Sabato 28 novembre si è chiuso il 38mo Torino Film Festival, il primo sotto la nuova direzione di Stefano Francia di Celle ma anche il primo in versione interamente digitale. Se da una parte un’edizione interamente online riesce a ovviare le limitazioni imposte dalla pandemia, dall’altra rende complesso inquadrare il festival di quest’anno. Difficile individuare una linea in un programma necessariamente ridotto, né tanto meno percepire il gradimento e il polso del pubblico. Nonostante gli impedimenti e le frustrazioni di vivere un festival tra le mura domestiche proviamo a fare alcune considerazioni.
Dal programma di questo 38mo Torino Film Festival si può constatare da una parte un rafforzamento della presenza di documentari nelle varie sezioni TFFDOC, dall’altra la scomparsa delle retrospettive e una riduzione delle presenze dei film di genere relegati nella ridotta sezione Le stanze di Rol. Questi due fattori oltre all’attenzione, nei film in concorso, verso tematiche sociali, politiche e di genere sembrano far pensare che le prossime edizioni del Torino Film Festival si orienteranno verso una cinematografia attenta alla disamina del presente e delle sue contraddizioni.
Difficile una valutazione del programma considerate le difficili condizioni in cui si è svolto il festival. Inoltre un festival non è solo una rassegna di film, spettacoli o concerti, e neppure è una fiera per operatori del settori. È prima di tutto una festa, un luogo di incontro, di dibattito e discussione. Mancando tutto ciò è a dir poco impossibile fare delle considerazioni attendibili su un evento monco della sua parte sociale più importante e rappresentativa. Ci limiteremo quindi a una disamina dei film in concorso a nostro avviso più significativi per i temi trattati, augurandoci che le esperienze digitali in solitaria restino un ricordo freddo e insipido della pandemia.
Iniziamo da Botox di Kaveh Mazaheri (Iran/Canada, 2020, 97′) vincitore del Premio per il miglior film e per la Migliore sceneggiatura. In un’atmosfera invernale e gelida, due sorelle, Akram la maggiore ma con ritardo mentale, e Azar, minore ma intraprendente e spregiudicata, mentono sulla scomparsa del dispotico fratello. L’atmosfera del racconto benché si muova sui toni del giallo psicologico, si innerva di colorazioni oniriche quanto basta da farci credere in un sogno ad occhi aperti dove gli elementi perturbanti mettono in continua discussione le certezze dell’osservatore. Il film si nutre di doppi, di elementi fantastici, rotture temporali, di suspence emotive che inchiodano lo spettatore fino all’ultimo fotogramma dove tutte le certezze acquisite, in un istante svaniscono. Di particolare rilevanza le tinte fosche in cui tutti i personaggi sono immersi: nessuno è innocente e nessun sentimento è privo del suo esatto contrario.
Il nostro piccolo viaggio all’interno del programma del 38mo Torino Film Festival prosegue con un’altra grande pellicola Sin señas particulares di Fernanda Valadez (Spagna-Messico, 2020, 95′) a cui giustamente viene riconosciuto il Premio Speciale delle giuria nonché il Premio alla Migliore Attrice a Mercedes Hernandez. Una donna si mette alla ricerca del figlio scomparso alla frontiera con gli Stati Uniti. In questo suo peregrinare, aggrappata alla flebile speranza che il figlio possa ancora essere vivo, questa madre incontra un universo ambiguo, fuori dalla legge e dalla civiltà, ma dove sono ancora possibili piccoli gesti di umanità benché tutto sia contaminato dalla violenza. Il film narra con grande lucidità i drammi sanguinosi legati all’immigrazione clandestina che quotidianamente avvengono sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti dove, laggiù come presso le nostre frontiere, la ricerca di una vita migliore è terreno di sfruttamento e rapina, e dove la vita umana di chi si mette in viaggio non assume valore alcuno e sopravvivere significa in qualche modo morire.
Eyimofe – This is my desire di Arie e Chuko Esiri (Nigeria/Usa, 2020, 116′) segnalato con una Menzione Speciale ci permette di gettare uno sguardo nella cinematografia africana purtroppo assente, nonostante la forte crescita, in molte programmazioni. Anche in questo racconto lo sfondo è l’immigrazione ma vissuta come desiderio frustrato. Siamo a Lagos e due sono le storie parallele che compongono la narrazione: Mofe è un uomo buono, caratterizzato da un ammirevole stoicismo di fronte ai lutti, ai piccoli soprusi, alle violenze che subisce alla ricerca di modo per lasciare la Nigeria; e c’è Grace, una ragazza dolce, pronta a prendersi cura della sorella minore rimasta incinta, innamorata di un americano che non saprà che abbandonarla e deluderla, e insidiata da Mr. Vincent, il padrone di casa, che la vorrebbe in moglie. Sia Mofe che Grace saranno costretti a rinunciare ai propri sogni, uno per mancanza di soldi depredati da un padre insensibile al benessere dei propri figli, e l’altra per non sottostare a una vita di sfruttamento nel paese di arrivo per restituire i soldi del viaggio. Mofe e Grace si troveranno a vivere una vita diversa da quella immaginata, ma abbracciano il loro destino con grande dignità e stoica rassegnazione, trovando il bene anche il ciò che non avevano per nulla desiderato.
