In questi giorni nelle cripte dell’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, si svolge la performance a cura del LapPerm di Domenico Castaldo Armonie dai confini dell’ombra.
Non so se sia corretto definirla performance, ma sono a corto di parole adeguate nei confronti di un’esperienza che sfugge alle consuete ripartizioni di genere. Se dovessi in qualche modo confrontare Armonie dai confini dell’ombra con altre esperienze, direi che attiene più alla forma degli antichi misteri di Eleusi.
Nei riti misterici legati al dramma di Demetra e Persefone, gli iniziati esperivano la discesa nell’ombra della fanciulla Kore, rapita da Ade, e la sua riemersione nel mondo della luce a fianco della madre Demetra. Persefone/Kore, pendolo perenne in moto continuo tra la luce e l’ombra, è simbolo di ogni anima in viaggio in questo vasto mondo che respira.
La discesa nelle cripte dell’ex Cimitero di San Pietro in vincoli, il canto come esperienza uditiva, tattile, sensibile in cui non tanto il significato è da percepire quanto la materialità dei suoni e delle armonie ricreate nello spazio, il vagare tra una stanza e l’altra in varie gradazioni di luce, sono tutti elementi di un mistero laico che tende alla ricerca di un percorso spirituale.
Gli accordi delle voci, le loro modulazioni su ritmi tradizionali, il battere dei piedi, il vagolare delle voci nei corridoi, nelle volte, nelle segrete stanze all’interno della terra dedicata ai morti, sono tutti elementi che conducono lo spettatore verso un tempo separato, dilatato, non compromesso dalla rappresentazione.
Nessuno qui cerca di essere altro da sé, non c’è una vera e propria narrazione. Sono presenti solo gli elementi base per l’emersione di una forma sacrale, dedicata allo spirito qualsiasi sia il senso o il valore a cui ciascuno dei ventitré partecipanti attribuisce a tale termine.
Certo in Armonia dai confini dell’ombra c’è un filo conduttore, persino una drammaturgia (ma quale rito non ne ha una?), che però non si esplicita in un racconto quanto più in un sentiero di molliche di pane verso un altrove che per ciascuno è diverso. Le parole sono in questo contesto dei ponti verso il silenzio interiore.
Il silenzio come contenitore da cui emerge il tutto, il vuoto che è presupposto del pieno, quello zero che non è un nulla ma moltiplicatore esponenziale verso un infinito indefinibile.
Poco importa che quanto si avverte delle parole riporti a degli autori più o meno noti (c’è Nietzsche, Tarkovskij, e il teologo Pannikar e forse altri ancora che mi sono sfuggiti, nonché testi scritti dalla compagnia), ciò che diventa fondamentale è il risuonare di quelle armonie e melodie all’interno del nostro spirito che attende in silenzio ed esplora gli spazi che si trova ad attraversare.
I significati, come in ogni rito, non sono che maschere per un altro da sé. Conchiglie vuote in cui risuona un mare distante ma che in qualche modo ci appartiene, e qualora nulla si avverta, anche in questo niente c’è qualcosa che viene detto di noi.
In Armonie dai confini dell’ombra, non resta che ascoltare e seguire il percorso. Una volta tacitato il fragore delle voci che animano e lacerano il nostro spirito, che non è mai io, perché non esiste io, allora e solo allora un esperienza emerge e tocca a ognuno di noi verificarne il valore.
Alla fine di Armonie dai confini dell’ombra ci si ritrova nella stanza di partenza, gli stessi seppur diversi. Si beve una tisana in un silenzio che non è di imbarazzo quanto di raccoglimento. E poi ci si saluta. Ognuno ritorna al suo quotidiano agire/patire, le voci di dentro ricominciano a confabulare memori e nostalgiche di quel silenzio che tutto può contenere.
Armonie dai confini dell’ombra è dunque un’esperienza a tutto tondo, di sapore antico come di qualcosa che si è perso ma resta nelle nostre memorie comuni. Ma Armonie dai confini dell’ombra è anche un’esperienza vocale, della parola che si fa canto e sfugge al significato per colpire i sensi. Una vocalità che benché per una volta si trova svincolata dal dover dire, in qualche modo ci ricasca ma è sicuramente sulla strada giusta. É una ricerca preziosa, che va coltivata e che ci ricorda che l’arte performativa non è solo argomento per bandi, ma esperienza profonda che sfugge alle logiche e alle strategie. In qualche modo bisognerebbe preservare alle Live Arts questi spazi che nessun bando riuscirà mai a ospitare.