Il 17 e 18 novembre al Cubo Teatro nell’ambito della rassegna Fertili Terreni è andato in scena (a+b)3 di Muta Imago produzione del 2007 con Claudia Sorace e Riccardo Fazi, fondatori del gruppo romano.
(a+b)3 è il cubo di un binomio, due elementi elevati alla terza potenza. In scena una coppia è racchiusa in un cubo di legno e stoffa. Vediamo i loro corpi, le loro ombre, le immagini riflesse. Una scatola che diventa wunderkammer, una stanza delle meraviglie, quasi attrazione di antica fiera, lanterna magica o primo cinema.
Una coppia la cui vita muta allo scoppio di una guerra. Lui parte, lei resta. Non tornerà più mai. Una lettera lo attesta in linguaggio burocratico. Non resta che l’immagine sfocata di un ricordo, un cammeo ritagliato da un’ambra su un muro. Lei resta e cerca di trattenere un fantasma che sfugge, un ricordo che si fa più labile ogni secondo di più.
Muta Imago dichiarano di confrontarsi con il mito di Orfeo e Euridice in quel discendere nel regno dei morti che la guerra porta con sé, nell’impossibile ricongiungimento di chi muore e chi sopravvive. La presenza/assenza di ciò che non è più, di un vuoto colmato dai simulacri, larve svuotate di ciò che era carne e sangue.
Un’altra suggestione viene evocata dall’azione. Il racconto di Plinio il Vecchio che racconta dell’origine della pittura quando una giovane donna, alla partenza dell’amato ne dipinge la figura sul muro ricavata dai confini dell’ombra.
Il binomio di una coppia elevato al cubo dunque, due immagini che si moltiplicano, si richiamano, rimandano una all’altra, si riflettono facendone scaturire nuove combinazioni impreviste. Tutto avviene semplicemente, con poche semplici azioni, figurine di carta proiettate su uno schermo, parvenze di corpi tremuli si disegnano sui teli e svaniscono come fumo nell’aria. Poche parole poetiche si innervano sull’azione, che è più performativa che rappresentativa, insieme a una fitta e calcolata partitura sonora.
Durante la visione di (a+b)3 di Muta Imago bussava prepotente alla memoria il ricordo del mito della caverna di Platone. L’occhio dell’osservatore puntato sulle pareti a rimirar il gioco di ombre di una realtà che sta alle spalle e altrove. Il pubblico riunito si trovava a fissare un ennesimo schermo, un altro filtro che non misura ma distorce. La condanna della nostra civiltà che guarda il mondo mai con occhi limpidi ma sempre attraverso un media e il velo non è mai troppo sottile né “il trapassar dentro leggiero”. L’azione non è mai se stessa ma rimanda sempre a qualcos’altro, una sorta di cornucopia di generazioni equivoche, che sfuggono al controllo e creano una realtà alternativa. Una proliferazione quasi cancerosa di significati che rimandano ad altri significati. Il performativo che ridiventa rappresentativo, ingabbiato nel simbolo e nella citazione, in quel cubo che si fa prigione.
In (a+b)3 di Muta Imago non si sfugge mai all’imperio dell’immagine. Per quanti schermi vengano strappati via, ne risulta sempre un altro a frapporsi e per quanto si cerchi di afferrare, qualcosa sempre sfugge e la platea si trova a condividere la condizione di quelle figurine proiettate sulla scena.