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APRITE QUELLA PORTA: LA SPOSA BLU DI SILVIA BATTAGLIO

La sposa blu di Silvia Battaglio è la versione della nera favola di Barbablu che decisamente non ti aspetti. La novella di Perrault ci racconta di un uomo che sposa e uccide le sue mogli. E dunque ci si attenderebbe un ovvio parallelismo con il triste e inarrestabile fenomeno dei femminicidi. Tale elemento non manca, si badi bene, ma rimane sullo sfondo, come una quinta cupa, che conferisce alla narrazione un’angolatura tutta particolare e speciale.

La sposa blu osa contrapporsi a Barbablu, mai presente in scena, benché in qualche modo incomba nell’ombra tra le quinte. Non è la curiosità a spingere verso il proibito, ma un’affermazione positiva di indipendenza. La sposa vuole liberarsi delle paure proprie e di lui, quei timori che ci trasformano nella parte peggiore di noi stessi e teniamo sepolti nel profondo del nostro animo. Per questo desidera a tutti costi aprire quella porta e dialogare con gli scheletri nell’armadio. E proprio in questo confronto si libera dal possesso, non vuole essere schiava del terrore incombente, della solitudine a cui viene relegata da un uomo possessivo e violento, decide di aprire la porta e cercare l’uscita e la libertà.

Il racconto si dipana per immagini, attraverso linguaggi tessuti in contrappunto: gesto, danza, teatro di figura. La voce è sempre fuori scena, una voce pronta a prendere in prestito le parole altrui, di Desdemona, di Carmelo Bene e altri, a formare una sorta di montaggio di stati d’animo riuniti insieme allo scopo superare il trauma e il terrore verso una liberazione e non verso la morte certa.

Le stupende marionette degli anni ’40 della collezione Toselli prestate dall’ Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare di Grugliasco, diventano le mogli passate, pronte a riprendere vita, a suggerire un diverso finale alla novella sposa di pizzo bianco vestita. Evocative nell’essere copie e simulacri, le marionette sono una presenza inquietante sul confine abisso tra la vita prestata e l’inerzia dell’oggetto inanimato.

La colonna sonora, fatti di suoni d’ambiente e arie d’opera, gioca in contrappunto con la scena, è segno rivelatore di un percorso emotivo. Evocative le immagini, il gesto sempre controllato, mai superfluo o ridondante. Le luci sono materia utile ad aprire e chiudere gli spazi e a fornire linee di fuga.

Silvia Battaglio in La sposa blu

La sposa blu di Silvia Battaglio è un lavoro molto ben concepito, frutto di attento studio. Non è una semplice messa in scena ma una vera creazione d’attrice. Nonostante questi indubbi pregi a cui si assomma un gusto estetico raffinato e mai volgare o dozzinale, il lavoro risente, proprio per l’eccessiva attenzione al minimo particolare di una certa freddezza, una mancanza di emotività empatica che avrebbe fatto brillare il certosino lavoro di elaborazione.

Nel cercare di dominare il gran volume di materiale e di tecniche un’attrice come Silvia Battaglio, i cui lavori precedenti riflettevano di una certa misurata emotività che donava commozioni composte, sottili, ma profonde, si è come raffreddata, irrigidita nell’attenzione ai particolari e nel confezionare immagini di grande impatto visivo ma pronte a soddisfare più l’intelletto che il cuore. Il lavoro è ancora in fieri, non ha ancora raggiunto la sua temperatura ideale. Ora che la forma è ben incanalata e i materiali perfettamente incastrati, bisogna sfuggire alla loro orbita, navigarci dentro superando tutte le trappole che le immagini pongono sulla via, e ritrovare il calore magmatico dell’emozione. Bisogna dimenticare le regole e la gabbia drammaturgica e dopo aver dimenticato, come dicevano i maestri taoisti, dimenticare di aver dimenticato, il che significa lasciarsi portar dal flusso, presenti e distanti nello stesso tempo, e far fiorire l’emotività di un viaggio periglioso verso la liberazione.

