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Biennale Danza 2025: miti del futuro, abissi della storia

ENRICO PASTORE|

Mith Makers. Creatori di miti. Questo il titolo della Biennale Danza 2025 sempre diretta da Wayne McGregor. Una prima domanda sorge spontanea, una questione che aleggia senza risposta già dal Novecento: è possibile una mitologia nella modernità? Il Novecento non ha visto molti autori capaci di creare un mondo e delle figure immaginari capaci di rappresentare le inquietudini del proprio tempo. Kafka sicuramente, e poi Tolkien, Lovecraft, Philip K. Dick, William Gibson. E tutti questi autori hanno usato il fantastico e la fantascienza per raccontare storie capaci di estrapolare l’essenza del convulso secolo passato. Ma oggi? Per comprendere il reale bisogna ancora stringere alleanza con l’immaginazione e la fantasia? Per decifrare il mondo, dobbiamo inventarne di alternativi? Per affrontare questo tema è necessario partire dall’ultimo spettacolo a cui abbiamo assistito, perché ben rappresenta la possibilità di una moderna mitopoiesi.

A good man is hard to find di BULLYACHE,il duo artistico formato Courtney Deyn & Jacob Samuel, crea sulla scena una mitologia concreta, reale, tristemente presente sui nuovi dei del turbocapitalismo. L’opera prende spunto dal Bohemian Grove, club esclusivo di potenti di tutto il mondo, che dalla fine dell’Ottocento si riuniscono nei boschi dell’Alta California per celebrare la Cremation of Care, rito neopagano che allude al sacrificio di un druido a un grande gufo di cemento alto dodici metri. Come nella serie American gods le sadiche, immature e fallibili divinità dell’economia di mercato si scatenano contro i vecchi dei. Tutto questo dovrebbe cancellare nei potenti i sensi di colpa per gli effetti delle dure decisioni prese sulle spalle delle popolazioni.

A sentir raccontare di Bohemian Grove si rimane sconcertati e dapprima si pensa all’ennesima teoria del complotto, alle risibili storie alla Dan Brown sugli Illuminati e simili, ma dopo qualche ricerca ecco apparire i documenti e i nomi dei partecipanti a questa confraternita super-esclusiva da Reagan a Nixon, da Clinton a Tony Blair a formare una congrega perfettamente bipartisan. Uno sfilare di potenti in questo camping, da cui ovviamente sono escluse le donne, e in cui, oltre a ritualità di dubbio gusto, vengono decisi gli umani destini.

BULLYACHE partendo da ricerche e riflessioni sulla crisi economica del 2008, ricrea sulla scena il relitto di una sala riunioni di una grande società finanziaria i cui membri del consiglio di amministrazione si torturano con atti di bullismo e umiliazioni degne del marchese De Sade. Vittima privilegiata è l’uomo delle pulizie costretto a cantare l’Ave Maria di Schubert mentre viene schiaffeggiato e umiliato con un microfono. Le vittime spesso però si rivelano complici degli aguzzini. È infatti proprio l’addetto alle pulizie a dare il via a una sorta di concorso di bellezza in cui i manager vengono battuti all’asta per il pubblico che partecipa festante alla vendita dei corpi. Il prescelto è colui che verrà sacrificato.

Sulle note della Sinfonia da camera op. 110 di Shostakovich, dedicata nella sua forma primitiva per quartetto d’archi “alle vittime della guerra e del fascismo”, si svolge l’intensissima, brutale, appassionante danza che porta al sacrificio del capro espiatorio, anticipato da una preparazione alla Dexter dell’uomo delle pulizie che appresta teli di plastica per non lasciare traccia dell’evento.

La forza di quest’opera danzata risiede nella sua capacità di rappresentare la disumanità e bestialità dei nuovi dei, di darci un’immagine vivida e concreta delle sociopatiche e umanissime divinità che governano i nostri destini. Un’opera d’arte di grande impatto con un impressionante cast di danzatori capace di coniugare la ricerca con il pop o, per usare le loro parole, immaginare:”Pina Baush che fa cosplay di Dua Lipa”. Oggi in Italia a causa degli improvvidi e ingiustificati tagli alla cultura gli artisti e gli operatori non intravedono niente all’orizzonte che non si situi nella manichea divisione tra ricerca da una parte e bruta commercialità dall’altra. BULLYACHE dimostra che è possibile fare ricerca pur nel pop perché l’opera si situa nel grande regno tra “il significato e il nulla”, in uno spazio in cui tutto è dunque possibile.

