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Maguy Marin apre a Torino Palcoscenico Danza

Iniziare il proprio festival con due pezzi d’annata di una grande riformatrice come Maguy Marin può sembrare una scelta azzardata da parte di Paolo Mohovich, direttore di Palcoscenico danza, soprattutto oggi dove ogni cosa che guarda al passato è vista come nostalgica. Tutti sono rivolti verso il futuro, uno qualsiasi, anche se ancora non si è capito quale sia.

Partire dalla memoria sembra invece un ottimo auspicio per la nuova edizione della rassegna torinese. Capire da dove si viene, per comprendere meglio che strada intraprendere, magari per ribellarsi al sentiero posto sotto i nostri piedi, ma consapevoli di quale sentiero ci ha portati fino a qui. Come diceva Benedetto Croce: «la storia è sempre storia contemporanea».

Merito di questa operazione di recupero dai fondali della memoria è da attribuirsi a MM Contemporary Dance Company di Michele Merola che ha deciso di riproporre al pubblico questi piccoli gioielli della danza. Peccato che tra il pubblico ci fosse un’esigua partecipazione di giovani danzatori a cui principalmente sarebbe stato utile uno sguardo profondo nel recente passato.

Duo d’Eden (1986): un uomo e una donna entrano sulla scena. Indossano una tutina color carne. Il costume è anche maschera. I volti sono inquietanti, deformi, con i capelli fulvi e arruffati. Potrebbero richiamare un mondo primitivo, forse innocente, sicuramente più animale, ma anche alludere ai volti dolenti dei progenitori cacciati dall’Eden dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze. L’aria si riempie di suoni di pioggia e di tuoni e questo ci spinge ancor di più verso un cammino che vede nel duetto un’eco di immagini. Il tuono ci fa balenare sulla retina un’immagine persistente da La tempesta di Giorgione, quadro misterioso, allusivo delle vicende dell’eden, dove i progenitori sono già stati cacciati. E se il sodato è Adamo, in riposo dal duro lavoro, quella zingara seminuda con il bambinello tra le braccia altro non è che Eva dopo aver partorito con dolore. E la città sullo sfondo è proprio l’Eden da cui ormai sono esclusi.

Duo d’Eden, potrebbe aver quindi un’atmosfera meno serena ed erotica di quanto si è immaginato. I due corpi, così materiali ma anche pieni di grazia, si inseguono ma ricercano spasmodicamente quell’unione ormai persa, quell’essere una sola carne avanti l’incidente della mela. I corpi lottano contro la gravità e la fatica. Si avvinghiano l’un l’altro, ruotano come stelle binarie in perenne rivoluzione una sull’altro.

La grazia perduta viene dalla sprezzatura, quell’attitudine che Baldassare Castiglione diceva aver qualità di far sembrar facile quello che non è. Tutto trama contro di loro. Gli elementi vogliono la loro caduta, non importa se già avvenuta, perché avverrà, non si potrà in eterno battere la fatica. La bellezza di questa danza vive di instabilità, finitezza, precarietà. Forse proprio perché i due progenitori sono caduti nelle sabbie del tempo, nella tempesta segnata da un prima e un dopo il tuono, e solo nel tempo può vivere la bellezza, pienezza destinata a sfiorire. Nell’eternità dell’Eden, al contrario, tutto si equivale nella perfezione.

Grosse fugue (2001) è un confronto con Die Grosse Fuge op. 133 del grande Ludovico Van. Il pezzo, prima di divenire un numero di catalogo a sé stante, sarebbe dovuto essere l’ultimo movimento del quartetto d’archi n.13 in si bemolle maggiore op. 130. Gli esecutori dell’epoca lo trovarono superiori alle loro forze. Tutte quelle dissonanze, i cambi di tonalità, quella ritmica così balzana ma fortemente innovativa era impossibile da eseguirsi. Il maestro ormai sordo e incamminato verso la dissoluzione delle forme classiche, soprattutto della sonata, urlò e protestò ma alla fine riscrisse un finale più sereno e la grande fuga divenne un pezzo autonomo.

Inutile dire che oggi è considerato un capolavoro, così avanti sui suoi tempi da essere considerato dai suoi contemporanei un orrore e un’aberrazione dovuta alla sordità.

Maguy Marin si confronta con il pezzo di Beethoven non solo dal punto di vista linguistico, contrappuntando la musica con la danza, ma infondendovi nuove immagini, una vena ironica, e messaggio politico.

Quattro donne vestite di rosso entrano in scena, come le quattro frasi melodiche che si rincorrono in questa grande fuga. L’ardita composizione spinge al virtuosismo le danzatrici, costrette a rincorrersi, a stare al passo. Sia l’ascolto come la visione anelano a un momento in cui il ritmo conceda almeno un leggero calare. Improvviso ecco giungere un breve attimo di pausa, quel meno mosso e moderato racchiuso da due parentesi costituite da due allegri molto e con brio, le donne quasi si rilassano, rilasciano un sospiro di sollievo che dura troppo poco e ci strappa un piccolo sorriso. Ed ecco nuovamente a intrecciarsi con brio, a correre dietro il tempo. Non possiamo non pensare a questa vita pazza che ci siamo autoimposti, schiavi per volontà, supini al diktat di essere sempre produttivi e performanti prima che il buio cali su di noi.

