Matteo Negrin

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MATTEO NEGRIN

Per la settima intervista per Lo stato delle cose torniamo a Torino per incontrare Matteo Negrin, direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo. Con questo ciclo di interviste vogliamo sondare i pensieri e le proposte della giovane generazione teatrale e coreutica su alcuni temi che riteniamo fondamentali: creazione scenica, produzione, distribuzione, funzioni della scena e il suo rapporto con il reale.

Matteo Negrin è da gennaio 2017 direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo, ente che si occupa del circuito regionale e della gestione della Lavanderia a Vapore, centro regionale per la danza e luogo di residenza creativa.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

R: La creazione scenica ha il compito di indicare un punto di vista attraverso il quale sia possibile cogliere il senso dell’Essere attraverso il gesto performativo. Ritengo che per essere efficace debba in un certo senso assolvere all’etica del gioco. Un gioco ben strutturato è quello che da un lato definisce in maniera chiara le proprie regole, i rispettivi ruoli e le modalità di accesso al proprio svolgimento; dall’altro lato, definisce compiutamente l’orizzonte di significato dell’azione che attraverso il gioco stesso si esplicita attraverso la partecipazione ordinata e compiuta dei soggetti che vi prendono parte a qualsiasi titolo, compresi gli spettatori. Come osservava Hans-Georg Gadamer in Verità e Metodo, non c’è nulla di più serio del gioco – in questo senso basti osservare i giochi propri dell’infanzia – e non c’è atteggiamento peggiore nei confronti del gioco che prenderlo per scherzo. Di contro, adottando questo punto di vista possiamo intravedere quali siano gli inciampi in cui può incappare una creazione scenica poco efficace: a partire dall’adozione di regole equivoche fino alla partecipazione incongrua da parte di qualche partecipante. La creazione scenica, quando si implica nell’estetica del gioco, richiede in questo senso una assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori che decidano di prendervi parte: autori, registi, performer, operatori, pubblico e critica. Ho affrontato questo tema in un lavoro del 2010 intitolato Glocal Sound – Piano Works: il lavoro ebbe una certa eco nazionale e internazionale ma – come spesso accade in ambito artistico – per motivazioni del tutto diverse da quelle che mi aspettavo.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

R: Se osserviamo la filiera creativa in questo momento in Italia, non possiamo non notare zone di sovrapposizione e zone d’ombra. Le pertinenze dei Teatri Nazionali e dei TRIC potrebbero essere meglio delineate, i Festival rivendicano di veder legittimato il proprio ruolo produttivo, le Residenze Artistiche stanno cercando di qualificare meglio il proprio segmento di azione, i Circuiti multidisciplinari lavorano sul pubblico agendo in un contesto in cui l’offerta talvolta supera la domanda. Ritengo che il nuovo Codice dello Spettacolo contenga alcuni dispositivi che andranno efficacemente a ridefinire in maniera organica questo scenario, sebbene la sfida più importante a mio parere rimanga ad oggi l’ampliamento dei pubblici della cultura. In questo senso, sono convinto che non sia l’aumento dell’offerta culturale la chiave di volta, ma l’allestimento di dispositivi innovativi per l’inclusione di ulteriori comunità alla fruizione culturale, un compito che non spetta ad un solo segmento della filiera ma a tutti i soggetti che ne sono implicati.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

R: In questo momento la filiera ha bisogno di ripensarsi in maniera meno lineare e più ecosistemica, soprattutto da parte di chi assume punti di vista innovativi dal punto di vista creativo. Non è immaginabile a mio parere che alcune creazioni del contemporaneo possano continuare a leggere il proprio percorso ideativo, produttivo e distributivo ricalcandolo su quello del teatro classico, sul quale è basata la filiera tradizionale adottata nel nostro Paese. Ripensarsi in maniera ecosistemica significa costruire le condizioni per la promozione e per la distribuzione già in fase ideativa e non a valle della creazione, ribaltandole a quel punto su soggetti terzi, in primis i circuiti. Faccio un esempio: una larghissima parte delle creazioni della danza contemporanea adottano formati adatti ai festival, ma che difficilmente possono accedere ai circuiti tradizionali della prosa. A partire da queste considerazioni, nell’area del NordOvest stiamo lavorando a nuove piattaforme per la distribuzione delle creazioni del contemporaneo in tempi e luoghi ulteriori alle sale tradizionali, a partire dalla rete museale in cui immaginiamo un felice incontro dei pubblici del contemporaneo. Questo lavoro implica competenze non solo artistiche, ma anche progettuali e amministrative perché si tratta di andare a superare norme, procedure e attitudini proprie di un approccio settoriale che è tipico del nostro Paese, e lo stiamo attuando con risorse messe a disposizione dalle Fondazioni di Origine Bancaria e dal programma Creative Europe. In un’ottica di medio periodo, confidiamo di poter strutturare più circuiti paralleli a quello dei teatri tradizionali per poter offrire agli artisti le condizioni più felici per la distribuzione del loro lavoro.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

R: Penso che se l’atteggiamento del comparto è quello della difesa, o meglio dell’arrocco sulle posizioni dell’offline, la partita è irrimediabilmente destinata alla sconfitta. A distanza di anni dalla rivoluzione digitale, dobbiamo prendere atto che non esiste una realtà offline e una online, ma un essere al mondo dell’uomo digitale che è organicamente uno, in cui i due aspetti convivono indissolubilmente e si implicano l’un l’altro. Pensiamo ai musei più innovativi come il Museo Van Gogh di Amsterdam, che offrono al visitatore uno strumento digitale all’ingresso: l’esperienza dell’attraversamento è organicamente fisica e digitale, in un ecosistema in cui analogico e virtuale concorrono felicemente ad un’esperienza che è allo stesso tempo estetica, etica e cognitiva.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

R: Anche in questo caso bisogna interrogarsi su cosa sia reale, o meglio di che natura sia la realtà in cui siamo immersi. Una fake news è un fatto, e per le conseguenze che implica nell’orientamento delle comunità fisiche e non solo digitali è senza ombra di dubbio un dato del reale. La scena contemporanea ha già iniziato ad interrogarsi su questo, in un orizzonte in cui l’analogico e il digitale costituiscono due aspetti della realtà con cui abbiamo a che fare. La filosofia occidentale ha definito nei secoli quali siano i cardini del pensiero, dell’etica e dell’estetica dell’analogico; ciò che mi sembra più urgente oggi è definire un’etica del digitale, senza la quale il gioco di cui parlavo all’inizio non ha regole certe per essere giocato con soddisfazione.