La coreografa franco-canadese Virginie Brunelle ha portato a Venezia Fables, opera che racconta un mito diverso, più vicino al mondo della danza perché ne costituisce le fondamenta nella modernità: la comunità artistica sorta nei primi anni del Novecento sulle sponde del Lago Maggiore a Monte Verità sopra Ascona in Svizzera. Tra bagni di sole, nudismo e vegetarianesimo (non escludendo tossicodipendenza e qualche suicidio) artisti, psicologi, intellettuali tedeschi in fuga dall’orrore della guerra mondiale diedero vita a una comunità eterogenea in cui si trovarono i dadaisti ma anche Rudolf von Laban, Mary Wigman, Suzanne Perottet e molte altre protagoniste della nuova danza. Questa comunità utopica formata da intellettuali spinti dal desiderio di cambiare un mondo negli anni bui della guerra mondiale, diedero vita a strani rituali all’alba nei boschi che guardavano il lago. La nuova danza nascente salutava il sole che si specchiava nelle acque al tramonto, di notte si scatenava illuminata dalle torce e dai falò, prima di accogliere nuovamente la luce del mattino. I valligiani scuotevano la testa e sorridevano di questi strani satiri e ninfe dei boschi chiamandoli balabiöt, i ballanudi, parola che tutt’ora resiste nel dialetto di tutto il Lago Maggiore.

Brunelle si concentra sulle utopie sociali e femministe di quell’esperienza senza tralasciare le ombre che pur funestarono la comunità. Fables si produce per quadri distinti. Nel primo quadro la lotta è fisica, i corpi si scontrano, si malmenano, le danzatrici si fronteggiano come novelle amazzoni col seno scoperto. Un altro quadro è dedicato alla donna-madre. Una danzatrice viene vestita con un abito da sposa la cui gonna amplissima fagocita dentro di sé tutti i danzatori che vengono in seguito espulsi e partoriti da questo mostro tentacolare il cui volto è segnato dal dolore. Come la regina di Aliens i figli di questa piovra in velo e tulle sono pronti a conquistare il mondo. Ma questi corpi sono ibridi, né maschi né femmine, novelli Frankenstein costruiti con i pezzi di entrambi. E poi una donna ragno di pelle vestita, i cui fili della ragnatela terminano nelle mani degli altri danzatori. Questa donna dall’immagine forte è ragno o marionetta? È libera di esprimersi o il suo campo d’azione è determinato dalla società? E infine il luccichio dell’utopia, le paillette del mondo nuovo che appare e promette felicità e prosperità. Manterrà le sue promesse?

E ora la Biennale College. I fratelli Anthony e Kel Matsena, gallesi di origine africana, costruiscono con i ragazzi The remaining silence, uno studio su un museo dell’estinzione. Dietro le vetrine di un acquario, o di una teca entro cui riporre le spoglie impagliate di strani animali del passato, i danzatori si muovono nel fluo creato da luci e fumi. Il pubblico assiste alle evoluzioni di questa mandria eccentrica distante ormai nel tempo e appartenente a una civiltà scomparsa. Ancora una volta la mitologia del presente si costruisce su un passato più o meno lontano.

Sacha Walz sceglie invece un mito estatico, astratto, geometrico e minimale, fondato su differenza e ripetizione, in cui far emergere ciò che è sepolto dalla razionalità. Sacha Waltz sceglie di costruire la sua coreografia su l’iconica opera minimalista In C del compositore americano Terry Riley del 1964, e chiede ai danzatori e a noi del pubblico di abbandonarsi al disorientamento prodotto dal susseguirsi e intrecciarsi delle semplici frasi (53 per essere esatti) ripetute dagli strumenti, L’ordine è rigorosamente successivo, ma la durata è a discrezione di ogni strumentista. L’esecutore inoltre può scegliere se saltare uno o più numeri sempre rispettando l’ordine consecutivo prestabilito in partitura. Il pianoforte (o le percussioni) ripetono ossessivamente la nota do (C nella notazione anglosassone) con la funzione di metronomo. Il pezzo orchestrale di Riley unisce dunque l’aleatorietà ereditata da Cage con una scrittura capace di costruire una complessa tessitura musicale e ritmica a partire da elementi cellulari semplici. Ripetizione e variazione vanno a braccetto e la durata del pezzo è variabile. La coreografia di Sacha Waltz dialoga con la composizione replicandone l’ossatura e amplificandone la complessità. Le frasi coreografiche si intrecciano con quelle musicali, la ritmica del corpo risuona in quella strumentale. Un grande schermo sullo sfondo diventa tela per il gioco di luci in cui i colori dello spettro si rincorrono producendo l’effetto immersivo e ipnotico delle grandi tele di Rothko. Più che un mito assistiamo a un rito della perdita del sé. Non vi è alcuna espressione del sé, non vi è nulla da dire. Si produce solo l’azione dei corpi e dei suoni che trascinano l’osservatore in un mondo in cui l’estrema complessità è generata da una semplicità disarmante.

