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Simonetta Pusceddu

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A SIMONETTA PUSCEDDU

Per l’undicesimo incontro di Resistenze Artistiche torniamo in Sardegna, più precisamente a Cagliari per incontrare Simonetta Pusceddu, anima forte ed energica, di Tersicorea e del Festival Cortoindanza, e della rete Med’arte.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Lucrezia Maimone in La balsa de Piedra Residenza Artistica

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

La difficile situazione venutasi a creare a seguito dell’emergenza pandemica da covid19 ha avuto un forte impatto sul settore artistico, culturale e dello spettacolo dal vivo nel suo complesso. Ho ritenuto comunque importante non rinunciare a portare avanti le attività che potessero contribuire a sostenere i giovani artisti e i loro progetti di creazione. Pur in questo nuovo scenario di difficoltà mondiale, siamo riusciti comunque a portare a termine tutte le attività ri-calendarizzando i nostri programmi al fine di realizzare le attività, mantenendo invariati, l’identità, la struttura generale dei progetti di Residenza Artistica.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Il progetto di residenza Interconnessioni si basa sulla riappropriazione di siti emblematici, con l’obiettivo di rivalutare la ricchezza del patrimonio culturale nel senso più ampio, al fine di toccare gli aspetti tangibili (siti archeologici, industriali o naturali) e quelli più intangibili come l’artigianato e tradizioni, o conoscenze e pratiche del territorio prescelto. Prendendo in considerazione le peculiarità che caratterizzano il luogo, il progetto di residenza artistica Interconnessioni legittima un lavoro di ricerca su linguaggi pluridisciplinari immersi in quelle che sono le peculiarità identitarie della Sardegna. Esso si basa su sistemi di sperimentazione site specific e sul concetto di interazioni corpo/spazio circoscritte, strategie finalizzate alla riattivazione della memoria e identità di ciascun sito, allo stesso tempo per reinterpretarlo e raccontarlo attraverso i linguaggi contemporanei.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

La presenza di un elemento identitario forte, quale il patrimonio geografico e culturale della Sardegna, costituisce l’elemento fondamentale per innescare un percorso virtuoso di sviluppo economico-culturale. La prospettiva di sviluppo dei progetti declinati secondo questa peculiarità, ha l’attesa finale di creare una forma speciale di collaborazione sinergica – amministrativa culturale – tra i territori coinvolti e adiacenti, al fine di avviare azioni di sviluppo integrate e condivise. Tale progettualità si è inserita in quel piano di politica territoriale e culturale, di conversione degli “ex luoghi e a interventi di bonifica e ristrutturazione di aeree e edifici di memoria storica, piano già attivo nel nostro territorio e all’interno del quale il nostri progetti si inseriscono sinergicamente e coerentemente, grazie anche al sostegno dei diversi enti pubblici territoriali locali. L’impatto emozionale e di coinvolgimento delle comunità coinvolte, nonché la fiducia da parte degli enti pubblici territoriali e delle comunità di riferimento a sostenere, offrire e incoraggiare i nostri progetti, ha aiutato a superare il momento di crisi economica provocato dai vergognosi tagli e ritardi di elargizione dei contributi regionali. Diciamo che la soddisfazione e l’ospitalità, la condivisione e l’accoglienza ottenuta dalle comunità ospitanti, ha sostituito la preoccupazione economica!

La balsa de Piedra Residenza Artistica

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La strategia del decentramento dell’arte, con la fondazione di punti d’incontro artistico, di scambio di esperienze individuali e collettive e di relazioni tra artisti con il pubblico del territorio regionale locale, ha posto le basi per la creazione di un circuito virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela dei beni e occupazione, basato sulla valorizzazione delle eccellenze locali e sul potenziamento di nuovi flussi di scambio culturale. L’idea centrale è e sarà quella di creare strategie di sviluppo e miglioramento della vita dell’individuo, non inteso solo in termini economici o, ancor più restrittivamente, come crescita economica, bensì in modo più esteso come ampliamento delle opportunità che sviluppano benessere. Questo processo agisce riorganizzando gli spazi sociali, facendo emergere nuove pratiche di cooperazione e competizione, nuove espressioni culturali transnazionali e translocali: e tutte queste nuove forme richiedono ed evocano nuove prospettive teoriche, nuovi immaginari culturali, nuovi orizzonti di frontiera. Credo ancora in qualche piccola speranza!

