per accenni, ma, lo sapete, se ne potrebbe parlare per ore, il ruolo della politica diventa fondamentale. Ecco perché sono andato a sentire cosa il candidato Enzo Frammartino vorrebbe fare per la cultura di questa città che abito e ho imparato ad amare come fosse la mia.
E dalle sue parole ho intravisto una sincera passione, una volontà di far bene. Ma ho anche sentito parole che ricalcano schemi obsoleti. Bisogna pensare laterale, essere imprevisti e imprevedibili, per far fronte a un’emergenza e a problemi che il Paese e la città si trascina da decenni. Ho sentito il progetto di far emergere ciò che non è a sistema per farlo rientrare nel sistema, la volontà di mettere tutti in rete, di far diventare la cultura un volano economico per la città. Ma ho sentito parole più rivolte alle grandi mostre e ai grandi eventi più che alle fasce deboli del sistema. Per cui alla fine della sua presentazione gli ho chiesto un’intervista che riporto. Frammartino mi ha concesso il suo tempo e ha cercato di spiegarmi cosa intende davvero fare. Io gli auguro, se verrà eletto, e sottolineo che non mi interessa minimamente a che partito appartenga, che ascolti più le critiche che i complimenti, che faccia le cose giuste anche se questo dovesse alienargli i consensi, che sappia essere veramente un attore di una politica seria e innovativa. E così mi aspetto da da chiunque venga eletto.
EP: Come intendi attuare il programma che hai presentato? Intendo nella pratica, perché serva veramente agli artisti e al loro lavoro quotidiano.
EF: Per quanto riguarda la cultura dobbiamo cercare di mettere a sistema quella che è l’offerta, settore per settore. Faccio degli esempi così magari è più chiaro. Noi abbiamo un problema serissimo, per esempio, nel teatro, dove abbiamo tantissimi operatori accomunati da un’unica cosa: di essere generalmente delle monadi straordinarie, di grande valore, ma che hanno poca interazione con gli altri soggetti. Ognuno di loro va messo a sistema, bisognerebbe cercare di costruire una rete con i grandi teatri e le grandi istituzioni del teatro con i piccoli soggetti che stanno facendo dei progetti di ricerca straordinari. Così facendo siamo in grado di costruire un sistema teatrale più forte, un sistema teatrale che condivida le risorse sia sul piano economico, ma anche sul piano delle risorse umane, degli spazi. Attraverso una rete possiamo fare dei progetti europei per recuperare delle risorse che non riusciremmo a prendere diversamente, mettendo in rete il lavoro che si fa sul territorio, perché per vincere un bando europeo serve una rete locale, e serve poi una rete internazionale. Quindi se il TPE ha dei contatti importanti a livello internazionale e li mette a sistema con quelli che ha il Teatro Stabile e con quelli che hanno altri soggetti più piccoli, noi saremmo in grado di ottenere delle risorse in più, ma saremmo in grado anche di avere un sistema più ricco anche per il pubblico e a un’offerta più interessante.
EP: Questo è un discorso importante. Ma c’è un però. Gli strumenti che sono predisposti dalle istituzioni non tengono conto delle reali esigenze degli artisti. I bandi bancari, per esempio, privilegiano l’aspetto economico finanziario a quello artistico, non tengono conto dell’accessibilità agli spazi, e delle condizioni reali di lavoro che spesso si avvicinano al volontariato, con associazioni che accedono a fondi limitati benché i loro progetti abbiamo un reale valore di ricerca. E questo impedisce loro l’accessibilità a tali fondi. Tali strumenti sono spesso motivo di isolamento e frustrazione più che un reale aiuto. Privilegiano chi è già a sistema più che dare un’opportunità a chi è fuori dal sistema.
EF: Guarda normalmente mi propongono di fare degli spazi dedicati alla ricerca, e nell’arte questo è un tema tutto aperto che va realizzato. Ma pensare di fare quegli spazi lasciandoli liberi diciamo di progettazione e totalmente scollegati dal sistema è perfettamente inutile. Noi creeremmo dei buchi neri, perché anche se quei ragazzi trovano delle cose, rimarrà lì e morirà lì. Se noi non costruiamo dei sistemi scalabili, in cui tu puoi partire dal basso, fare ricerca, avere una formazione, perché nessuno nasce imparato, avere una formazione di livello e dopodiché riuscire ad agganciare un sistema di risorse, perché una rete la devono fare anche coloro che governano, perché è assurdo che ci sia un bando bancario che abbiamo criteri diversi da quelli del bando della Regione e da quelli del Comune. Occorre mettersi tutti insieme, studiare quali siano i criteri che, secondo me, aggancino il più possibile quelli che sono i parametri europei, in maniera tale dove ci sia un fondo europeo intercettato, c’è sia anche un fondo regionale intercettato, meglio anche se ci sono dei bandi nazionali a cui si può accedere, per provare a non disperdere le risorse, fare con queste un progetto di carattere formativo serio e poi abbinare a tutto questo il circuito teatrale. A un giovane bisogna anche spiegare che il problema non è fare una data in più a Torino ma cominciare a costruire un percorso che lo porti fuori da Torino.
EP: Prima però nel tuo discorso hai parlato dei trenta e quarantenni di coloro che insomma la loro formazione l’hanno già fatta e necessitano di altro, di distribuzione e produzione più che di formazione.
EF: Si io parlavo prima di classe dirigente. L’investimento va fatto sui ventenni.