Da ultimo On the other earth, futuristica istallazione coreografica di Wayne McGregor creata in collaborazione con Jeffrey Shaw, star della new media art, e l‘Hong Kong Ballet. Venti persone entrano in una stanza cilindrica all’interno della quale viene proiettata sul primo schermo cinematografico LED stereoscopico a 360 gradi al mondo la coreografia, variazione o derivazione, di DEEPSTARIA ultima creazione di Wayne McGregor. On the other earth è un viaggio nel futuro della percezione. Lo spettatore, grazie agli occhiali 3D, si trova immerso all’interno della coreografia, può quasi interagire con i danzatori, può cambiare punto di vista, osservare da diverse distanze il movimento dei corpi. Il momento più emozionante è stato il venir catapultati in un secondo su uno dei grattaceli di Honk Kong e vedere dispiegarsi intorno a sé lo skyline della città percependo il vento tra i capelli dei danzatori o nelle manichette. Il reale è virtuale e, nello stesso tempo, la virtualità diventa la nuova realtà. Vitale e inorganico si mescolano indissolubilmente permettendo un ampliamento delle possibilità percettive senza precedenti. Certo oggi esperienze di questo genere sono ancora parte del mondo del fantastico e del meraviglioso, il mito è quello delle wunderkammer, dei gabinetti delle curiosità, ma nel prossimo futuro, le frontiere della sperimentazione artistica multimediale potranno usufruire di grandi prospettive soprattutto se si abbasseranno i costi.

A seguito di questa panoramica sui cinque spettacoli visionati durante questa Biennale Danza 2025 possiamo trarre qualche conclusione. Per farlo vorremmo spendere qualche parola sulla Biennale Architettura intitolata Intelligens. Natural. Artificial. Collective. La nuova urbanistica propone soluzioni concrete e possibili per creare un mondo più sostenibile, attento allo sfruttamento delle risorse e delle energie, addirittura proiettato alla colonizzazione di nuovi pianeti. Si attraversano le Corderie dell’Arsenale partendo dalla cupezza del presente. Una stanza nera piena di motori di condizionatori. Lo spazio è caldo e soffocante e lo sarà sempre di più perché il funzionamento ininterrotto farà aumentare sempre più la temperatura. E poi si varca la soglia verso il futuro, verso ciò che potrebbe essere possibile, verso il mondo che potremmo costruire se solo abbandonassimo sterili questioni territoriali, una lotta da bambini su ciò che è mio o tuo, e finalmente capissimo che siamo una sola specie in un piccolo mondo sperduto nelle galassie. Il futuro disegnato non è solo prossimo, è addirittura possibile.

Al contrario il mondo della scena danzata ci ha proposto per la gran parte miti generati dal passato. Anche quando è vicinissimo al nostro presente, la scintilla parte da ciò che è accaduto. Siamo in un territorio che per usare le parole di Mark Fischer si dispiega tra: «un non più e un non ancora». L’arte scenica sembra incapace di prefigurare un futuro, e stenta anche a comprendere il presente. E questo non solo alla Biennale Danza 2025.