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

In generale la legislazione attuale ha falsamente sottolineato il valore incommensurabile della persona con falsi principi di solidarietà e di una cittadinanza attiva, ma ahimè vulnerabile. Il bene comune dipende si dai governanti, ma noi siamo complici passivi e cofautori di questo disastro. Nel mio cuore prevale il problema di un futuro umano diverso, una riflessione sulla pandemia vissuta dagli altri, nei paesi e nelle comunità più deboli e su quella vissuta dai nostri anziani. Non riesco a prescindere da questo sentimento di pena per l’umanità tutta, dunque non voglio preoccuparmi se siano contemplati o meno stati di eccezionalità, poiché credo che la vita deciderà prima o poi di piegare anche i più stolti a uno stato di coscienza e come diceva mia madre: necessità fa uomo saggio

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

È necessario sperimentare modelli di sviluppo che assicurino all’umanità un futuro di istituzioni che costruiscono un quadro di norme intelligenti, volte assicurare il bene comune che è la vita di tutti noi. Il teatro costituisce una piccola porzione di questo universo alla deriva che urge di un rinnovamento totale, uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale e che oggi unifica le giovani generazioni in ogni parte del mondo. In sostanza tanta fiducia nelle piccole comunità in cui ancora vige il principio della condivisione e attenzione verso i propri abitanti e tanta preoccupazione del malcostume che regna nella politica europea.

Breve cenno su chi siamo:

La Tersicorea da anni si distingue per le sue forti connotazioni didattico/formative e per l’attivo impegno in funzione della diffusione di una nuova pedagogia della danza e del teatro rivolta al sostegno dei giovani artisti in dialogo costante con le realtà consolidate in tutto il territorio locale, internazionale ed extra europeo. In questo contesto la Tersicorea e il suo Spazio Teatrale T.off garantiscono occasioni di sperimentazione, ricerca confronto, di scambio intergenerazionale e di metodologie e poetiche, attraverso residenze artistiche e rurali in forma di “cantiere”, di cui Tersicorea è promotrice in Sardegna e sostenitrice sin dal 1996. Dal 2008 ha generato una rete Internazionale di interscambio: Med’arte che nasce come organismo libero e indipendente. I partner sostenitori di Med’arte concepiscono la loro azione e funzione di “messaggeri” dell’arte contemporanea nel mondo, agendo attraverso l’influenza delle nuove tendenze che il linguaggio della danza ha assunto nella storia dell’Europa, con la finalità di valorizzare e fare approdare in Sardegna quel filone centrale di sviluppo della produzione d’avanguardia che si è appunto sviluppato in Europa e nel mondo, con particolare attenzione agli artisti emergenti provenienti da paesi a rischio di pace o in cui sono in corso conflitti civili.

Elegia delle cose perdute

ELEGIA DELLE COSE TROVATE E DELLE COSE PERDUTE

Mejerchol’d diceva: “Prima il suolo”. Lo afferma anche il mito vedico della creazione, quando racconta di come Prajapati, prima di accingersi a creare, decise, prima di tutto, dovesse esserci un supporto su cui poggiare. La questione sembra essere di non poca importanza anche per i Greci quando raccontano della contesa tra Poseidone e Atena per il possesso dell’Attica. Il dio del mare (e delle terre emerse) fece sgorgare una sorgente, fedele alla fluidità del suo elemento primario, mentre la dea dall’occhio azzurro e profondo piantò la sua lancia a terra e da un’arma nacque una pianta di pace, cara a colei che difende: l’ulivo dalla foglia argentea. Gli uomini furono chiamati a giudicare e scegliere: vinsero le radici profonde? O, forse, dove era l’ulivo, era la protezione della dea glaucopide? L’ulivo divenne dunque l’albero simbolo di Atene le cui colonie si sparsero per il Mediterraneo a partire dall’VIII sec. a. C, perché avere radici non significa essere immobili.

