Prima di parlare di Von di Daniele Albanese (in scena sabato 16 dicembre a Torino Danza) mi prendo la licenza di fare una piccola divagazione. Lo sguardo mi spinge verso le Nature morte di Morandi. Quei colori tenui, quelle bottiglie e recipienti che emergono dalla pasta del colore, dalla materia stessa della pittura senza darsi troppo affanno, in pochi tratti. Figure ricorrenti, efficaci, reali, con la pesantezza della realtà quotidiana, la durezza della vita, appaiono sulla tela solo con i mezzi propri della pittura: colore, ombra, disegno, materia. Nessuna narrazione, nessun dramma: solo le cose, solo le bottiglie sulle mensole. Eppure c’è tutto in quel semplice essere bottiglie che appaiono sulla tela con l’uso sapiente del colore. Non siamo nel vorticoso mondo di Van Gogh, dove ogni particella di colore canta straziata il vorace cannibalismo di natura. Siamo in un mondo più compassato, controllato. Solo oggetti inanimati, disposti con più o meno ordine su un tavolo o una mensola, tra le mura di casa. I colori sono esili, quasi deboli nella tinta, tra grigi e marroncini, verdi palude, azzurri e bianchi sporchi. Cambiano le ombre, che a volte neppure ci sono, cambia il punto di vista, la tecnica, il tratto, la pastosità del colore, la sua brillantezza. Morandi e le sue bottiglie. E benché parlino di pittura con le regole, allo stesso tempo, infrante e seguite della pittura stessa, cantano di ogni aspetto della vita. Esplodono rispetto all’essere semplici bottiglie, sebbene non siano altro che quello, ma lo sono con la forze della pittura senza aggiunger nulla, senza pensieri appiccati a forza, senza rimandi a qualcosa che sta dietro la tela. Sono, e nell’essere e basta, nell’essere colore e forma, cantano.
La danza di Daniele Albanese, e in particolare Von, mi ricorda la potenza delle bottiglie di Morandi. I corpi danzano, tra la luce e l’ombra, tra la stasi e il movimento, in quell’istante in cui ciò che è fermo inizia a muoversi. Equilibri di forze, linee di movimento, pesi e contrappesi, ritmi, frequenze, pause. É danza che si esprime con la potenza del proprio linguaggio e parla di sé. Non si racconta una storia, non si rappresenta una scena, un brandello di vita, un grande pensiero, né un qualche affanno quotidiano. Solo cosa succede tra la stasi e il movimento, nella trasformazione, nella migrazione. Cosa accade al movimento nella sua variazione, il corpo nel suo agire in rapporto alle forze che crea e si creano introno a lui. E non è forse tutto ciò che serve? In questo niente di rappresentazione non c’è forse tutta la poesia del movimento?
In questa sottrazione, soprattutto di ego e di self-expression, vi è tutta la potenza della danza di Daniele Albanese. Potremmo racchiuderla in una sorta di campo da gioco, definendola razionalista, ma essa con abile movimento di forze, di equilibri, di ritmo si svicolerebbe proponendo un potente finale, esplosivo, emozionante. E lo è a maggior ragione perché non ricorre a un esterno che lo renda tale ma solo con la danza, la sua grammatica, i suoi strumenti. È questa anche la vittoria del lavoro e dell’artigianato, senza gli scoppiettii artificiali di pensieri elevati, di impegni politici veri o presunti, di assunti etici e programmatici. L’arte è un lavoro serio che richiede tempo, ricerca, pazienza, tecnica e riflessione. È ora che in Italia ce ne si faccia una ragione e si lascino da parte sia le visioni romantiche sull’ispirazione e la stravaganza, che quelle borghesi veterotestamentarie che predicano un lavoro l’arte non lo sia affatto.
Ottimi in Von gli interpreti Marta Ciappina e Giulio Petrucci nel duo centrale. Spesso ci si dimentica del contributo che oggi gli interpreti danno alla nuova danza e alle live arts in genere. La loro capacità di tradurre le indicazioni, le direttive, i desideri dell’ideatore sono spesso lo scarto tra un buon lavoro e uno mediocre.
Ph: Andrea Macchia