In questi giorni la scena italiana, e soprattutto la danza e quelle tendenze che si occupano di ibridare i linguaggi, sono stati colpiti da tagli, soppressioni, ridimensionamenti. Nella crisi generata da queste improvvide e arbitrarie decisioni che nulla hanno a che fare con la resa artistica dei progetti, artisti e operatori non stanno reagendo producendo visioni nuove né proponendo futuri alternativi a fronte di un sistema che da decenni non funziona e non è premiante per chi si occupa di innovazione. Si chiede di rivedere le decisione, di riformare il Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (ex FUS), ma non c’è indicazione di un progetto alternativo di rapporto con la politica e il finanziamento pubblico. Oggi il mondo dello spettacolo sembra incapace di prefigurare un futuro e anzi sembra aggrappato alle consuetudini. Per quanto oggi la situazione sia grave, è più che mai necessario pensare a cambiare il mondo, non a conservarlo. Bisogna disegnare nuovi paesaggi, inventare nuove strade, scoprire nuove terre. Il mondo di oggi è afflitto da conflitti e dai nuovi nazionalismi capaci solo di innalzare muri e barriere. Al mondo della creazione spetta smentirli e per questo sono necessarie le visioni, anche utopiche e irrealizzabili, ma che facciano posto ai costruttori e non ai distruttori.

Biennale College Sacha Waltz – In C

Ideazione, coreografia e luci: Sacha Waltz

Coreografia sviluppata da e con i danzatori: Davide Di Pretoro, Edivaldo Ernesto, Melissa Figueiredo, Hwanhee Hwang, Annapaola Leso, Michal Mualem, Zaratiana Randrianantenaina, Aladino Rivera Blanca, Orlando Rodriguez, Joel Suárez Gómez

Produzione: La Biennale di Venezia

Biennale College Anthony & Kel Matsena – The Remaining Silence

Ideazione e regia: Anthony & Kel Matsena

Composizione: Beth Lewis

Produzione: La Biennale di Venezia

Virginie Brunelle – Fables

Coreografia: Virginie Brunelle

Performance: Nicholas Bellefleur, Sophie Breton, Alexandre Carlos, Sabrina Dupuis, Chi Long, Milan Panet-Gigon, Marie Eve Quilicot, Marine Rixhon, Peter Trosztmer, Lucie Vigneault

Produzione: LAC Lugano Arte e Cultura, Fonds national de création – Centre national des Arts (CNA), Danse Danse, Centre national des Arts d’Ottawa, Harbourfront Centre, Festival des Arts de Saint-Sauveur

BULLYACHE – A good man is hard to find

Coreografia, regia e direzione creativa: BULLYACHE (Courtney Deyn & Jacob Samuel)

Performance: BULLYACHE, Sam Dilkes, Oscar Jinghu Li, Connor Scott, Pierre Loup Morillon, Frank Yang

Produzione: Nancy May Roberts (Metal & Water)

Wayne McGregor – On the other earth

Regia e coreografia: Wayne McGregor

Ideazione e progettazione di estetica dell’interazione e tecnologie nVis: Jeffrey Shaw, Sarah Kenderdine

Progettazione e produzione cinematografica: Ravi Deepres, Theresa Baumgartner

Venezia 22 – 25 luglio 2025 | Arsenale di Venezia (Teatro alle Tese – Tese 3 – Teatro Piccolo Arsenale – Sala D’Armi E)

Biennale Danza 2024: la danza del pensiero

|ENRICO PASTORE

We Humans. Noi Umani. Questo titolo della Biennale Danza, la quarta per la direzione di Wayne McGregor, fresco di rinomina per un altro biennio. Un’affermazione che nasconde una domanda sulla nostra identità di umani del Ventunesimo Secolo. Guerre, movimenti migratori, crisi economiche ed emergenze climatiche, malattie che si diffondono sempre più velocemente, questo il panorama di un Occidente neoliberista già salutato in declino all’inizio del Novecento, ma lento a dissolversi e con esso il pensiero coloniale e patriarcale che lo contraddistingue., Nei romanzi di fantascienza di William Gibson questa cinquina di concause genera il grande Jackpot, dai cui sconquassi sorgerà una società che cerca soluzioni provando a manipolare il passato per migliorare il proprio presente. Curiosamente anche Shiro Takatani in Tangent si ispira al film di Johann Johannsson Last and First Men (2020) in cui l’umanità lontana due miliardi di anni manda un messaggio indietro nel tempo per informarci della nostra prossima estinzione. Un futuro che interroga e dialoga con il passato. Non è sempre stato così? L’arte e il pensiero artistico non hanno sondato la tradizione, ispirandosi, fraintendendola, facendola a pezzi, per trovare soluzioni al presente?