Chi legge si chiederà perché questo indugiare su antichi dei, alberi d’ulivo e rispettive radici. So che abitiamo un mondo in cui si ha sempre fretta ma, lettore, se avrai ancora un attimo di pazienza, prometto di arrivare al punto. Ci sono cose che vanno dette lentamente.

Si diceva: prima il suolo. Ciò di cui voglio parlare e di cui sono stato testimone è stato visto in terra sarda, nel Sulcis-Iglesiente, una zona povera, forse la più povera, non solo dell’isola, ma della penisola intera, magnifica nella sua desolazione brulla e apparentemente ostile. Qui, nel comune di Villamassargia, si trova un parco naturale, S’ortu Mannu, colmo di ulivi millenari e secolari. Sotto le fronde di questi alberi antichi, cari ad Atena, ma sacri per qualsiasi popolazione del Mediterraneo, nell’ambito delle attività spettacolari del festival Cortoindanza diretto da Simonetta Pusceddu, il botanico aragonese Bernabé Moya, esperto di alberi monumentali e biodiversità, e l’artista Costanza Ferrini presentati dall’archeologa Laura Sedda, hanno letto il Manifesto degli ulivi Millenari sardi ai fratelli del Mediterraneo intero, uniti insieme nel denunciare il pericolo in cui versa la specie vegetale più ricca di cultura e di memoria del nostro angolo di mondo. Le malattie, l’inquinamento, la cementificazione, il cambiamento climatico ma soprattutto i conflitti armati, stanno mettendo in grave rischio gli ulivi secolari e millenari (ma non solo) del nostro Mar Mediterraneo (pensiamo all’operazione Ramoscello d’ulivo messa in opera da Erdogan contro le popolazioni curde in cui sono state sradicate ben 300000 piante, o al muro che divide i Territori Occupati da Israele e taglia le radici dell’ulivo più antico del mondo). Colpire gli ulivi per percuotere le popolazioni e le loro culture significa prima di tutto rinnegare le proprie radici. È l’ulivo che annuncia a Noè la fine del Diluvio, è l’ulivo che viene scelto dalla polis per proteggere e fondare la città di Atene. Non vi è cultura nel Mare Nostrum che non sia debitrice nei confronti dell’albero dalle foglie argentee di cultura, di medicina, di nutrimento. Eppure ce ne siamo dimenticati, e la memoria delle nostre radici culturali si fa sempre più tenue rendendoci anonimi e spaesati di fronte a un futuro che non siamo più in grado di immaginare.

Elegia delle cose perdute ph:@Anthony Matthieu

Sotto le piante d’ulivo di S’Ortu Mannu, in un campagna che sa di mirto e di elicriso e s’odono di lontano le campanelle degli armenti al pascolo, prende vita lo spettacolo Elegia delle cose perdute di Compagnia Zerogrammi per la coreografia di Stefano Mazzotta. L’opera, ispirata dal romanzo I poveri di Raul Brandao e dalla stessa terra di Sardegna dove è nato e si è in gran parte sviluppato, accoglie in sé tutto ciò di cui si è parlato finora: la memoria, le radici, il senso di perdita, l’abbandono, la morte. Un uomo con un piccolo lampione legato allo zaino si avvicina. Intorno a lui il buio tenuto a malapena a distanza dalla lucina che porta appresso. Sedutosi su uno sgabellino, comincia a porre a terra delle vecchie paia di scarpe. Sono proprio questi oggetti a richiamare le altre apparizioni: dalle calzature si dipana la matassa delle immagini. La donna che non ricorda cosa ha tralasciato e di chi siano i nomi delle persone che chiama a sé, il becchino che con la sua pala seppellisce una pianta già morta, il danzare sulle note malinconiche di un vecchio valzer sovietico. Malinconia frammista a gioia di vivere, struggimento per ciò che si è perso e si perderà, per le cose dimenticate eppure importanti, per il tempo che se ne va, tutto in Elegia delle cose perdute ci induce a riflettere su quanto poco siamo attaccati alla terra, non solo perché pronti a volar via al primo soffio di vento forte, ma soprattutto perché privi di un passato e incapaci di costruire un futuro diverso dal presente miserevole in cui ci troviamo impantanati. Magnifica l’ultima immagine in cui l’occhio dell’osservatore si trova rapito e trasportato in una vecchia foto color seppia, dove a ogni nuova inquadratura, le persone gradualmente svaniscono e rimangono solo le vecchie scarpe, anche loro, infine, inghiottite dal buio.

