Ieri sera 6 aprile al Caffè Muller è andato in scena Primo Amore con Roberto Turchetta, per la regia di Michele Di Mauro da un testo di Letizia Russo, già Premio Ubu nel 2003 come migliore novità nella ricerca drammaturgica.
Il Primo Amore per Dante era Dio o, per meglio dire, il principale aspetto di Dio. Insieme alla potenza e alla sapienza ricostruiva un’essenziale trinità di attributi che definiva l’indefinibile. Il Primo amore ritratto dal testo di Letizia Russo pur non essendo mistico ma carnale, è assoluto e pertanto inconciliabile con la vita.
Roberto Turchetta è in scena un uomo che, per caso, in un anonimo bar, prendendo un caffè come tanti, rivede un suo amore di gioventù. Del quindicenne che era non è rimasto granché se non il ricordo, potente e dirompente, di quell’amore vissuto senza compromessi. Pura passione che esige solo di essere vissuta in tutta la sua complessità, trasporto che non guarda al domani, o alle delusioni di un passato, ma solo al presente.
L’uomo che oggi vede l’amore di un tempo è cambiato, così come il suo partner di allora. Le delusioni, i rimpianti, il tempo che cambia e appesantisce i corpi, tutto congiura per rendere amaro un ricordo sfavillante.
La promessa di non rivedersi mai era per conservare la purezza di allora dall’erosione del tempo. Ma la vita congiura contro l’amore, contro ogni amore. Odia l’eccellenza e la purezza, la vita. Sopravvive solo l’ordinario così opaco per resistere a ogni patina e ogni ruggine.
Ma non c’è solo il ricordo e la distanza. C’è anche il pregiudizio a tramare. Quello di cui si parla è un amore omosessuale, vissuto senza sensi di colpa, nella pura gioia dell’innamoramento e degli afflati del corpo. E così i due giovani amanti scoperti, si dividono, vengono colpevolizzati, rieducati, riprogrammati.
Il testo di Letizia Russo è estremamente delicato nel raccontare tutto quello che si cela dietro a questo Primo Amore: l’entusiasmo, nel senso puro della sua etimologia, l’essere presi dal dio che abita in noi e agisce per noi; la vergogna, insufflata da altri, da una società che contrasta tutto ciò che eccede e non capisce; il rimorso di non aver combattuto, di non aver vissuto abbastanza, di non essersene fregati di tutto e di tutti.
Quel che resta è il ricordo. Frammenti di euforia e gioia infinita corrosi dalla ruggine del dispiacere, dell’abbandono, dei pregiudizi degli altri.
È una triste civiltà quella che rende più importante chi si ama più che l’amore in sé. Non si dovrebbe parlare di amori omosessuali, ma solo di amore che per i greci era il dio onnipotente, quello che emerge dalla nuvola del caos, l’unico dio a imperversare in ogni regno del creato tanto da pungere il cuore di Ade, dio dei morti.
A distanza di millenni, in quello che ci ostiniamo a chiamare progresso, il genere con cui si declina amore risalta più che l’amore in sé.
Roberto Turchetta interpreta il testo di Letizia Russo utilizzando una recitazione naturale, quasi colloquiale, senza togliere nulla all’emozione, anzi forse potenziandola proprio perché non partecipa alla farsa di una lingua finta e artificiosa. Peccato solo che l’audio fosse mal calibrato. Le musiche spesso si divoravano il parlato. Il microfono non è stato di supporto alla recitazione ma incredibilmente l’ha penalizzata rendendola a volte incomprensibile.
A parte i disguidi tecnici comunque Primo Amore è uno spettacolo efficace e ben eseguito. Il testo di Letizia Russo racconta una storia necessaria, con un linguaggio semplice seppur poetico e mai banale. La regia di Michele Di Mauro è anch’essa essenziale con pochi oggetti a ricordare un groviglio di passioni tra passato e presente; il trenino elettrico, una cucina desolata, un libro di poesia.