|ENRICO PASTORE
We Humans. Noi Umani. Questo titolo della Biennale Danza, la quarta per la direzione di Wayne McGregor, fresco di rinomina per un altro biennio. Un’affermazione che nasconde una domanda sulla nostra identità di umani del Ventunesimo Secolo. Guerre, movimenti migratori, crisi economiche ed emergenze climatiche, malattie che si diffondono sempre più velocemente, questo il panorama di un Occidente neoliberista già salutato in declino all’inizio del Novecento, ma lento a dissolversi e con esso il pensiero coloniale e patriarcale che lo contraddistingue., Nei romanzi di fantascienza di William Gibson questa cinquina di concause genera il grande Jackpot, dai cui sconquassi sorgerà una società che cerca soluzioni provando a manipolare il passato per migliorare il proprio presente. Curiosamente anche Shiro Takatani in Tangent si ispira al film di Johann Johannsson Last and First Men (2020) in cui l’umanità lontana due miliardi di anni manda un messaggio indietro nel tempo per informarci della nostra prossima estinzione. Un futuro che interroga e dialoga con il passato. Non è sempre stato così? L’arte e il pensiero artistico non hanno sondato la tradizione, ispirandosi, fraintendendola, facendola a pezzi, per trovare soluzioni al presente?
We Humans. Umani alla ricerca della propria identità, desiderosi di creare un nuovo modo di abitare e di convivere. Il nemico dichiarato è il capitalismo neoliberista e il suo pensiero binario: noi o loro, con noi o contro di noi. Si immaginano piuttosto configurazioni accoglienti, non escludenti, in cui come in un caleidoscopio si formino nuove aggregazioni polivalenti e policentriche. All’Occidente, sempre più al tramonto, quell’Occidente dallo spirito coloniale e predone, si oppongono le tradizioni dimenticate o, meglio, rimosse, alla ricerca di radici altre, di un pensiero non antropocentrico, in cui trovare l’armonica convivenza di tutte le creature. Anche in questo caso viene in mente la fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov, e il pianeta Gaia dove tutti i suoi abitanti interconnessi hanno sviluppato un sentire condiviso di mutuo sostegno. Un pensiero molto presente anche nel lavoro del colombiano Rafeal Palacios e della sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: Dances for Manuel.
Questo movimento oppositivo al neoliberismo è animato da una militanza gentile, passiva, debole. Lo ricorda Claudia Rankine nel suo testo introduttivo al catalogo di questa Biennale Danza citando il movimento cinese TangPing (sdraiarsi a terra) e il quiet quitting americano. Se però quello cinese è una galassia di appartenenza che attrae al suo centro i singoli individui, il quiet quitting è un atteggiamento personale, non ufficiale, in cui gradualmente si rinuncia a ciò che sembra necessario ai più: possesso e consumo. Si fa marcia indietro, senza clamori, senza lotte apparenti, come delle gocce d’acqua che battono la pietra e col tempo saranno in grado di modellarla. Come afferma il Leone d’oro Cristina Caprioli: «la rivoluzione non basta più, né immaginarla né metterla in atto». Occorre cambiare la nostra lingua e il modo di ragionare. Caprioli vede nella danza un laboratorio in cui proporre e sondare “proposte alternative ai nostri modi di essere e di metterci in relazione”, una danza: «multipla per scelta, singolare nell’essenza, collettiva nella sua ricaduta». Shiro Takatami, da parte sua, ricorre invece a Kant e al suo invito a considerare l’uomo non un mezzo ma un fine.
We Humans. Umani in riconfigurazione. Una messa in discussione dei concetti tradizionali dell’Occidente, in cui l’umano non è più il centro e il fine della creazione, ma un elemento fra i tanti e il cui comportamento, sano o tossico, influisce su tutto l’intero bioma. E il principale elemento da riconsiderare e riformulare è il corpo. Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor in Humani corporis fabrica, video istallazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543, che per prima fondò l’idea di un corpo macchina, mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Immagini da sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello con paziente vigile, anziani con malattie degenerative della cognizioe in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio, immagini scioccanti, urticanti, che parlano di una fragilità in cui è insita la meraviglia, di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al proprio interno. Nell’osservare le rappresentazioni di questo corpo fragile eppur resistente non si può fare a meno di pensare alle parole di Cristina Caprioli: «nessun corpo, nessun linguaggio sarà mai in tuo possesso, dovrai piuttosto prendertene cura e lasciarlo andare».
Il corpo oggi non è qualcosa di esclusiva appartenenza al regno di natura. L’eterea inconsistenza della virtualità, gli ibridi umano-macchina, ci parlano di una problematica e non innocente fusione tra l’essere di carbonio e quello di silicio. Nicole Seiler e il suo Human in the loop, indaga i possibili punti di fusione tra umano e IA ispirata dal pensiero di Donna Haraway, filosofa americana madre della teoria Cyborg, Secondo la Haraway l’ibridazione tra umano e macchina permette il superamento dei dualismi tradizionali, verso degli esseri con identità fluide e mutevoli, non sessuate, con identità: «permanentemente parziali e punti di vista contraddittori». Seiler in Human in the loop esplora le possibilità di questa fusione e i possibili rapporti di potere tra silicio e carbonio facendo eseguire e interpretare all’improvviso a una coppia di danzatori nel vivo della scena le istruzioni provenienti da una IA. Quali i margini di libertà dell’umano rispetto agli ordini impartiti da una macchina? A chi è dovuta l’autoralità dell’opera? È proprio necessario un autore/autrice? Domande di una certa complessità che, va detto, riecheggiano l’opera di Cage in cui le stesse questioni venivano indagate attraverso l’uso di operazioni casuali.
We Humans. Una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, postcoloniale, femminista e, nuovamente, anticapitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Queste sembrano le questioni più scottanti che inquietano il mondo dell’arte visiva come la danza. In questo articolo non abbiamo parlato molto di danza. Ci siamo soffermati sul pensiero che spinge la danza, che la infirma e la genera. Il danzare dello spirito è forse meno coreografico di quello del corpo? Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia». Forse bisogna spingerci oltre, nel mondo delle idee, dove i concetti vorticano furiosi e liberi di intrecciarsi in un ballo primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.
Nicole Seiler HUMAN IN THE LOOP
Durata: 70′
Ideazione: Nicole Seiler
Performance, collaborazione artistica: Clara Delorme, Gabrile Obergfell
Coproduzione: Cie Nicole Seiler, Arsenic, Centre d’art scénique contemporaine Lausanne.
Cristina Caprioli FLAT HAZE
durata: 60′
Coreografia: Cristina Caprioli
Produzione: ccap 2019-2022
Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor DE HUMANI CORPORIS FABRICA
Durata 115′
Cinematografia, Suono, Montaggio: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor
Produzione: Norte Production, CG Cinema, Rita Production, S.E.L.
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