La sposa blu è dunque un lavoro complesso ancora in lotta con sé stesso per sorgere alla piena luce sfuggendo ai legami che la stessa creazione pone alla sua attrice. Silvia Battaglio è un’artista esperta, sapiente, capace con il lavoro di costruire tale tipo di percorso che necessità solo di tempo per far emergere tutte le sue potenzialità. Il tempo è l’unico elemento utile all’artista per far sbocciare i propri lavori, un bene sempre più prezioso e raro in un sistema pronto solo a chiedere e pretendere e a non concedere. Silvia Battaglio ha però la fortuna di essere prodotta e supportata da una compagnia come Zerogrammi, molto attenta a coltivare i processi artistici. Silvia dunque saprà trovare, come la sua Sposa Blu, la giusta via di fuga e raggiungere tutta la piena e delicata potenza che traspare dal disegno compositivo. Di questo ne siamo sicuri.

Silvia Battaglio

SILVIA BATTAGLIO: Lolita

Silvia Battaglio è una Lolita adulta e bambina. È lo sguardo di oggi a quello di ieri e, come due immagini trasparenti, il tempo passato e quello presente si sfocano, travalicano, si sovraincidono.

Quanto della donna di oggi è la bambina di ieri? E quanto della bambina passata era già donna anzitempo, controvoglia, forzatamente costretta a indossare i panni dell’adulta? L’innocenza strappata porta a galla una vittima che sa trasformarsi in carnefice, la debolezza violata cangia in dispotica capacità di sedurre e il signor Humbert, lupo cattivo pronto a mangiare Cappuccetto Rosso è a sua volta intrappolato nelle malie di quella sensualità scatenata e prematura.

Ma chi è Humbert? A chi si rivolge la Lolita sulla scena? Humbert è nascosto tra il pubblico, nell’occhio di chi guarda e brama e rinnova il mito di Ade e Persefone, il vecchio dio dei morti che rapisce la fanciulla Kore per farne la sua sposa. Kore diventa essere ibrido, tra la vita e la morte, perpetuamente divisa a segnare il tempo delle stagioni.

Ma Kore è anche la pupilla che in sé riflette l’occhio del rapitore, come la scena riflette l’occhio del pubblico convenuto e nascosto nell’ombra della platea.

Silvia Battaglio è Lolita, in un giardino ricoperto di mele cadute, il frutto proibito del peccato, il frutto avvelenato di ogni favola. Violata e violenta, infantile e crudelmente adulta, vittima e carnefice, Cappuccetto Rosso che sbrana il lupo cattivo dopo esser stata a sua volta mangiata. L’azione perversa e imperdonabile del male sta nella corruzione dell’innocenza incapace di conservare se stessa. Come in Addiction di Abel Ferrara se il male entra in noi ci corrode e rende complici: per sempre vampiri, complici e vittime insieme.

Silvia Battaglio, in questa sua Lolita, primo capitolo della Trilogia dell’identità, intaglia nella carne e nel sangue una figura di donna/bambina in perenne ricerca di un sé che sfugge alla presa dopo l’azione di Humbert, ma disegna anche un carnefice incapace di vivere il proprio tempo e la propria età, invidioso di una gioventù e una purezza che non sarà più mai e la insozza con le proprie brame perverse.

Silvia Battaglio costruisce una drammaturgia intensa, fondendo le fonti letterarie (Nabokov, Pia Pera e Perrault) in una riscrittura agile, intensa e perversamente potente che si fonde con un’azione scenica in cui la corporeità è predominante. Coreografia di gesti che rende superflua al questione attore danzatore o performer. Il corpo scenico è tutto e niente. Utilizza i mezzi che abbisogna per essere efficace.

Questa Lolita di Silvia Battaglio, opera che apre il sipario su temi che vogliamo seppellire sotto il tappeto della civiltà, additando il mostro nel peccatore scoperto in flagrante dimenticando che l’orrore si annida nell’animo di tutti, ricorda qualora ce ne fossimo dimenticati che la funzione della scena è parlare al mondo del mondo, sollevare i veli, scuotere l’artificiale sicurezza del vivere civile. Il teatro quando si esprime con la sua vera forza non rassicura per niente: è uno sguardo lucido sulla durezza del vivere, sulla vita bella e crudele.

Lolita di Silvia Battaglio è in scena nel bellissimo spazio del Caffé Müller ancora stasera 3 febbraio.