Al termine delle repliche milanesi presso Campo Teatrale, abbiamo deciso di fermarci a chiacchierare con la compagnia Domesticalchimia dopo aver assistito al loro ultimo lavoro: Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale. Diretto da Francesca Merli e scritto da Camilla Matiuzzo, sulla scena Davide Pachera, Giulia Maulucci e Massimo Scola costruiscono in una lunga serie di quadri la loro composita e parossistica visione delle relazioni, facendo leva su un linguaggio che forza il realismo verso i lidi del paradosso e del cinematografico. Avevamo però voglia di scoprire qualcosa di più sulle motivazioni e i meccanismi compositivi sottesi al lavoro di una compagnia giovane che prova attraverso la sperimentazione, personale e attoriale, a rimettersi costantemente in discussione.
Chi è e che cos’è Domesticalchimia? Com’è strutturata la vostra “alchimia familiare”?
La compagnia è nata ufficialmente nel 2016, siamo Francesca Merli (regista e drammaturga), Federica Furlani (sound designer e compositrice) ed Elena Boillat (coreografa e performer) e, conoscendoci da un po’ di anni, abbiamo dei temi che volendo o meno continuano a ritornare in tutti i nostri lavori. Con una certa frequenza ricorre il tema dell’infanzia: “un bambino che non sa se vuole crescere”è una frase che un pochino ci rappresenta. La morte è un altro tema che torna, proprio perché ci piace affrontare ciò di cui abbiamo paura e che tendiamo a rifiutare.
Questa volta avevamo voglia di esplorare la complessità delle relazioni familiari e quelle all’interno della coppia. I nostri spettacoli parlano molto spesso di storie di abbandono e di solitudine, e in generale indaghiamo le stesse ferite che abbiamo un po’ tutti noi e di cui tutti facciamo esperienza. Finora ogni lavoro tenta un linguaggio a sé, ed è un’esplorazione sempre diversa. Anche gli attori con i quali lavoriamo sono artisti che vengono da formazioni accademiche diverse. Non sempre si parla la stessa lingua all’inizio di un progetto, ma poi si trova sempre un modo per relazionarsi e iniziare la creazione. Ci piace lavorare con attori “che hanno fame di fare insieme”, nel senso che l’attore deve essere sempre messo nella condizione di sviluppare una personale curiosità rispetto al progetto. Nei nostri lavori rischiamo molto, anche perché diamo molta autorialità allo spettatore. Pensiamo che sia molto importante lavorare in squadra: è quando si sente di avere un obiettivo comune che gli spettacoli riescono; non sempre accade, ma l’importante è avere chiaro quello che vuoi andare a fare, almeno le intenzioni di partenza.
E per Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale?
Qui la missione era il pubblico, incontrarlo veramente. Abbiamo imparato qui a Campo Teatrale che ogni sera lo spettacolo cambia in base a chi c’è in sala.
In questo approccio così orizzontale, anche le drammaturgie sono a più mani? O sono frutto di una scrittura privata che si traduce man mano?
Il Contouring Perfetto, il primo spettacolo ufficiale della compagnia (lo abbiamo visto lo scorso anno presso il Teatro delle Passioni di Modena, http://www.enricopastore.com/2018/02/16/contouring-perfetto-domesticalchimia/ ) è nato dalle improvvisazioni delle attrici, poi trascritte e rielaborate dal drammaturgo Riccardo Baudino. In quello spettacolo esiste poi una vera drammaturgia del movimento, a cura di Elena Boillat, e del suono, a cura di Federica Furlani, ed è stato il primo lavoro propriamente collettivo.
Per Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale è stato diverso. C’erano alcuni temi che Francesca voleva esplorare, ma anche la consapevolezza di non voler scrivere un testo in solitaria. In seguito a una residenza presso Emilia Romagna Teatro è stata Camilla Mattiuzzo, drammaturga, a guardare gli attori in faccia uno per uno e a concepire un testo che fosse per loro. Esisteva una bozza, delle prime suggestioni, ma i personaggi sono nati in seguito ad una serie di interviste. Una sorta di battesimo: ci si chiedeva di attingere a un modo di essere personale, intimo, privato, coinvolgendo comunque la dimensione recitativa, e da lì è nato il materiale che su indicazioni di Francesca è confluito nel testo di Camilla. Per noi è stato molto importante, perché tutti i giochi nati lì ritornano tutti sulla scena.
