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Biennale Danza 2024: la danza del pensiero

|ENRICO PASTORE

We Humans. Noi Umani. Questo titolo della Biennale Danza, la quarta per la direzione di Wayne McGregor, fresco di rinomina per un altro biennio. Un’affermazione che nasconde una domanda sulla nostra identità di umani del Ventunesimo Secolo. Guerre, movimenti migratori, crisi economiche ed emergenze climatiche, malattie che si diffondono sempre più velocemente, questo il panorama di un Occidente neoliberista già salutato in declino all’inizio del Novecento, ma lento a dissolversi e con esso il pensiero coloniale e patriarcale che lo contraddistingue., Nei romanzi di fantascienza di William Gibson questa cinquina di concause genera il grande Jackpot, dai cui sconquassi sorgerà una società che cerca soluzioni provando a manipolare il passato per migliorare il proprio presente. Curiosamente anche Shiro Takatani in Tangent si ispira al film di Johann Johannsson Last and First Men (2020) in cui l’umanità lontana due miliardi di anni manda un messaggio indietro nel tempo per informarci della nostra prossima estinzione. Un futuro che interroga e dialoga con il passato. Non è sempre stato così? L’arte e il pensiero artistico non hanno sondato la tradizione, ispirandosi, fraintendendola, facendola a pezzi, per trovare soluzioni al presente?

We Humans. Umani alla ricerca della propria identità, desiderosi di creare un nuovo modo di abitare e di convivere. Il nemico dichiarato è il capitalismo neoliberista e il suo pensiero binario: noi o loro, con noi o contro di noi. Si immaginano piuttosto configurazioni accoglienti, non escludenti, in cui come in un caleidoscopio si formino nuove aggregazioni polivalenti e policentriche. All’Occidente, sempre più al tramonto, quell’Occidente dallo spirito coloniale e predone, si oppongono le tradizioni dimenticate o, meglio, rimosse, alla ricerca di radici altre, di un pensiero non antropocentrico, in cui trovare l’armonica convivenza di tutte le creature. Anche in questo caso viene in mente la fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov, e il pianeta Gaia dove tutti i suoi abitanti interconnessi hanno sviluppato un sentire condiviso di mutuo sostegno. Un pensiero molto presente anche nel lavoro del colombiano Rafeal Palacios e della sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: Dances for Manuel.

Questo movimento oppositivo al neoliberismo è animato da una militanza gentile, passiva, debole. Lo ricorda Claudia Rankine nel suo testo introduttivo al catalogo di questa Biennale Danza citando il movimento cinese TangPing (sdraiarsi a terra) e il quiet quitting americano. Se però quello cinese è una galassia di appartenenza che attrae al suo centro i singoli individui, il quiet quitting è un atteggiamento personale, non ufficiale, in cui gradualmente si rinuncia a ciò che sembra necessario ai più: possesso e consumo. Si fa marcia indietro, senza clamori, senza lotte apparenti, come delle gocce d’acqua che battono la pietra e col tempo saranno in grado di modellarla. Come afferma il Leone d’oro Cristina Caprioli: «la rivoluzione non basta più, né immaginarla né metterla in atto». Occorre cambiare la nostra lingua e il modo di ragionare. Caprioli vede nella danza un laboratorio in cui proporre e sondare “proposte alternative ai nostri modi di essere e di metterci in relazione”, una danza: «multipla per scelta, singolare nell’essenza, collettiva nella sua ricaduta». Shiro Takatami, da parte sua, ricorre invece a Kant e al suo invito a considerare l’uomo non un mezzo ma un fine.

We Humans. Umani in riconfigurazione. Una messa in discussione dei concetti tradizionali dell’Occidente, in cui l’umano non è più il centro e il fine della creazione, ma un elemento fra i tanti e il cui comportamento, sano o tossico, influisce su tutto l’intero bioma. E il principale elemento da riconsiderare e riformulare è il corpo. Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor in Humani corporis fabrica, video istallazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543, che per prima fondò l’idea di un corpo macchina, mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Immagini da sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello con paziente vigile, anziani con malattie degenerative della cognizioe in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio, immagini scioccanti, urticanti, che parlano di una fragilità in cui è insita la meraviglia, di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al proprio interno. Nell’osservare le rappresentazioni di questo corpo fragile eppur resistente non si può fare a meno di pensare alle parole di Cristina Caprioli: «nessun corpo, nessun linguaggio sarà mai in tuo possesso, dovrai piuttosto prendertene cura e lasciarlo andare».