We Humans. Umani alla ricerca della propria identità, desiderosi di creare un nuovo modo di abitare e di convivere. Il nemico dichiarato è il capitalismo neoliberista e il suo pensiero binario: noi o loro, con noi o contro di noi. Si immaginano piuttosto configurazioni accoglienti, non escludenti, in cui come in un caleidoscopio si formino nuove aggregazioni polivalenti e policentriche. All’Occidente, sempre più al tramonto, quell’Occidente dallo spirito coloniale e predone, si oppongono le tradizioni dimenticate o, meglio, rimosse, alla ricerca di radici altre, di un pensiero non antropocentrico, in cui trovare l’armonica convivenza di tutte le creature. Anche in questo caso viene in mente la fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov, e il pianeta Gaia dove tutti i suoi abitanti interconnessi hanno sviluppato un sentire condiviso di mutuo sostegno. Un pensiero molto presente anche nel lavoro del colombiano Rafeal Palacios e della sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: Dances for Manuel.

Questo movimento oppositivo al neoliberismo è animato da una militanza gentile, passiva, debole. Lo ricorda Claudia Rankine nel suo testo introduttivo al catalogo di questa Biennale Danza citando il movimento cinese TangPing (sdraiarsi a terra) e il quiet quitting americano. Se però quello cinese è una galassia di appartenenza che attrae al suo centro i singoli individui, il quiet quitting è un atteggiamento personale, non ufficiale, in cui gradualmente si rinuncia a ciò che sembra necessario ai più: possesso e consumo. Si fa marcia indietro, senza clamori, senza lotte apparenti, come delle gocce d’acqua che battono la pietra e col tempo saranno in grado di modellarla. Come afferma il Leone d’oro Cristina Caprioli: «la rivoluzione non basta più, né immaginarla né metterla in atto». Occorre cambiare la nostra lingua e il modo di ragionare. Caprioli vede nella danza un laboratorio in cui proporre e sondare “proposte alternative ai nostri modi di essere e di metterci in relazione”, una danza: «multipla per scelta, singolare nell’essenza, collettiva nella sua ricaduta». Shiro Takatami, da parte sua, ricorre invece a Kant e al suo invito a considerare l’uomo non un mezzo ma un fine.

We Humans. Umani in riconfigurazione. Una messa in discussione dei concetti tradizionali dell’Occidente, in cui l’umano non è più il centro e il fine della creazione, ma un elemento fra i tanti e il cui comportamento, sano o tossico, influisce su tutto l’intero bioma. E il principale elemento da riconsiderare e riformulare è il corpo. Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor in Humani corporis fabrica, video istallazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543, che per prima fondò l’idea di un corpo macchina, mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Immagini da sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello con paziente vigile, anziani con malattie degenerative della cognizioe in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio, immagini scioccanti, urticanti, che parlano di una fragilità in cui è insita la meraviglia, di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al proprio interno. Nell’osservare le rappresentazioni di questo corpo fragile eppur resistente non si può fare a meno di pensare alle parole di Cristina Caprioli: «nessun corpo, nessun linguaggio sarà mai in tuo possesso, dovrai piuttosto prendertene cura e lasciarlo andare».

Il corpo oggi non è qualcosa di esclusiva appartenenza al regno di natura. L’eterea inconsistenza della virtualità, gli ibridi umano-macchina, ci parlano di una problematica e non innocente fusione tra l’essere di carbonio e quello di silicio. Nicole Seiler e il suo Human in the loop, indaga i possibili punti di fusione tra umano e IA ispirata dal pensiero di Donna Haraway, filosofa americana madre della teoria Cyborg, Secondo la Haraway l’ibridazione tra umano e macchina permette il superamento dei dualismi tradizionali, verso degli esseri con identità fluide e mutevoli, non sessuate, con identità: «permanentemente parziali e punti di vista contraddittori». Seiler in Human in the loop esplora le possibilità di questa fusione e i possibili rapporti di potere tra silicio e carbonio facendo eseguire e interpretare all’improvviso a una coppia di danzatori nel vivo della scena le istruzioni provenienti da una IA. Quali i margini di libertà dell’umano rispetto agli ordini impartiti da una macchina? A chi è dovuta l’autoralità dell’opera? È proprio necessario un autore/autrice? Domande di una certa complessità che, va detto, riecheggiano l’opera di Cage in cui le stesse questioni venivano indagate attraverso l’uso di operazioni casuali.