Elegia delle cose perdute riesce con grande poesia a restituirci l’anima del libro di Brandao, delle classi povere rurali, dei semplici, ma ci ricorda anche da dove veniamo, da quale realtà povera e contadina sorga questo paese ora arrogante nel sentirsi ricco e civile, vincente anche quando corroso dalle miserie, totalmente sradicato perché incapace di ricordate per cosa ha combattuto e su quali ceneri è risorto. Certo l’opera di Zerogrammi non è connotata in senso apertamente politico, ma proprio perché sa essere universale diventa politica in senso ampio, capace di condurre a una profonda riflessione attraverso le immagini che sa costruire e all’empatia di conseguenza generata in chi guarda. Non ci sono discorsi o proclami, solo grande arte, pronta a sussurrare saggi e complessi enigmi in ogni orecchio aperto all’ascolto. Elegia delle cose perdute sarà anche un film in anteprima al prossimo Festival Oriente-Occidente e ovviamente in Sardegna in autunno.

Alexandre Fandard Comme un symbole

Il tema delle radici lo troviamo anche in due giovani talenti visti in terra di Sardegna durante il Festival Cortoindanza. Parlo di Alexandre Fandard, in scena con il suo pezzo breve, Comme un symbole e della giovanissima Giulia Cannas con No caption needed. In entrambi i lavori la propria storia-biografia, l’esperienza di vita personale, difficile per ragioni diverse, diventa materiale primario per la composizione scenica, e che si va a innestare, universalizzandosi e aprendosi verso il pubblico, con gli altri elementi linguistici e coreografici. Nel caso di Alexandre Fandard il passato nelle banlieu si inscrive nel corpo e nel gesto, è costume e maschera ma insieme rivendicazione identitaria, è racconto e rivolta politica. Come diceva Camus un uomo in rivolta è un uomo che dice no, e insieme: «dice sì fin dal suo primo movimento». Questo noi vediamo fin dal primo gesto coreografico, un affermazione politica che segue un atto di diniego. Vediamo una storia che si fa denuncia, atto di coraggio, movimento empatico verso il pubblico per trascinarlo in strada insieme a una gioventù negletta, carica di rabbia, ma piena di volontà di costruire un futuro spesso negato.

Giulia Cannas No caption Needed

Giulia Cannas, alla sua opera prima come autrice, compie un’operazione più mediata, facendosi attraversare dal testo di Sergio Atzeni Bellas Mariposas, uno scrittore prematuramente scomparso in mare che ha dedicato la sua letteratura all’affermazione di un’identità sarda. Giulia, nativa di Iglesias, una provincia estremamente povera e depauperata e che necessariamente ha influenzato la sua storia di danzatrice, si fa attraversare dal testo di Atzeni, lo incarna, se lo scolpisce nel proprio corpo danzante, lo rende suo e lo ridona trasformato al pubblico. Certo siamo di fronte a un’autrice in potenza, un’artista appena avviata sul cammino della creazione, la quale necessariamente deve fare ancora molti passi nella formazione per approfondire e arricchire il proprio linguaggio, ma che dimostra di avere, oltre a uno straordinario talento innato, ben profonde radici, di sapere da dove parte e guarda avanti sicura verso l’obiettivo prefissato. Se saprà rimanere salda, se non si perderà nelle difficoltà e nelle lusinghe del mondo dello spettacolo dal vivo avremo nel futuro un’autrice forte capace di commuovere e di commuoversi, di raccontare il proprio mondo interiore rendendolo aperto, universale.

