Si è conclusa a Bologna la diciassettesima edizione del Premio Scenario 2019 in cui si sono potuti visionare i corti teatrali dei dodici finalisti con uno sguardo particolare sulle nuove generazioni di artisti con la speranza possano abitare con successo le scene negli anni a venire. Il Premio Scenario da ormai molti anni è il principale strumento per l’emersione dei giovani talenti in ambito teatrale nel nostro paese.
Vincitore di quest’anno è risultata la Compagnia Favaro/Bandini di Milano con Una vera tragedia, mentre per la sezionePeriferie la giuria ha scelto Il colloquiodi Collettivo lunAzione di Napoli. Due le segnalazioni: Bob Rapsody di Carolina Cametti di Milano e Mezzo chilodi Serena Guardone di Capezzano Pianore in provincia di Lucca.
Prima di addentrarci nello specifico di un’analisi dei lavori più significativi è utile delineare qualche spunto di riflessione, emerso dalla selezione nel suo complesso, ricordando che i lavori in oggetto sono realizzati da giovani artisti alla ricerca di una propria cifra personale a cui è lecito riconoscere l’errore, l’imprecisione, persino a volte il fallimento. La ricerca di un linguaggio è un percorso faticoso, ostico, pieno di difficoltà, soprattutto nelle condizioni attuali. Inoltre è bene ricordare che i lavori presentati non sono ultimati ma tutt’ora in fase di produzione. Alla finale del Premio Scenario vengono presentati corti della durata di venti minuti a dimostrazione dello stato attuale di un processo creativo in atto.
Significativa la presenza numerosa di artisti provenienti dal Sud Italia con ben sei finalisti di cui cinque campani (Alessandro Gallo pur vivendo a Bologna è napoletano d’origine e la sua storia parla di Napoli) e una compagnia pugliese. Questo sta a dimostrare una grande vitalità teatrale del Meridione a dispetto di maggiori difficoltà produttive rispetto alle regioni del Nord. La riprova dell’esistenza di un consapevole confronto con la tradizione antica e recente (soprattutto al teatro di Emma Dante) nella ricerca di possibili sentieri di innovazione.
L’origine geografica ci indica un secondo dato degno di interesse: dalla provenienza dei dodici finalisti si può constatare come la quasi totalità delle opere presentate si sia sviluppata nei pressi di grandi centri di produzione tra Milano, Bologna, Roma e Napoli, laddove è più facile seguire un percorso formativo, non solo tecnico e teorico ma anche di visione, oltre alla possibilità di avviare processi produttivi efficaci (non a caso molti progetti presenti si sono sviluppati nell’orbita dei teatri stabili).
Se si escludono Mezzo chilo di Serena Guardone, Bob Rapsody di Carolina Cametti, Io non sono nessuno di Emilia Virginelli e Falso Movimento d’animo di Margherita Laterza in cui regia, drammaturgia e interpretazione sono accentrati in un unica persona, si riscontra un iter creativo di gruppo con competenze specifiche affidate a più soggetti e sviluppate in un continuo confronto collettivo.
Un ulteriore aspetto che merita qualche riflessione sono le tematiche considerate dai giovani artisti. Nella quasi totalità sono argomenti civili legati alle criticità del presente: la presenza, gli influssi e le conseguenze della criminalità organizzata (Il colloquiodi Collettivo lunAzione, L’ingannodi Alessandro Gallo/Caracò Teatro, Sammarzanodi Ivano Picciallo/I nuovi scalzi, Sound Sbagliatodi La Scimmia), il tema delle frontiere (Calcinacci di Usine Baug Teatre), un indagine sull’ascesa delle destre estreme in ambienti giovanili (Anticorpi di Bolognaprocess), l’influsso dei media e le dinamiche violente che suscitano (Fog di Mind the Step e Bob Rapsody di Carolina Cametti), la condizione della donna (Forte movimento d’animo con turbamento dei sensi di Margherita Laterza), un documentario teatrale sull’attività di volontariato nelle case famiglia (Io non sono nessuno di Emilia Virginelli), fino ad una storia di disturbi alimentari (Mezzo chilo di Serena Guardone). C’è dunque un recupero del teatro come sguardo sul mondo e strumento di indagine delle crisi che attraversano la nostra società contemporanea, anche se forse un po’ troppo legati al dato di cronaca e al personalismo dell’esperienza vissuta anche se a volte si evidenzia la possibilità di trasformarsi in un dato condivisibile e universale.
