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Grandi speranze!

GRANDI SPERANZE! IL TEATRO ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Quando quasi due anni fa è iniziata la pandemia il mondo dello spettacolo dal vivo è stato squassato da una legione armata di stati d’animo contrastanti: shock per la chiusura dei teatri (che in Italia non avveniva da tempo immemore); ansia per le condizioni economiche delle compagnie, dei festival, degli spazi di cultura; tensioni riformatrici verso la regolarizzazione dei diritti dei lavoratori, e tentativi di innovazione per lo più votati all’esplorazione del mondo digitale, unico spazio agibile per molti mesi, ma luogo pericoloso e snaturante la concezione stessa di incontro dal vivo; euforia nelle riaperture, accompagnata dalla voglia di dimenticare quanto passato, seguita da una brusca e inevitabile battuta d’arresto nelle riflessioni sullo stato miserevole delle cose e sulle relative possibili riforme; poi nuovamente la depressione invernale con nuove chiusure nelle varie zone rosse a cui è seguita una nuova esuberante attività affetta, in molti casi, da cattivo gusto nello sbandierare ridicoli sold out a mezza sala o nell’esultanza smodata per l’entrata nel FUS laddove vi erano molti che languivano o si spegnevano.

Da ultimo, in questo inverno del nostro scontento che sembra non avere fine, siamo attanagliati dall’incertezza che accompagna un triennio dominato da una pessima legge a regolare l’attività di coloro in grado di rispondere ai paletti imposti dagli algoritmi e dai minimi ministeriali. La fragilità d’altra parte è invece sempre più regina dell’indipendenza e dell’autonomia. Si riducono gli spazi d’azione e di finanziamento, perché si sa che i soldi chiamano i soldi, e infine le possibilità di distribuzione si restringono visto che con la nuova legge si è voluto far entrare in concorrenza gli Stabili e i Tric nelle nicchie di mercato per ora riservate agli indipendenti e agli artisti che lavorano sulla prossimità territoriale.

theophile van Rysselberghe – La Signora Edmond Picard Nella Confezione Del Teatro De La Monnaie

Per tutti la situazione pandemica a complicare la già difficile situazione che spinge molti a annullare e differire senza più avere la speranza di sostegni o periodi “in deroga”.

Tutto ciò ci porta a considerare questo periodo storico come il più difficile e spinoso che il mondo teatrale (nel più ampio e accogliente senso del termine) si trova ad affrontare dal secondo conflitto mondiale. A complicare il tutto il trovarsi a contrastare un tale frangente storico divisi su un fronte balcanizzato in mille posizioni diverse e antitetiche, a fronte di un atteggiamento politico e istituzionale graniticamente unito e deciso a ignorare la maggior parte delle esigenze e richieste di riforma radicale del settore.

Vi è dunque una sostanziale confusione che serpeggia, non nascosta come vipera nell’erba alta, ma evidente e terribile come un godzilla che tutti cercano di ignorare: quali effettive funzioni può svolgere lo spettacolo dal vivo oggi nella società neocapitalista orientata a digitalizzare qualsiasi aspetto della vita quotidiana, e per nulla interessata a processi artistici a lunga lavorazione, ad alto rischio, per di più effimeri nel senso di difficilmente commercializzabili in una società di massa?

Sono domande scomode a cui bisognerebbe rispondere, questioni che sono state solo sfiorate e poi ignorate in questi due anni, perché considerate dai più alla stregua di lanugini ombelicali e non punti cardine su cui ruota il senso ultimo dell’agire di un’intera categoria di artisti e lavoratori. Ora sembra tardi, ora sarebbe il momento dell’azione, ma non abbiamo idea di come affrontare tutte queste sfide.

Forse si dovrebbe fare un primo passo avendo la forza di osservare la situazione con occhio limpido, senza retoriche e pregiudizi, a viso aperto, costi quel che costi. Bisognerebbe dirsi l’amara verità con lucida onestà intellettuale: il teatro in tutte le sue forme non è più centrale nella vita della società e probabilmente non lo sarà per lungo tempo. Inoltre non ha una funzione chiara ed evidente nel corpo sociale e si rivolge a una fetta assolutamente minoritaria della popolazione. Gli appelli al pubblico a tornare a teatro o i sussurri di chi ammette avere le sale semivuote sono lì a testimoniare un abbandono di cui nessuno vuol prendere atto.

Ne Il tempo ritrovato, ultimo volume de La Recherche proustiana, vi è un passaggio colmo di grande poesia venata di tristezza e crudeltà, quello in cui la grande attrice, la Berma, ormai morente, si dona per un’ultima matineé per recitare il suo grande cavallo di battaglia La Phèdre di Racine, dono non accolto in quanto vi partecipa un solo giovanotto. L’intera bella società parigina è altrove, corsa alla festa della principessa di Guermantes. L’attrice è sola, con l’unico spettatore, sua figlia e il marito tutti presi dalla voglia di raggiungere gli altri nel luminoso palazzo di Guermantes e con il sorriso agro per dover invece accontentarsi di pranzare con la vecchia signora. La sublime attrice che per anni aveva accolto l’entusiasmo del pubblico ora è sola, abbandonata dal suo pubblico e tace.

Come siamo lontani dalle immagini dei primi libri in cui la Berma appare in tutto il suo splendore sulla scena, donna sublime che incarna la vera arte in quella vita effimera, scorrevole e fuggitiva, che sorge sulle assi di un palcoscenico. Come è distante la sublime visione del teatro-acquario dove dalla penombra dei palchi emergevano, come divinità acquatiche, le più importanti personalità dell’alta società attratte dall’arte della grande attrice (dietro il cui ritratto si nasconde la figura di Sarah Bernard).