Ciò che più sorprende in questi due pezzi di Maguy Marin è la loro attualità, il non essere per nulla datati, freschi come uova di giornata. Una danza tecnica, ma capace di liberarsi dal virtuosismo fine a se stesso regalando nuove immagini. Questi due pezzi brevi non si chiudono su se stessi, ma aprono porte e finestre nel palazzo della nostra memoria, facendo irrompere immagini e associazioni. Una danza di corpi coinvolgenti, mai autoreferenziali, corpi liberi perché capaci di andare al di là della tecnica, padroni del tempo, dello spazio e della gravità. Portare nuovamente sulla scena questi due piccoli capolavori di Maguy Marin, è stato un gesto di grande generosità di cui non si può essere che grati.

Torino, Teatro Astra | 21 gennaio 2025

Inferno di Roberto Castello

L’INFERNO SECONDO ROBERTO CASTELLO

Per descrivere l’inferno immaginato da Roberto Castello potremmo utilizzare una apodittica sentenza di Baudelaire: «È l’immagine variegata della bellezza equivoca». La frase era riferita al lavoro di un illustratore, Costantine Guys, oggi pressoché sconosciuto. Baudelaire riconosceva a costui la modernissima capacità di cogliere lo spirito dell’epoca in schizzi di vita da strada o di bordello, tra vicoli e case chiuse, sul confine in cui l’inaccettabile andava a braccetto con il rispettabile. Roberto Castello in Inferno ha questa rara capacità. In poche scene ci catapulta in un luogo affascinante e brillante pur nella sua mediocrità. Ci divertiamo all’inferno. Ci rimaniamo volentieri, ridendo, felici. C’è tutto quello che serve: la nostra idea di quotidianità, di cultura, di spettacolo.L’inferno non è quindi né metafisico né ultraterreno, non ci aspetta alla fine della vita, e le nostre anime non saranno pesate né giudicate da nessun Minosse. Non è nemmeno l’inferno della guerra, o della miseria, o della criminalità, benché li presupponga. L’inferno di cui si parla è quello di cui siamo coautori, quello che creiamo volenterosi ogni giorno, contenti, come Cypher in Matrix, di gustare una bistecca buona quanto finta.

Inferno di Roberto Castello Ph:@ Giovanni Chariot

Infernodi Roberto Castello è niente più che un vecchio specchio in cui mirare noi stessi, uno specchio andato un po’ fuori moda da quando il teatro non è più l’occhio che guarda il mondo, ma si manifesta, per lo più, come spazio di esposizione di sé. Quei personaggi sciabattanti e sciatti, coi visi e i corpi distorti da boccacce e pose innaturali, quelle cocottes felici e raggianti di essere sotto al riflettore, quindi, non siamo altri che noi.L’Inferno se privo di diavoli è però colmo di immagini, ma come nella caverna di Platone, esse risultano solo ombre di una verità, invisibile a noi, incapaci some siamo, a volgere lo sguardo verso l’uscita, tanto il luogo di proiezione è pieno di confort e attrazioni. Il gioco di ombre è formato da due livelli pronti a incastrarsi perfettamente: la danza energica, nervosa, espressiva, gioiosa e multiritmica e una videoanimazione sul fondale. Questa non è mai un semplice sottofondo o una carta da parati, ma un elemento dialogante e significante, in molti luoghi divertente.

Inferno di Roberto Castello ph:@ Cosimo Trimboli

Tre alberi spogli su una collina illuminati solo da uno scoppio di fuoco di artificio, un deflagrare unico e ripetuto come rintocco di campana a morto. Gli alberi risuonano e costituiscono il primo ambiente sonoro. Il cielo è nero ma man mano sorge una pallida alba abitata da corvi e un grande frigorifero rosso. Si passa poi in una galleria d’arte in cui le opere sono astruse ed esposte come in un supermercato, e osservate da strani hipsters. Presto la situazione si agita, la danza si anima, e il cane di Jeff Koons insegue un uomo di marmo. Ovviamente in questa pletora di icone non poteva mancare l’arte e la cultura, bersagliata bonariamente per la sua autoreferenza.

Questi sono due piccoli esempi, senza andar troppo a svelare e peccare di spoileraggio. Servono solo a far comprendere il clima di uno spettacolo che va visto e goduto, per la capacità di farci sorridere della nostra civiltà ormai declinante e sciocca. Non ci sono accuse né giudizi, solo le immagini. Possiamo dialogarci, respingerle, se vogliamo persino ignorarle. Dobbiamo farci i conti se vogliamo comprendere noi stessi. Possiamo però anche tranquillamente goderci lo spettacolo, divertirci e sorridere, e fermarci al primo livello di lettura.

Roberto Castello possiede infatti questa grande qualità; la capacità di sapersi rivolgere a qualunque tipo di pubblico. Nessuno rimane escluso ed è inoltre libero di cogliere ciò che vuole, secondo la sua personalissima capacità di vedere.L’Inferno è dunque accogliente. Non respinge nessuno. Non necessita di esorcismi. Ne facciamo già parte, intelligenti e colti, colpevoli e innocenti. Da un bel pezzo. E la cosa non ci dispiace affatto.

INFERNO

visto al Teatro Astra di Torino il 13 aprile 2022

Coreografia: Roberto Castello/in collaborazione con Alessandra Moretti/danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino Michael Incarbone, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri

musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli/Fender rhodes Paolo Pee Wee Durante/luci Leonardo Badalassi/costumi Desirée Costanzo/consulenza 3D Enrico Nencini/mixaggio audio Stefano Giannotti/mastering audio Jambona Lab

un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo una coproduzione ALDES, CCN – Centre Chorégraphique National de Nantes, Romaeuropa Festival, Théâtre des 13 vents CDN – Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE

e con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati

con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo

Durata 75′