We Humans. Una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, postcoloniale, femminista e, nuovamente, anticapitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Queste sembrano le questioni più scottanti che inquietano il mondo dell’arte visiva come la danza. In questo articolo non abbiamo parlato molto di danza. Ci siamo soffermati sul pensiero che spinge la danza, che la infirma e la genera. Il danzare dello spirito è forse meno coreografico di quello del corpo? Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia». Forse bisogna spingerci oltre, nel mondo delle idee, dove i concetti vorticano furiosi e liberi di intrecciarsi in un ballo primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.

Nicole Seiler HUMAN IN THE LOOP

Durata: 70′

Ideazione: Nicole Seiler

Performance, collaborazione artistica: Clara Delorme, Gabrile Obergfell

Coproduzione: Cie Nicole Seiler, Arsenic, Centre d’art scénique contemporaine Lausanne.

Cristina Caprioli FLAT HAZE

durata: 60′

Coreografia: Cristina Caprioli

Produzione: ccap 2019-2022

Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor DE HUMANI CORPORIS FABRICA

Durata 115′

Cinematografia, Suono, Montaggio: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor

Produzione: Norte Production, CG Cinema, Rita Production, S.E.L.

Biennale Danza 2022

Biennale Danza 2022: superare i confini e le barriere

Apparentemente sembra evidente il percorso dell’arte verso un affrancamento dalla centralità dell’umano enunciato dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Da qualche decennio si cerca l’ibridazione, la fluidità, gli accoppiamenti tra specie e stati diversi alla ricerca di quelle che Bruno Schulz nella sua splendida Bottega color cannella chiamava generazioni equivoche, e di quel corpo senza organi cui Artaud, seguito da Deleuze, anelava, perché privo di gendarmeria e gerarchia.

Potremmo chiamarle nuove metamorfosi laddove, come in Ovidio, l’umano, il divino, l’animale e il minerale si trasmutano uno nell’altro, alla ricerca di una nuova figurazione dell’umano non più umano. Il processo appare evidentissimo alla Biennale Arte, dal titolo Il latte dei sogni, dal libro imaginifico dell’artista surrealista Leonora Carrington, dove i mostriciattoli spaventosi disegnati sul muro diventano libro di fiabe per bimbi.

Nel passeggiare tra le opere dei Giardini e dell’Arsenale si scopre con meraviglia un fiorire di creature sempre in between: maschere, pupazzi, ombre, concrezioni cornee, fusioni, germinazioni, automi e robot, animali fantastici, deità mostruose. Non c’è sesso né genere, è un trasmutare e un trasumanar che “significar per verba/ non si poria; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba”.

Anche la Biennale Danza, per il secondo anno sotto la guida di Wayne McGregor, si pone su questo sentiero fin dal titolo: Boundary-less, senza confini. Certo la danza, ancor più del teatro, fatica a superare la carnalità, perché di essa si nutre e nel corpo vivo del danzatore si incarna. E questo nonostante i ripetuti esperimenti di smaterializzazione tentati fin dagli anni ’70 del secolo scorso (pensiamo agli esperimenti di motion capture compiuti da Merce Cunningham, per fare un esempio fra tanti).

Il corpo in movimento resta fascinoso nonostante puzzi di umano lontano un chilometro. Esempio lampante il Leone d’argento Rocío Molina: nell’aspirazione al cielo, la carne si sporca di desiderio, di terra e di sesso, persino di una certa dose di perversione peccaminosa. La Carnación, la scarnificazione, non avviene. Anzi il tentativo dimostra ancor più la pesantezza della carne, nel tentare di scappare delle regole della gravità. L’elevarsi delle mani, i battere frenetico e sincopato dei piedi, l’arrampicarsi una sull’altro e viceversa, esaltano il terreno e l’umano più che il suo fuggir da esso. Inoltre l’abnorme durata, quasi di crescita cancerosa, vanifica le immagini più significative, proprio in una non necessaria reiterazione.