Mi aggancio al vostro lessico per dare degli input senza domanda. Oltre al titolo ci sono alcune parole che arrivano subito: le penso come a quelle che Peter Brook chiamava “parole radianti”. Fra le molte vorrei soffermarmi su due. La prima è “soddisfazione”. È un concetto su cui insistete particolarmente, e per di più si situa all’interno dei due macro binari su cui corre lo spettacolo: la sfera familiare e quella emotiva. Binari che però ci presentate già sfasciati: non solo pensando alla famiglia come struttura archetipica tribale, unica a consentire col riconoscimento l’accesso dell’individuo all’età adulta; ma anche pensandola nelle sfumature della sociologia moderna, in cui questa è l’unica garanzia di assistenza umana nel momento in cui una dimensione “esterna” al nucleo biologico (vedi lo Stato, le sicurezze economiche e lavorative sottoposte a una erosione crescente) viene a mancare. Però ancora, la modalità di relazione che mettete in atto risulta pazzesca, in quanto c’è un ossessivo rivolgersi proprio verso l’esterno, qui il pubblico, mentre è difficilissimo che ci sia una comunicazione fra gli attori. E se la soddisfazione diventa tutto il metro della felicità personale, l’amore si situa comunque difficilmente, nel momento in cui il desiderio è sempre sbilanciato verso la realizzazione del sé. La seconda parola invece, decisamente disturbante e insistita, è “normalità”, che qui sembra sottintendere “normativo”.
Sulla “soddisfazione” hai proprio centrato il tema. Era una cosa che ci ripetevamo spesso prima di iniziare la creazione, di quanto per noi come generazione sia faticoso il cercare di valere qualcosa per gli altri. Questa fatica ci è stata trasmessa in primis proprio dalla famiglia, infatti i personaggi in scena ricercano una soddisfazione proprio all’interno del nucleo familiare. È un tema forte per la nostra generazione, quello di sentirsi insoddisfatti. Rispetto alla “normalità” invece diciamo che in effetti è la paura che ha inciso di più sull’essere umano del nostro tempo e, a scanso di retorica, in particolar modo sulle donne. Ci hanno inculcato tanto bene il fatto che normalità sia sinonimo di sicurezza e che questa sia poi una promessa di felicità: si passa la vita a dire “non posso fare questo se non ho quest’altro”, “non posso fare un figlio se non ho uno stipendio, non posso fare uno spettacolo se non ho una grande produzione, etc”. Un’insistenza sull’“essere normale” che significa adempiere a una categoria che possa far accedere alla felicità, il che è un grandissimo equivoco.
Secondo voi questo è davvero collegato, come ci dite nello spettacolo, a uno stile di vita medio-borghese? E nonostante tutto quello che a livello di pensiero si è succeduto nel corso del Novecento, non solo a livello di psicoanalisi: ha ancora senso parlare della ricerca della felicità collegata alla medio-borghesia?
Il concetto di normalità è più legato a un concetto di stabilità, che per noi ha un grande significato, perché forse irrealizzabile. Con lo spettacolo forse prendiamo un po’ in giro la psicoanalisi e la sua volontà di non giudicare l’altro. Nel momento in cui un figlio manifesta un disagio, lo si porta immediatamente dallo psicologo. Lo portiamo a parlare con una terza persona, con uno sconosciuto, prima di chiedergli realmente cosa c’è che non va. Fatichiamo ad ascoltare, oggi più che mai. Prima i figli erano un po’ i figli di tutti, erano i figli del quartiere, forse anche della povertà, ma si cresceva con la consapevolezza che non si era soli. Ora invece le famiglie sono formate principalmente da un nucleo ristretto: i genitori e un figlio. Punto. Dove la normalità va sempre ricercata. Dove se un figlio ha alcune difficoltà a scuola, basta poco per “diagnosticare” dei D.S.A (disturbi specifici dell’apprendimento): sentiamo la necessità di dare etichette. Dove sta la “normalità”? Noi non lo sappiamo di certo, ma è un valore ancora importante per la nostra società, un’oasi che si cerca nel deserto.
Emerge dallo spettacolo un’idea dei rapporti che lascia intendere una sfiducia nella possibilità di costruzione anche considerando le linee di fuga che tracciate.
No, non si tratta di sfiducia, c’è la consapevolezza e l’apertura data dalla scelta che ognuno di noi può fare. Noi ci siamo chiesti molte volte se stavamo mettendo in scena i nostri genitori oppure come saremo noi genitori. Ci siamo risposti che sì, siamo noi quei “tipi” di genitori. Alla fine, forse “normalità” è solo riuscire a vivere senza i dubbi che ti danno gli altri. E la norma oggi è ben più ampia rispetto a quella delle nostre madri o nonne. No, non c’è sfiducia, piuttosto un “così doveva andare”.
E ora? Che progetti ci sono per il futuro?
Abbiamo pensato a un nuovo progetto che si chiama La Banca dei Sognibasato sul libro omonimo di due antropologi francesi che hanno fatto una lunga indagine sull’attività onirica delle persone. Ci ha commosso il fatto che questa indagine fosse nata da una perdita improvvisa, il lutto del loro primo figlio. Per rielaborare questo doloroso trauma hanno deciso in un momento in cui i loro sogni e incubi erano così ingombranti di capire come e cosa sognano le persone. Partendo dalla loro ricerca, inizieremo la nostra in diverse tappe e città d’Italia.
Sarà importante capire attraverso i sogni delle persone qual è il quadro della nostra società, dove risiedono le nostre fantasie, le ansie e le paure del nostro tempo, in che tipo di società viviamo.