Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.
In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.
Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.
Regenland – Elogio del buio, solo di Elisabetta Cuenca, prodotto da Cuenca/Lauro e Sosta Palmizi, fin dal titolo, richiama il mondo notturno, un mistero profondo, itinerario dell’anima tra morte mistica e novella trasformazione. All’esordio l’occhio della danzatrice è velato da occhiali a specchio, che rimandano a noi un riflesso di un’assenza, la nostra, dall’orizzonte di danza. Anche il corpo è fasciato da vesti, belle, leggere, sensuali maschere del corpo vivo e politico. Gradualmente lo sguardo si svela, il corpo si spoglia, fino a rimanere crocifisso da un raggio di luce (ed è subito sera), come insetto trafitto da uno spillo. Il viaggio iniziatico avviene in un teatro vuoto, la sguardo digitale a frugare, distante e protetto, in un mondo che urla e richiede il confronto fisico. La danzatrice scende in una platea vuota, e offre il suo sguardo al palco, prima di girarsi verso di noi, assenti eppur presenti, muta e rogante, punto interrogativo di una domanda troppo pressante per essere espressa a parole.
Inventare la vita di Luca Serrani e Isadora Angelini per la produzione di Teatro Patalò, è pellicola che nasce da una mancanza e un’assenza. Quello che avrebbe dovuto essere un lavoro per una tournée negli Stati Uniti, diventa un’altra progettualità, diventa cinema e si gira in un teatro vuoto, abbandonato dallo sguardo dello spettatore. Un futuro mancato nell’assenza di compagni al tramonto. Sono le ombre a parlare, quelle proiettate sul muro, quelle evocate dalle parole, in un bianco e nero d’effetto che ci scaglia in un passato ormai inevitabilmente trascorso. Un Sogno di una notte di mezz’estate, i cui spiriti sono ombre all’ennesima potenza, sagome evanescenti, specie in via d’estinzione, miraggi di una cultura che non può essere più e di cui si sente più nostalgia che vera e propria mancanza. Eppure questi spettri provano a inventare una vita, a cercare la natura e il sole negli spazi aperti, lontani dalle spente e fioche luci del teatro.
Ultimo un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.
Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.