Per la trentacinquesima intervista andiamo a Salerno per incontrare Vincenzo Albano, direttore artistico di Mutaverso Teatro, finalista lo scorso anno al Premio Rete Critica nella categoria progettualità/organizzazione.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La peculiarità della creazione scenica sta nel dare una forma definita e tangibile a un “abbandono romantico”, dell’uomo nei confronti del mondo, che esiste prima di ogni verifica di rappresentabilità e allo stesso tempo di ogni rappresentazione. Necessita però di diventare “comunicazione”, cioè di renderci a nostra volta osservatori privilegiati di qualcosa che spesso ci appartiene, pur se offerti nell’altrove di un palcoscenico o di una pagina bianca. Diversamente, almeno per quel che penso, l’autonomia artistica diventerebbe solo autoreferenzialità creativa. Va ricreata un’abitudine al teatro a partire da chi lo fa e lo propone. In quest’ultimo caso, e parlo come direttore artistico di Mutaverso Teatro, facendo scelte attente e consapevoli.
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Il denaro pubblico si spreca, senza contarne l’uso privatistico di quanti al contrario sarebbero chiamati ad agire nell’interesse collettivo, ad ascoltare le istanze di chi rende realmente vivi i territori. Se mi chiedi cosa è possibile fare per migliorare la situazione esistente io partirei intanto col sottrarre del denaro da un po’ di casse, favorendo azioni piccole, periferiche, e demolendo carrozzoni ed eventifici. Risposta di pancia, ma aderente agli umori di questo momento.
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Parlerei degli spettacoli che non girano perché manca la volontà di farli girare, perché una volta andati in scena sono già morti, perché vengono proposti a cifre irragionevoli; parlerei di spettacoli che potrebbero girare la penisola ed essere accolti da una moltitudine di sale medio piccole, in grado di formulare proposte virtuose eppure non considerate congrue. Tutto è sempre troppo poco, molto ti è reso inaccessibile, a molto altro ancora non puoi manco pensarci, ma altrove sai che è a incasso. Condivido con alcuni colleghi la spiacevole sensazione di un mercato che sembra diventi “rionale”. Se mi chiedi quali soluzioni adottare non saprei, ma ipotizzare intanto una maggiore trasparenza sui cachet è sbagliato? Applicare su di essi un maggiore controllo? Lo chiedo, perché avanzare proposte è qualche volta estenuante e deprimente. La mia è una riflessione, magari insensata, certo non una risposta, anche perché l’argomento è complesso tanto per gli artisti quanto per gli operatori. A prescindere, resto sempre dell’avviso che distribuire uno spettacolo non debba essere una caccia alla replica. Personalmente, da operatore, rifuggo questo tipo di solleciti o invadenze.
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Con i mezzi della contemporaneità il teatro può avere sì una relazione, a volte anche artistica e drammaturgica, esperienziale, ma credo solo come cassa di risonanza di un messaggio specifico e della sua antica e immutata liturgia. Proprio perché anacronistica, la funzione del teatro, come tempo dell’ascolto e dello sguardo, oggi più che mai ha una sua portata rivoluzionaria.
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Penso ad un rapporto prismatico, attraverso cui è possibile guardare la vita quotidiana e normale da una prospettiva multiforme, reale o irreale che sia. Il tempo di questo sguardo è un avventuroso e immaginifico viaggio in uno spazio dell’anima ancora incontaminato, dove il realistico e il fantastico, l’ordinario e lo straordinario, il concreto e il visionario, restituiscono possibilità inesplorate e inattese, o forse non ancora nate, tanto all’artista che ne avverte la necessità, quanto allo spettatore che poi concede fede al suo racconto. Penso a un senso della realtà mai disgiunto dalla saggezza del sogno, anche al limite della rappresentabilità scenica. Non parlerei in primis di strumenti, piuttosto di una propensione emotiva alla meraviglia, tanto dell’artista, quanto, appunto, dello spettatore.