Il corpo oggi non è qualcosa di esclusiva appartenenza al regno di natura. L’eterea inconsistenza della virtualità, gli ibridi umano-macchina, ci parlano di una problematica e non innocente fusione tra l’essere di carbonio e quello di silicio. Nicole Seiler e il suo Human in the loop, indaga i possibili punti di fusione tra umano e IA ispirata dal pensiero di Donna Haraway, filosofa americana madre della teoria Cyborg, Secondo la Haraway l’ibridazione tra umano e macchina permette il superamento dei dualismi tradizionali, verso degli esseri con identità fluide e mutevoli, non sessuate, con identità: «permanentemente parziali e punti di vista contraddittori». Seiler in Human in the loop esplora le possibilità di questa fusione e i possibili rapporti di potere tra silicio e carbonio facendo eseguire e interpretare all’improvviso a una coppia di danzatori nel vivo della scena le istruzioni provenienti da una IA. Quali i margini di libertà dell’umano rispetto agli ordini impartiti da una macchina? A chi è dovuta l’autoralità dell’opera? È proprio necessario un autore/autrice? Domande di una certa complessità che, va detto, riecheggiano l’opera di Cage in cui le stesse questioni venivano indagate attraverso l’uso di operazioni casuali.

We Humans. Una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, postcoloniale, femminista e, nuovamente, anticapitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Queste sembrano le questioni più scottanti che inquietano il mondo dell’arte visiva come la danza. In questo articolo non abbiamo parlato molto di danza. Ci siamo soffermati sul pensiero che spinge la danza, che la infirma e la genera. Il danzare dello spirito è forse meno coreografico di quello del corpo? Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia». Forse bisogna spingerci oltre, nel mondo delle idee, dove i concetti vorticano furiosi e liberi di intrecciarsi in un ballo primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.

Nicole Seiler HUMAN IN THE LOOP

Durata: 70′

Ideazione: Nicole Seiler

Performance, collaborazione artistica: Clara Delorme, Gabrile Obergfell

Coproduzione: Cie Nicole Seiler, Arsenic, Centre d’art scénique contemporaine Lausanne.

Cristina Caprioli FLAT HAZE

durata: 60′

Coreografia: Cristina Caprioli

Produzione: ccap 2019-2022

Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor DE HUMANI CORPORIS FABRICA

Durata 115′

Cinematografia, Suono, Montaggio: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor

Produzione: Norte Production, CG Cinema, Rita Production, S.E.L.

Biennale Danza 2022

Biennale Danza 2022: superare i confini e le barriere

Apparentemente sembra evidente il percorso dell’arte verso un affrancamento dalla centralità dell’umano enunciato dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Da qualche decennio si cerca l’ibridazione, la fluidità, gli accoppiamenti tra specie e stati diversi alla ricerca di quelle che Bruno Schulz nella sua splendida Bottega color cannella chiamava generazioni equivoche, e di quel corpo senza organi cui Artaud, seguito da Deleuze, anelava, perché privo di gendarmeria e gerarchia.

Potremmo chiamarle nuove metamorfosi laddove, come in Ovidio, l’umano, il divino, l’animale e il minerale si trasmutano uno nell’altro, alla ricerca di una nuova figurazione dell’umano non più umano. Il processo appare evidentissimo alla Biennale Arte, dal titolo Il latte dei sogni, dal libro imaginifico dell’artista surrealista Leonora Carrington, dove i mostriciattoli spaventosi disegnati sul muro diventano libro di fiabe per bimbi.

Nel passeggiare tra le opere dei Giardini e dell’Arsenale si scopre con meraviglia un fiorire di creature sempre in between: maschere, pupazzi, ombre, concrezioni cornee, fusioni, germinazioni, automi e robot, animali fantastici, deità mostruose. Non c’è sesso né genere, è un trasmutare e un trasumanar che “significar per verba/ non si poria; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba”.

Anche la Biennale Danza, per il secondo anno sotto la guida di Wayne McGregor, si pone su questo sentiero fin dal titolo: Boundary-less, senza confini. Certo la danza, ancor più del teatro, fatica a superare la carnalità, perché di essa si nutre e nel corpo vivo del danzatore si incarna. E questo nonostante i ripetuti esperimenti di smaterializzazione tentati fin dagli anni ’70 del secolo scorso (pensiamo agli esperimenti di motion capture compiuti da Merce Cunningham, per fare un esempio fra tanti).

Il corpo in movimento resta fascinoso nonostante puzzi di umano lontano un chilometro. Esempio lampante il Leone d’argento Rocío Molina: nell’aspirazione al cielo, la carne si sporca di desiderio, di terra e di sesso, persino di una certa dose di perversione peccaminosa. La Carnación, la scarnificazione, non avviene. Anzi il tentativo dimostra ancor più la pesantezza della carne, nel tentare di scappare delle regole della gravità. L’elevarsi delle mani, i battere frenetico e sincopato dei piedi, l’arrampicarsi una sull’altro e viceversa, esaltano il terreno e l’umano più che il suo fuggir da esso. Inoltre l’abnorme durata, quasi di crescita cancerosa, vanifica le immagini più significative, proprio in una non necessaria reiterazione.