Le radici, dunque, sono l’elemento comune tra gli ulivi e gli spettacoli di cui si è parlato, radici che sono messe in pericolo sia nel mondo vegetale che in quello culturale, sebbene questo accada per ragioni molto diverse. Averne cura non avrà effetti positivi solo sulla pianta sacra ad Atena, ma anche in ambito artistico e creativo: ricordarsi le funzioni, la storia propria del teatro, le sue evoluzioni millenarie, non è un vano bagaglio erudito intellettuale, ma un comprendere le potenzialità di un’arte che come gli ulivi ha millenni di storia. Quelle radici che affondano nella lontana alba del mondo greco, trasmettono la linfa verso un nuovo futuro, da cercare, costruire, inventare. Al contrario rinnegare le radici o, peggio, non conoscerle per incuria, può solo inaridire il flusso creativo e innovativo. Atena è dea potente, figlia di Metis (la capacità di adattamento all’istante), dea della saggezza e della battaglia intesa come difesa, protettrice delle arti e dell’artigianato, una dea-radice, da cui possono trarre forza e ispirazione non solo le piante dalla foglia argentea.

Cortoindanza

CORTOINDANZA 2020: far crescere i germogli

Siamo malati di iperproduzione. Lo possiamo chiaramente constatare in questo settembre dove gli eventi si accalcano e sovrappongono come folla al black friday. Chi li ha contati è giunto alla incredibile cifra di centonovantacinque festival in questo solo mese. Una volta di più si constata quanto siamo tutti costretti a produrre, a dimostrare di fare per meritare fondi e sostegni. Diventa dunque sempre più pressante la domanda di Milo Rau: come possiamo parlare di libertà artistica?

In questo contesto frenetico, dove la scena è intasata di attori e mattatori alla ricerca d’aria e visibilità in proscenio, risulta difficile illuminare con il giusto taglio e intensità chi lavora in controscena. È un’impresa sempre più difficile far risaltare il lavoro alacre e discreto di chi si discosta o, per lo meno cerca di divergere, dalla comune foga produttiva senza cadere a propria volta nella furia della condivisione e della promozione social. Insomma in questo contesto iperproduttivo e ipercompetitivo come far emergere chi lavora sottotraccia, senza enfasi e retorica privilegiando altre parole chiave quali formazione, cura, etica, comunità?

Un evento dove queste caratteristiche sono protette e favorite è il Festival Cortoindanza, organizzato a Cagliari da Tersicorea sotto la direzione artistica di Simonetta Pusceddu e giunto, in questo complicato 2020, alla sua tredicesima edizione. Ogni anno il festival seleziona un numero variabile di scritture coreografiche (quest’anno sette) da presentare a una commissione formata da coreografi, programmatori, critici (quest’anno ho avuto l’onore di farne parte), a cui viene chiesto, non di assegnare un premio al migliore, ma di valutare in che modo ciascun progetto possa essere valorizzato assegnando alla bisogna tutoraggi, residenze artistiche, produzione, circuitazione. Tale azione è possibile grazie alla rete Med’arte della Sardegna e del Bacino del Mediterraneo di cui fanno parte Twain Centro di Produzione Danza (Roma/Tuscania), Zerogrammi (Torino), Lavanderia a vapore (Torino) Festival ConformAzioni (Palermo), Fondazione Fabbrica Europa, Certamen Coreográfico de Madrid (ES), Café de les artes Teatro de Santander (ES), Project Insomnia de Granada (ES), Cie Héliotropion (FR).

