Jan Lauwers

JAN LAUWERS: LE LACRIME E TUTTO IL BENE DEL MONDO

All the good di Jan Lauwers con Needcompany è uno spettacolo-mondo. Si svolge dentro e fuori la rappresentazione, nel presente e nel passato, partorisce doppi concreti o evanescenti alla bisogna. All the good è un tutto-pieno. Potremmo paragonarlo a un buco bianco, un oggetto su cui l’astrofisica fatica a dimostrare l’esistenza pur presupponendola, un corpo celeste che, contrariamente al suo doppio più noto e oscuro, anziché attrarre materia, la rigetta e rimanda nell’universo in tutte le direzioni possibili.

All the good è una sfida. Non si può raccontare, né descrivere. Non nello spazio di un articolo per lo meno. Per analizzarlo ci vorrebbe una tesi di laurea e al solo scriverlo wordpress inizia ad allarmarsi guardandomi con le faccine rosse dell’illeggibilità.

Non resta che provare a giocare lo stesso gioco. Saltare di racconto in racconto. Provare a dire balbettando. Incominciamo dalla fine.

La deposizione di Rogier Van Der Weyden. Una pala d’altare in cui i personaggi occupano ogni spazio possibile sulla tavola di legno. Il Cristo al centro, la Madonna poco discosta. Entrambi cadenti verso il basso e coloro che devono sostenerli sembrano, non solo non averne la forza, ma sono persino messi in posizione tale da essere incapaci di portare aiuto. Quello che colpisce, oltre alla claustrofobia, è la caduta del divino e le lacrime su ogni volto, piccole gocce naturalisticamente perfette, presenti ed evidenti, cristalli scolpiti col dolore del mondo.

Jan Lauwers All the good La deposizione di Rogier Van der Weyden ph: @Andrea Macchia

Le lacrime ci portano a Mahmud, il soffiatore di vetro di Hebron. I suoi vasi tra il blu e il verde acquamarina riempiono la scena. Un’istallazione raccoglie come un enorme scolabottiglie decine di giare di vetro. Nella terra tormentata di Palestina le chiamano le lacrime di Allah. Ogni tanto qualcuno ne rompe una, e nasce un racconto d’arte e di dolore, come lo stupro e la tortura di Artemisia Gentileschi. L’intreccio di richiami tra l’arte e la vita è inestricabile. Si passa da uno all’altro continuamente. E a connettere i due elementi sempre due forze: quella implosiva del dolore, e quella esplosiva dell’amore e della passione.

Jan Lauwers appare per primo in scena. Prova a dirci cosa succederà. Ha scritto un libro (o voleva scriverlo? È molto difficile capire nell’immenso frullatore linguistico in cui fiammingo, inglese, francese, spagnolo, tedesco ed ebraico si scambiano le parti come per gioco e poi: chi lo guarda il sottotitolo mentre davanti a tuoi occhi succede di tutto?); questo libro nessuno lo pubblicherà quindi la storia viene portata in scena ed è una ( o forse mille?) vicenda/e che riguardano la sua famiglia.

Sul palco infatti c’è non solo Jan Lauwers insieme al suo doppio attorico e alchemico, ma la moglie, i due figli. E c’è Elik, il fidanzato della figlia. Ha un passato da soldato in Israele. Ha dovuto uccidere in Libano. E la domanda sottesa è se questa storia d’amore possa reggere al dolore. Forse è la domanda di tutto questo mondo rigoglioso e terribile che sta sorgendo davanti ai nostri occhi.

Jan Lauwers All the good Ph:@Andrea Macchia

Tornando indietro all’insalata linguistica: non è un vezzo espressivo o un’inutile croce da far portare al povero spettatore. É una mina contro l’identità, non personale, ma politica, quella su cui si esercita il potere, per questo sono centrali le storie del soldato Elik e di Mahmud, soffiatore di vetro di Hebron, quell’identità che spinge alla lotta.

In scena oltre alla famiglia Lauwers ci sono anche gli amici, i danzatori della compagnia, la ragazza che ha posato per una fotografa e ha conosciuto il dolore delle pornostar; il colombiano che ha avuto una relazione con la moglie di Jan Lauwers, Grace Ellen Barkey (siamo nella finzione o nella realtà? Ce lo si chiede per tutta la durata dello spettacolo), e i musicisti, anche loro raccontatori di storie (per inciso indossano maschere di animali). Ci sono tante persone e tanti oggetti sul palco da temere che non ci sia spazio sufficiente, esattamente come nella pala d’altare di Rogier Van Der Weyden.

Le storie si affastellano su quella principale. Alcune sono solo accennate e non raccontate veramente. Non c’è il tempo e nemmeno lo spazio. Sono e siamo tutti compressi sul palcoscenico. I linguaggi si mischiano: danza, proiezioni, racconto, canto, musica. Tutto concorre a questo vortice, al buco bianco nato per scagliare materia incandescente, solida, fluida, incorporea, semplici fotoni di luce pronti a cantare all’unisono anche ad anni luce di distanza. Un fiume in piena, venato di correnti di dolore, di morte, di strazi commessi dall’uomo sull’uomo. E si torna dunque a quel Cristo dipinto da Rogier Van Der Weyde, quel Cristo caduto per cui tutti versano lacrime, e si ha la sensazione che noi, artisti e pubblico, siamo alla fine incapaci, come i personaggi del quadro, di trattenere il Figlio dell’Uomo deposto dalla croce.

Jan Lauwers All The Good ph: @Andrea Macchia

Ci vuole forza a vedere tutto il buono del mondo. Un’energia capace di sfuggire all’orizzonte degli eventi di un buco nero rotante e supermassivo. Questa potenza e vitalità sembra essere la prerogativa degli artisti: ritrarre l’umanità, sollevare dalle ceneri della distruzione immagini che sappiano parlare non di un mondo possibile e diverso, ma di ciò che val la pena di esser vissuto e provato in questo.

All the good in questo gioco serissimo tra finzione e realtà, prova a cantare di ciò che è bene nonostante le lacrime e la perdita di solidarietà in atto nelle nostre società occidentali, ricche e malate. È uno sforzo immane strappare il bene al vortice distruttivo in cui il mondo sta cadendo, ma è questo ciò forse resta da fare, ciò che rende l’arte necessaria. Far brillare tutto il bene nonostante tutto. O forse, come diceva Calvino: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Visto durante il Festival delle Colline Torinesi al Teatro Astra il 5 novembre 2021