1- The Seven Sins – Pride di Marcos Morau con Gauthier Dance _ © Jeanette Bak

Tentativo diverso seppur altrettanto ambizioso The seven sins, il progetto di Eric Gauthier e della Gauthier Dance/Dance Company Theaterhaus Stuttgard affidato a sette coreografi (Sidi Labi Cherkaoui, Shron Eyal, Aszure Barton, Marcos Morau, Sasha Waltz, Marco Goecke, Hofesh Schechter) incaricati di ritrarre e interpretare i sette peccati capitali non più mortali, ma pur sempre peccati.

Eric Gauthier ci invita a non vedere i singoli pezzi come separati ma parti di un surrealistico (o forse iperrealista) cadavre exquis. Nella gola, nell’avidità e perfino nell’orgoglio è il corpo/massa o il corpo/sesso a prendersi la scena. Nessuna smaterializzazione o evanescenza o spiritualizzazione. Il corpo nella sua magnificenza, persin nel vizio più nero, nella rabbia o nell’accidia, si manifesta nella sua straordinaria capacità di crear grazia e pensiero attraverso la sua materialità e matericità. È questa la sfida: dentro i confini del corpo far vedere oltre la frontiera.

La mostra fotografica di Indigo Lewin sposta ancora l’asticella verso la presenza fisica, pesante e sudaticcia del corpo danzante. Le foto si dedicano all’immagine prosaica della danza, quella fatta di fatica, duro allenamento, sudore, lacrime, calzini sporchi.

Di tutt’altro tenore le opere di Blanca e Tobias Gremmler. La coreografa spagnola ci invita in un viaggio virtuale nel fantastico di un mondo immaginario in cui dieci persone partecipano a Le bal de Paris. I corpi/avatar vestiti da Maison Chanel navigano su fiumi, prendono treni e ascensori, viaggiano in stanze con prospettive ingannevoli e impossibili, camminano in labirinti pronti a rivelare a ogni svolta veri e propri giardini delle delizie. La storia d’amore è solo pretesto per il viaggio, divertente e disorientante perché decisamente immersivo. La lotta è tutta interiore tra il proprio corpo senziente ancorato alla realtà e l’occhio/mente pronto a credere all’illusione.

Le bal de Paris di Blanca Li Ph:@Blanca Li

Tobias Gremmler, noto al grande pubblico per le sue collaborazioni con Björk e gli Einstürzende Neubauten, ci offre una installazione di luce in cui si disegnano e appaiono esili fantasmi, ectoplasmi filiformi e danzanti, filamenti della consistenza di fumo di sigaretta capaci di rivelare nella luce una vita inattesa, equivoca, inquietante, ibrida. La danza è sublimata, è movimento nello spazio di creature aliene evocate da un’altra dimensione.

Da ultimo due piccole perle da osservarsi qualora si capiti ai Giardini nel Padiglione Italia. Due video rari, uno del 1923 e il secondo del 1925 in cui appaioni frammenti di danza di Mary Wigman e di Josephine Baker. Il primo quasi inquietante per la sua forza dirompente, quel battere i piedi e far da controcanto alla percussione, quel viso intenso, concentrato, quasi spiritato della Wigman; dall’altro un giocoso e spensierato giocare col corpo e con la nudità in un epoca in cui questo veramente faceva scandalo e non era cliché. Un ritornare per un momento agli albori della danza contemporanea, un’alba per lo più costituita da donne coraggiose (Loie Fuller, Chloé de Merode, Hanako, Sada Yacco giusto per fare qualche esempio) che mettevano in gioco il proprio corpo e la propria reputazione nell’inventare un nuovo modo di danzare

Una Biennale Danza alla ricerca di un oltrepassare i confini di se stessa e del genere. Non importa il successo o meno dell’impresa, conta il porre l’accento e la riflessione sul tentativo di superare un’umanità fallimentare e distruttiva. Si ricerca un oltreumano capace di emendare il peccato vanaglorioso di sentirsi padrone unico del pianeta e tale ricerca, non solo artistica ma politica più di ogni altra, si sostituisce alle mancanze dei governi attanagliati da populismi di sapore medievale, per indicare alla società, quella in cui un uomo può essere ucciso in mezzo alla strada mentre tutti filmano senza far nulla, che un altro mondo è possibile al di là dei colori, dei sessi, dei corpi. Forse l’arte tutta e non solo la danza o il teatro, hanno finalmente trovato una funzione credibile e attuabile.