L’azione e l’attenzione di Cortoindanza e della commissione è rivolta a creare un percorso personale per ciascun lavoro e per ciascun artista su un periodo di un anno al termine del quale ritrovarsi e scoprire le evoluzioni, stabilire se il cammino formativo è stato utile, quale criticità sono state risolte, verificare insomma l’efficacia delle azioni prodotte. Il processo decisionale della commissione è complesso e passa da numerosi stadi, alcuni dei quali ripetuti più volte (per esempio le visioni dei lavori), in cui il dialogo e il confronto con gli artisti sono il nucleo principale. Tutto ciò è necessario per individuare per ciascun lavoro il giusto sostegno.

L’attenzione e la cura investiti in questo percorso valutativo e formativo voluto da Cortoindanza e da Simonetta Pusceddu spingono a condividere una serie di riflessioni utili forse a illuminare possibili prassi alternative nel sistema danza e teatro italiano.

In primo luogo la volontà di ricercare un dialogo costruttivo e non paternalistico con le nuove generazioni. Al primo posto quindi l’ascolto e non il giudizio, il mettersi a servizio più che imporre punti di vista. Nella pratica di valutazione questo si sostanzia, come detto, in visioni ripetute dei lavori, scambi di feedback e incontri singoli con gli autori al fine di individuare per ciascun lavoro il corretto e più utile supporto che, in forme diverse e personalizzate, viene a tutti garantito. Il festival diviene dunque un momento formativo non solo per i giovani ma per la commissione medesima in questo mettere a confronto esperienze, conoscere percorsi di vita e apprendere linguaggi.

Tale offerta formativa e umana è avvenuta nonostante le difficoltà oggettive del periodo (distanziamento, sicurezza e sanificazione), aggravate dalla sordità e inefficienza della politica. La Regione Sardegna ha infatti tagliato i fondi a Cortoindanza di quasi al cinquanta per cento mettendo fortemente a rischio la realizzazione del progetto. Inoltre le usuali location dal Teatro Massimo, al teatro di Selargius al T.Off, sono tutte venute meno per le condizioni dettate dalla pandemia, per cui è stato necessario individuare uno spazio all’aperto (un locale musicale l’INOFF) dove l’organizzazione di Cortoindanza si è spesa con estrema generosità per superare le carenze tecniche al fine di garantire a tutti i lavori in selezione le migliori condizioni possibili per l’incontro con il pubblico e la commissione.

Un secondo punto caratterizzante il progetto di Simonetta Pusceddu è l’accento posto su un’azione volta a sviluppare i suoi effetti in un tempo non misurato sull’istante. Tutti gli artisti selezionati ritorneranno in Sardegna a distanza di un anno dopo aver affrontato le varie tappe di residenza, crescita e formazione, un’altra volta a confronto, riportando al pubblico le proprie crescite e consolidamenti. Una cura contadina nel vedere crescere il germoglio, nel rafforzarlo perché cresca forte e rigoglioso. Tutto il contrario del commercio ipercapitalistico, dell’allevamento intensivo di talenti da immettere sul mercato e poi abbandonare una volta ottenuto lo scopo. La cura e l’attenzione al posto dello sfruttamento sistematico. È un punto di principio su cui sarebbe necessario riflettere a lungo soprattutto a paragone di eventi che producono, in un anno critico come questo, decine di lavori nuovi che non avranno alcuna possibilità di trovare un ambiente atto alla crescita e allo sviluppo. Pasolini diceva: “non si può trattare la poesia come merce” eppure tutto spinge in quella direzione. Simonetta Pusceddu e Cortoindanza cercano di opporre un’azione diretta nell’arco di un anno, periodo breve ma non brevissimo, su cui è possibile misurare uno sviluppo.