Interessante seppur nei troppi difetti di sceneggiatura Mickey in the road della regista taiwanese Mian Mian Lu (Taiwan, 2029, 95′). Il confronto è tra le due opposte Cine: da una parte la tradizionalista Taiwan, dove persistono le radici classiche della cultura cinese pur nell’immersione nella cornice occidental-capitalista, dall’altra la Cina continentale, popolare e comunista nel nome ma pronta a tagliare i ponti con il suo passato pur di lanciarsi in un futuro di benessere e di dominio economico. Mickey e la sua migliore amica vanno a Guanzhou, una per ritrovare il padre, l’altra il fidanzato. Entrambe saranno deluse e rifiutate da queste figure maschili tanto da essere costrette a tornare a Taiwan respinte e confuse. Benché come si diceva vi siano alcuni difetti di sceneggiatura (l’amica di Mickey nel finale sparisce senza che il suo personaggio sia veramente risolto per esempio) vi sono alcuni elementi narrativi che ben raccontano la distanza e il confronto tra le due realtà cinesi. Primo fra tutti l’utilizzo della lingua: quando le ragazze arrivano a Guanzhou parlano il cinese di Taiwan mentre i coetanei incontrati in un internet café il dialetto cantonese ma, man mano che la storia procede i due gruppi scivolano quasi senza accorgersi nel pechinese, incontrandosi in un idioma che non appartiene e nessuno dei due gruppi, ma nello stesso tempo è la loro lingua. Altro elemento di interesse, l’utilizzo di contraddizioni visive che inducono lo spettatore attento a riflettere su quando sta avvenendo: un esempio è sempre la scena nell’internet café dove Mickey e la sua amica non riescono ad accedere a Facebook e Googlemaps. I ragazzi a loro vicini, con le magliette di Gucci, affermano con naturalezza sconcertante che questo avviene per la censura. L’accenno alle misure restrittive della libertà sembrano non turbare nessuno in un contesto di luci sfavillanti, benessere economico e vestiti alla moda.
Un confronto fra presente e passato in Irlanda del Nord al tempo della Brexit è Wildfire di Cathy Brady (UK-Irlanda-Italia, 2020, 85′). Il passato difficile di due sorelle riemerge in un paesino di confine tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda. La madre delle due donne si suicidò dopo la morte del marito in uno degli ultimi attentati dell’IRA i cui responsabili, proprio a causa degli accordi del Venerdì Santo, vengono tutti amnistiati. Nei giorni di discussione, dopo la Brexit, di una frontiera morbida sulla frontiera irlandese, il passato riemerge con tutte le contraddizioni. Il contesto politico rischia di far riaffiorare gli antichi odi sepolti senza essere stati veramente sanati. Belle alcune scene alla Ken Loach ma il film riesce solo ad accennare senza veramente approfondire i temi politici.
Di notevole interesse Camp de Maci del rumeno Eugen Jebeleanu (Romania, 2020, 81′). Un poliziotto omosessuale, incapace di convivere con la propria natura, si trova improvvisamente a confronto con se stesso quando viene chiamato a sedare uno scontro in un cinema gay causato da gruppi religiosi di destra. La narrazione si sviluppa in ambienti ristretti, claustrofobici (l’interno di un appartamento, l’abitacolo del cellulare, il cinema affollato) con riprese strette sul viso del protagonista, quasi a escludere tutto ciò che avviene intorno a lui focalizzando l’attenzione solo sulla tempesta emotiva che lo attraversa. Lo spettatore è catturato da questa atmosfera emotivamente costrittiva percependo fisicamente la lotta strenua che avviene nell’animo del protagonista magnificamente interpretato da Conrad Mericoffer, vincitore del Premio come Migliore Attore.
Ultime due segnalazioni tra i film in concorso in questo 38mo Torino Film Festival sono Moving on del coreano Dan By Yoon (Corea, 2019, 105′), vincitore del Premio della Federazione Internazionale della Stampa come Miglior Film, e Casa de Antiguidades di Joao Paulo Miranda Maria (Brasile/Francia, 2020, 87′).
Moving on è un racconto familiare e delicato in cui i dissidi, le piccole violenze, i contrasti generazionali, vengono portati alla luce con semplicità tramite piccoli episodi, frammenti minimi, dialoghi essenziali. Di tutt’altro tenore Casa de Antiguidades in cui la vicenda di un anziano uomo di colore abita e lavora nella zona più ricca del Brasile e vive sulla sua pelle tutte le contraddizione di un capitalismo aggressivo sostenuto dalle idee di una destra conservativa e razzista. Il contesto narrativo, benché di elegante fattura, si allontana dalla semplicità, anzi è fortemente nutrito di intellettualismo con continui riferimenti mitici e simbolici alla fine un po’ stucchevoli.
Per concludere il 38mo Torino Film Festival ha presentato un concorso con una selezione di film attenti alle contraddizioni del nostro presente, avendo l’attenzione di aprire per lo spettatore delle piccole finestre su molti paesi e continenti. Certo per avere una sensazione vera della direzione intrapresa dal festival sotto la direzione di Francia di Celle dovremo aspettare il prossimo anno, sperando di poterci ritrovare al Cinema Reposi o al Cinema Massimo per confrontarci dal vivo, commentare, criticare, discutere e vivere veramente la festa che il cinema porta.
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