EP: Questo però significa che da questo progetto si taglia fuori la generazione dei trenta e quarantenni, quelli che si sono fatti la gavetta in condizioni miserevoli e che vengono nuovamente abbandonati a se stessi.
EF: Sì, quelli bisogna recuperarli. Però bisogna anche essere meritocratici, perché se a quarantanni tu non sei formato, io ti assicuro che tu non sarai disponibile a questi percorsi.
EP: Io però non sto parlando di chi non è formato, ma di coloro che, e ti potrei fare tantissimi esempi perché conosco molto bene l’ambiente, che hanno altissima formazione e non trovano spazio nel sistema perché il sistema non è fatto per accoglierli.
EF: Quindi coloro che esprimono qualità e non vengono intercettati.
EP: Esatto. Sono coloro che hanno subito il malcostume in ambito di politica culturali degli ultimi vent’anni, che hanno creduto in questo paese, e che nonostante il loro valore sono rimasti sommersi. E quindi questi cosa sono? Sacrificabili? Ancora una volta?
EF: Questo è un problema che non riguarda solo la cultura, riguarda tutto il Paese. Se hai fatto attenzione a quello che ho detto prima quando dicevo :”siamo troppo giovani per… e in un attimo siamo troppo vecchi per…” è un problema che è avvenuto su un’intera generazione, forse su due generazioni, perché chi ha preso il potere, inteso nel senso di luoghi di potere, in tutti i settori, trent’anni fa, sono ancora le persone che hanno in mano quel potere. E questo non ha consentito di includere dei contemporanei e se tu vuoi fare un città contemporanea devi includere i contemporanei.
EP: Sì però se si parla di formazione, di residenze formative, non si include veramente quella fascia di artisti.
EF: Quello è un pezzo del ragionamento. Non è che le cose si limitano a quello. Fare un investimento formativo sulle nuove generazioni, sui ventenni che si affacciano sulla scena culturale, non vuol dire che non si faccia anche un investimento sui quarantenni. Quelli devono essere già pronti a prendere il posto.
EP: Sì, sono d’accordo, però vedi il sistema oggi prevede quasi solo ed esclusivamente residenze. E queste non sono così utili. Non è che due settimane aiutano la mia ricerca. Ci vorrebbero altri strumenti che garantiscano ad artisti già formati di poter effettuare il loro lavoro. Garantendo loro tempo e strumenti. Luoghi e supporti produttivi e distributivi. La formazione l’hanno già fatta anche se non si finisce mai di imparare.
EF: Ti dico una cosa: non credo che sia giusto pensare che si smetta completamente di formarsi nelle varie fasi della vita. Siamo solo noi italiani che pensiamo di essere arrivati.
EP: Sì, d’accordo, ma all’estero, e sono stato all’estero, uno a quarantanni non è considerato uno da formare. È considerato un artista maturo, nel fiore dei suoi anni e che può già esprimersi con un linguaggio complesso e personale.
EF: Questo è evidente, ma in tutto il mondo esiste la formazione continua. Da noi no. Noi abbiamo delle persone che spesso già si ritengono arrivate già a trentanni e non continuano a perfezionarsi e questo è un danno. Poi c’è un altro problema che sottende a quello che tu stai dicendo. Il problema di come a un certo punto, ok sono preparato, comincio a essere in grado di, come vengo incluso all’interno dei sistemi? C’è un sistema permeabile, scalabile, chiamalo come vuoi che mi consente di arrivare al vertice di strutture sulla base della preparazione e del merito che ho avuto anche senza essere del solito giro? Questa è la partita vera. La scommessa vera è qua. Ma io questo non lo dico nell’interesse dei quarantenni bravi che abbiamo e che rischiamo di perdere se non interveniamo, lo dico nell’interesse della città. Perché quello che dicevo prima è esattamente questo: io penso di poter dare in questa sfida proprio la mia contemporaneità, nel fatto che vada a visitare certi laboratori, che vada in certi locali dove si sta facendo cultura, e vada ad incontrare delle cose nuove in spazi e luoghi che mio padre non avrebbe frequentato.
EP: Io quello che però voglio dirti, la causa che voglio perorare in questa nostra conversazione, è che i quarantenni di valore, quelli che hanno combattuto e creduto in questo paese, cominciano a non crederci più, guardano oltre confine, cercano la fuga. E questo è un danno non solo per la città ma per il paese. Si perde della ricchezza perché non le si da luce. E a questo cercare delle soluzioni immediate. Trovare sistemi che ridiano fiducia e permettano a questa gente, e ne conosco tanti che hanno vinto premi nazionali, che hanno fatto cose importanti, che stanno smettendo perché non c’è spazio, non ci sono fondi, non c’è distribuzione. Questa è la sfida se vuoi veramente occuparti di cultura.
EF: Bisogna dare delle opportunità e ridare fiducia, questo è certo. Il problema non è sono non far fuggire quelli che abbiamo. Poi in un mondo globale è anche normale che qualcuno cerchi fortuna altrove, o che trovi opportunità interessanti da un’altra parte e le colga. La cosa importante è anche accogliere quello che viene da fuori. Questa è una città universitaria, piena di Erasmus, che raccontano di una città fighissima, ma poi vanno via perché non trovano l’opportunità di continuare. La sfida vale per le opportunità per i torinesi, ma vale anche per chi viene da fuori.