Ultima breve riflessione sul tentativo di superamento del concetto logoro e abusato di under 35. Da sempre chi scrive contesta il confine d’età, quel vallo Atlantico che separa la selva di opportunità dal deserto dei Tartari, privilegiando piuttosto una metodologia in uso in ambito cinematografico di opera prima e seconda, quindi più un avviamento all’indipendenza professionale che lo sfruttamento intensivo di un dato puramente anagrafico. A Cortoindanza l’età non è discriminante, sono i progetti a ricevere attenzione e l’eventuale percorso di accompagnamento diretto alla crescita e allo sviluppo.

Due parole in generale sui progetti. Tutti e sette si sono presentati con un buon livello tecnico e con idee piuttosto chiare e intellegibili. Emergono per la cura coreografica e l’immaginario creativo 752 giorni di Silvia Bandini e Ultimo Piano del duo Gasparetto/Pizziol. Tutti i partecipanti con grande generosità e umiltà si sono messi in gioco e in ascolto, condividendo pensieri, preoccupazioni e aspirazioni in questo momento storico di grande fragilità del sistema. I problemi maggiori concernono la drammaturgia e l’impianto scenico, fenomeno più che mai comprensibile rispetto ai tempi in cui viviamo, laddove i progetti si sono sviluppati in tempi di solitudine, contenimento e quarantena, ma comunque endemico degli ultimi anni. Si pensa più a cosa dire che a come dirlo anche perché spesso è difficile sperimentarne la tecnica da cui il linguaggio dovrebbe prendere il volo (ricerca corporea, illuminotecnica, audio, tempi di prova, utilizzo di piccoli o grandi spazi, etc.). La fase creativa è estremamente fragile, non supportata, non valorizzata. Si vuole dai giovani il risultato, si pretende che portino pubblico, non che possano sbagliare, utilizzare il tempo per cadere e apprendere a rialzarsi. Soprattutto a mancare è quel tempo necessario a elaborare una narrazione (stratta o concreta, intima o universale) che superi il momento dell’espressione di sé diventando un istante di messa in questione della realtà in comunione con lo spettatore.

Quello che è necessario ricostruire è dunque il rapporto con il pubblico, cosa condividere con la comunità che osserva. Anche questo aspetto non è una novità. La risposta non è la strategia di engagement, che pensa esclusivamente al successo numerico immediato e a tirar per la giacchetta il pubblico, quanto piuttosto l’impact to society, ossia come essere parte integrante di una comunità, con un ruolo e una funzione soprattutto oggi in cui viene a essere minato il valore politico e sociale della compresenza dei corpi, schiacciato da due opposte visioni, quella dell’estremo distanziamento e quella becera del negazionismo populista alla ricerca dell’indifferenziato di massa e non dell’individuale significativo e condiviso.

A conclusione di questo breve quanto incompleto racconto di un festival piccolo ma complesso come Cortoindanza di Simonetta Pusceddu vorrei riportare le parole di Georges Didi-Huberman: ”Per conoscere le lucciole, bisogna vederle nel presente della loro sopravvivenza, bisogna vederle danzare vive nel cuore della notte, anche se quella notte viene spazzata via da qualche feroce riflettore” questo spirito mi ha spinto a scrivere nonostante il mio coinvolgimento come commissario. In mezzo alla selva fitta e intricata dei mille eventi su cui tutti puntano i riflettori mi sembrava giusto, essendo stato testimone, di riportare l’occhio di chi non c’era su questa piccola ma poetica lucciola nel mondo della danza, sulla sua generosità e disponibilità, sulla sua volontà di far sbocciare i germogli, di averne cura e poi lasciarli andare sperando che crescano forti.

Cagliari 1 – 4 settembre

I progetti di Cortoindanza 2020:

“Ultimo piano” Giorgia Gasparetto, Priscilla Pizziol
”752 giorni” Silvia Bandini
“A faun” Chiara Olivieri con Carlotta Graffigna e Luca Ghedini
” Crisalide” Giovanni Insaudo, con Sandra Salietti Aguilera
”Origami” Sofia Casprini
” Sono solo tuo padre” Giovanni Leonarduzzi
” Accade” Chiara Bagni