Dopo questo excursus su alcune delle tematiche emerse vale la pena soffermarsi su alcuni dei migliori lavori presentati partendo da due vincitori.
Una vera tragedia di Riccardo Favaro e Alessandro Bandini è un dispositivo teatrale in grado di mettere in discussione il concetto stesso di rappresentazione. Siamo in un interno borghese e familiare dove sono presenti Padre (Vater), Madre (Mum) i quali attendono a cena Chico, (il loro figlio ma in realtà si scoprirà essere un sostituto). La polizia ha infatti scoperto un cadavere in un bagagliaio. Le didascalie con i dialoghi sono proiettate sul fondale e i personaggi in scena si limitano a ripetere benché talvolta inclini all’afasia e allo spaesamento. Anche le reazioni del pubblico sono suoni che provengono da fuori scena (risate e stupori) come se tutto sia già avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Ogni nuovo particolare in aggiunta alla trama non spiega anzi complica la vicenda, rendendola oscura, misteriosa, fumosa in un processo che ricorda How did I die di Davy Pieters. Vi è come l’impossibilità della rappresentazione di un evento, l’inattuabilità del dramma. Non si può raffigurare ciò che è avvenuto, nemmeno spiegare, si può solo far conoscere il meccanismo, gli ingranaggi del rappresentare e nel far ciò constatarne la fallibilità. Molto rigorosa la recitazione, precisa e controllata anche quando le detonazioni della tensione si fanno potenti. Si percepisce come un distacco epico benché calato in un processo di immedesimazione, quasi una deflagrazione dei due tra i principali sistemi che hanno attraversato il Novecento.
Il colloquio di Collettivo lunAzione racconta delle procedure di ammissione ai colloqui in carcere da parte delle mogli dei detenuti. Tre uomini vestiti da donna sono in fila davanti a un’immaginaria porta di una prigione. Le protagoniste sono anch’esse recluse perché ne subiscono la vita, la degenerazione, la solitudine, la violenza, Il maschile inficia dunque l’esistenza femminile con le sue dinamiche. Le donne in attesa si scontrano, si uniscono, confrontano e compatiscono il vicendevole dolore, l’abbandono, la difficoltà di campare in questo legame inscindibile con il luogo di detenzione. Un’ottima interpretazione capace di legare la tradizione del teatro napoletano proiettandola verso un futuro possibile, non solo nel rinnovarne i soggetti, ma innestandovi influenze cinematografiche (si pensi a Ciprì e Maresco per esempio) con ricerche teatrali contemporanee (Emma Dante, vincitrice anch’essa del Premio Scenario e già maestra riconosciuta, ma non solo).
Tra i lavori presentati benché non vincitori né menzionati vanno ricordati per l’interesse e la qualità:Fog del collettivo casertano ma di formazione napoletana, Mind the step che ritrae con una drammaturgia distaccata e straniante un party in diretta istagram degenerata in violenza carnale, un abuso a mala pena percepito sia da chi lo commette, come da chi lo subisce o osserva partecipando come utente tramite commenti social. Il linguaggio è crudo e freddo, raccontato con sereno e quasi noncurante distacco, come fosse una cosa normale di cui non preoccuparsi, modalità responsabile di incrementare non poco l’inquietudine dei fatti narrati. Un lavoro interessante in cui si interroga sull’uso e lo sfruttamento del sesso nei social e quanto questi modifichino le nostre percezioni e il rapporto con l’erotismo e la sessualità.