1- The Seven Sins – Pride di Marcos Morau con Gauthier Dance _ © Jeanette Bak

Tentativo diverso seppur altrettanto ambizioso The seven sins, il progetto di Eric Gauthier e della Gauthier Dance/Dance Company Theaterhaus Stuttgard affidato a sette coreografi (Sidi Labi Cherkaoui, Shron Eyal, Aszure Barton, Marcos Morau, Sasha Waltz, Marco Goecke, Hofesh Schechter) incaricati di ritrarre e interpretare i sette peccati capitali non più mortali, ma pur sempre peccati.

Eric Gauthier ci invita a non vedere i singoli pezzi come separati ma parti di un surrealistico (o forse iperrealista) cadavre exquis. Nella gola, nell’avidità e perfino nell’orgoglio è il corpo/massa o il corpo/sesso a prendersi la scena. Nessuna smaterializzazione o evanescenza o spiritualizzazione. Il corpo nella sua magnificenza, persin nel vizio più nero, nella rabbia o nell’accidia, si manifesta nella sua straordinaria capacità di crear grazia e pensiero attraverso la sua materialità e matericità. È questa la sfida: dentro i confini del corpo far vedere oltre la frontiera.

La mostra fotografica di Indigo Lewin sposta ancora l’asticella verso la presenza fisica, pesante e sudaticcia del corpo danzante. Le foto si dedicano all’immagine prosaica della danza, quella fatta di fatica, duro allenamento, sudore, lacrime, calzini sporchi.

Di tutt’altro tenore le opere di Blanca e Tobias Gremmler. La coreografa spagnola ci invita in un viaggio virtuale nel fantastico di un mondo immaginario in cui dieci persone partecipano a Le bal de Paris. I corpi/avatar vestiti da Maison Chanel navigano su fiumi, prendono treni e ascensori, viaggiano in stanze con prospettive ingannevoli e impossibili, camminano in labirinti pronti a rivelare a ogni svolta veri e propri giardini delle delizie. La storia d’amore è solo pretesto per il viaggio, divertente e disorientante perché decisamente immersivo. La lotta è tutta interiore tra il proprio corpo senziente ancorato alla realtà e l’occhio/mente pronto a credere all’illusione.

Le bal de Paris di Blanca Li Ph:@Blanca Li

Tobias Gremmler, noto al grande pubblico per le sue collaborazioni con Björk e gli Einstürzende Neubauten, ci offre una installazione di luce in cui si disegnano e appaiono esili fantasmi, ectoplasmi filiformi e danzanti, filamenti della consistenza di fumo di sigaretta capaci di rivelare nella luce una vita inattesa, equivoca, inquietante, ibrida. La danza è sublimata, è movimento nello spazio di creature aliene evocate da un’altra dimensione.

Da ultimo due piccole perle da osservarsi qualora si capiti ai Giardini nel Padiglione Italia. Due video rari, uno del 1923 e il secondo del 1925 in cui appaioni frammenti di danza di Mary Wigman e di Josephine Baker. Il primo quasi inquietante per la sua forza dirompente, quel battere i piedi e far da controcanto alla percussione, quel viso intenso, concentrato, quasi spiritato della Wigman; dall’altro un giocoso e spensierato giocare col corpo e con la nudità in un epoca in cui questo veramente faceva scandalo e non era cliché. Un ritornare per un momento agli albori della danza contemporanea, un’alba per lo più costituita da donne coraggiose (Loie Fuller, Chloé de Merode, Hanako, Sada Yacco giusto per fare qualche esempio) che mettevano in gioco il proprio corpo e la propria reputazione nell’inventare un nuovo modo di danzare

Una Biennale Danza alla ricerca di un oltrepassare i confini di se stessa e del genere. Non importa il successo o meno dell’impresa, conta il porre l’accento e la riflessione sul tentativo di superare un’umanità fallimentare e distruttiva. Si ricerca un oltreumano capace di emendare il peccato vanaglorioso di sentirsi padrone unico del pianeta e tale ricerca, non solo artistica ma politica più di ogni altra, si sostituisce alle mancanze dei governi attanagliati da populismi di sapore medievale, per indicare alla società, quella in cui un uomo può essere ucciso in mezzo alla strada mentre tutti filmano senza far nulla, che un altro mondo è possibile al di là dei colori, dei sessi, dei corpi. Forse l’arte tutta e non solo la danza o il teatro, hanno finalmente trovato una funzione credibile e attuabile.