Sound sbagliato del gruppo La scimmia racconta di un gruppo di giovani cresciuti in strada, nei rioni o nei quartieri periferici e disagiati di Napoli, ragazzi i quali non trovano esperienza migliore per festeggiare il capodanno del 1999 scegliendo di compiendo una rapina. Quando dopo due anni di carcere minorile di Nisida si ritrovano la vita è andata avanti e l’innocenza legata alla giovinezza si è dissolta. Rimane la rabbia, il disagio, i sogni infranti e la voglia di fuggire da una realtà che è a sua volta carcere. La recitazione ruvida, violenta e rabbiosa, in dialetto stretto napoletano, una via di mezzo tra verso sciolto e rap di strada, nel racconto di vite che nascono violente loro malgrado e di una nuova generazione di ragazzi di vita. Come spiegato per Il colloquio anche in questo caso si riscontra un incontro fecondo tra tradizione e innovazione del teatro popolare napoletano.
Anticorpi di Bolognaprocess è una ricerca minuziosa presentata come documentario sull’influsso delle nuove destre sui giovani. I tre attori, rispettivamente di nazionalità greca, italiana e francese, raccontano come il pensiero dell’estremismo fascista e nazionalista di destra riesca a infiltrarsi, ad affascinare, ad attrarre gli adolescenti creando falsi miti, distorcendo la storia, utilizzando le strategie di marketing legate al fashion oppure i nuovi linguaggi giovanili come l’inno hip hop con un testo di Marine Le Pen. Un teatro politico come un’indagine socio-antropologica capace di mischiare sapientemente l’esperienza personale con il documento e il dato generale.
Sammarzano de I nuovi scalzi racconta di Dino, il tipico “scemo del villaggio”, figlio di un caporale addetto a reclutare gli immigrati nella raccolta dei pomodori in un anonimo paese del Sud. Dino per poter recuperare il rapporto con il padre vorrebbe anche lui diventare immigrato per andare nella campagna, farsi schiavo tra gli schiavi. Tramite un teatro fisico fatto di immagini paradossali, iperboliche e grottesche narrano una situazione tragica e invisibile frutto di sfruttamento ed emarginazione.
Per concludere alcune considerazioni sulle due menzioni speciali: Mezzo chilo di Serena Guardone e Bob Rapsody di Carolina Cametti, segnalazioni che francamente lasciano esterrefatti in quanto sono tra i lavori più deboli tra quelli giunti in finale. Oltre a presentare notevoli carenze tecniche e interpretative risultano tra i progetti più incentrati sul sé come misura unica del mondo. Nel caso di Serena Guardone vi è addirittura una certo compiacimento pornografico nell’ostentazione della propria esperienza di malattia che non riesce mai a trasformarsi in esperienza comune, condivisa con il pubblico, elemento in grado di essere vissuto e metabolizzato insieme ma di cui si può solo aver pietà e compassione. Questa incapacità di universalizzare il proprio racconto personale diventa niente più di uno sfogo imbarazzante, quella che Deleuze avrebbe chiamato “clinica”. Su Bob Rapsody invece si potrebbe dire che non basta mettere le parole in rima per far poesia. Inoltre nella brevità dei venti minuti si è a dir poco aggrediti da un testo verboso e confuso, recitato tutto d’un fiato, quasi senza pausa né cambi di ritmo, in perpetua apnea.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un teatro manchevole di un pensiero scenico globalmente inteso, completamente focalizzato solo sul plot. Per fare un ottimo teatro non basta una storia. C’è bisogno di un lavoro d’attore, di una regia, di una sapienza tecnica assente in entrambi i casi e dove è inoltre difficilmente immaginabile un’evoluzione oltre il tempo di presentazione assegnato.
Nel complesso questa edizione del Premio Scenario ha presentato un panorama vivo, aperto alla sperimentazione e preoccupato di gettare uno sguardo sul mondo, una volontà di intervenire su quanto accade, di proporre degli scenari possibili, di riflettere e confrontarsi con il pubblico. I premi e le menzioni in sé poco importano, ciò che veramente conta è il confronto e l’incontro, la volontà di mettersi in gioco, di ricercare la propria strada. È questo l’augurio principale che si possa fare a questa nuova generazione emergente.
Visto al Premio Scenario Bologna 3-5 luglio 2019
Ph: @Malì erotico