Oggi ci troviamo tutti a recitare la parte della Berma, e questo al di là delle posizioni di chi afferma il pubblico essere numeroso e affettuoso recitando la frase come un mantra quasi implorando una divinità consolatoria a un soccorso che può venire solo dall’intervento improbabile di Dioniso in persona. Come dice Cobb nell’incipit di Inception: non vi è parassita più potente di un’idea radicata nel nostro cervello. Essa è quasi impossibile da rimuovere.

Purtroppo però bisogna prendere coscienza di essere una riserva indiana, un popolo in via d’estinzione e se non vogliamo suonare il De profundis come la Berma, occorre prendere atto di questa situazione, domandarsi le cause e trovare delle soluzioni che portino a un’inversione di tendenza. E bisogna farlo ora, in fretta e il più uniti possibile.

Federico Zandomeneghi Il palco

Certo la scena nel suo complesso non avrà mai più la centralità assunta nei tempi passati, non vi sarà per molto tempo un Proust che scriverà pagine immortali sull’arte dell’attore all’interno di un romanzo capolavoro, né un Degas o un Toulouse-Lautrec a ritrarre scene di vita a teatro. Dobbiamo prendere coscienza di questo con grande onestà intellettuale e abbandonare per sempre le retoriche sulla centralità del teatro nella società e sulla sua necessità imprescindibile. Dobbiamo ripartire, azzerare le posizioni, tornare a concepire utopie, muovere verso nuove terre, pensare che il cambiamento non solo è possibile ma necessario. Se è futile rimanere attaccati a immagini del passato, è invece assolutamente necessario muovere passi verso un futuro ignoto da costruire, volenti o nolenti.

Proust scrive: «ogni volta che la società è momentaneamente immobile, coloro che in essa vivono si immaginano che non avverrà più nessun cambiamento, così come, avendo assistito all’avvento del telefono, non vogliono credere all’aeroplano». Immaginare il futuro è impresa titanica e ora sembra vi sia solo una solida rassegnazione di fronte agli eventi, una morsa congelante e depressiva capace di impedire non solo di vedere un futuro diverso e possibile, ma persino abile nell’impedire la cosa più semplice: comunicare la bellezza del proprio mestiere, la gioia del creare un farfalla pronta a vivere per una notte soltanto per scomparire poi nel buio delle quinte.

Da più parti si manifestano posizioni sconsolate e sconcertanti: alcuni come Rutilio Namaziano rimpiangono i tempi felici e ripetono, come snocciolando un rosario, che Roma brucia, senza nulla fare se non guardare l’incendio e dire a sé e agli altri: io non ho colpa; oppure si ostenta una ferrea realpolitik che neanche Bismark si sognava, tesa ad accettare lo stato di fatto e provare a ottenere il meno peggio (per Carmelo Bene, lo ricordiamo, il meglio del peggio era il pessimo!); oppure si stringe i denti convincendosi che tutto tornerà come prima sperando nel trascorrere rapido di una tempesta della durata di due anni interi.

È meglio non farsi troppe illusioni. Il teatro, la danza, il circo voluti dalle istituzioni non sono quelli che ha in mente la comunità teatrale: non più forma d’arte d’alto livello, ma intrattenimento minore da sostenere in qualche modo finché resiste la riserva indiana. Quindi, se si vuole qualcosa di diverso, va immaginato e costruito tirandosi su le maniche e non aspettandosi che sia lo Stato a risolvere tutti i problemi con la prossima legge. Se si vuole un futuro bisogna costruirselo.

Edgar Degas Caffé concerto agli Ambassadeurs

In questa selva oscura e assai confusa vi sono molti silenziosi che lavorano solitari, immaginando soluzioni proprie, per mantenere vivo il proprio sogno (e non è retorica questa parola perché ognuno di noi quando ha iniziato il suo viaggio nel mondo teatrale l’ha fatto inseguendo un sogno di libertà e creatività, altrimenti andava a lavorare in posta o in banca, con tutto il rispetto per queste professioni). La solitudine però non è una soluzione. Nel tempo delle reti solo condividendo pensieri e pratiche si può salvarsi. Certo bisogna superare alquanti pregiudizi che per decenni hanno costretto tutti a guardare al proprio orto, vedendo il vicino non come un collega ma come un nemico. Solo una certa unità d’intenti può riformare le modalità e costringere le istituzioni e prenderne atto, così come in altre epoche solo l’unità dei lavoratori ha costretto il capitale a concedere diritti e salari più equi e dignitosi.

Come si esce dunque da questo pantano? Nel romanzo di Dickens Grandi speranze troviamo due personaggi: Pip, il ragazzino che si trova a ereditare una fortuna senza sapere da dove arrivi, ed Estella un’adolescente adottata e allevata da Miss Havisham, una donna vecchia, inacidita dall’abbandono del suo grande amore e che vive perennemente in una stinta e ingiallita veste da sposa, in una sala ombrosa al cui centro troneggia, su un tavolo pronto a trasformarsi in letto di morte al momento opportuno, il dolce di nozze ammuffito dagli anni e roso dai topi.

Sia Pip che Estella non raggiungeranno le loro grandi speranze, il primo perché, falsamente illuso e abbagliato dalla ricchezza giunta dall’alto e inaspettata, rinuncia alla semplicità che sola avrebbe potuto renderlo veramente felice; ed Estella, allevata all’ombra di una felicità smarrita e rimpianta, non saprà trovare alcuna contentezza per sé per non averla mai potuta nemmeno sognare o immaginare.

Oggi abbiamo dunque una responsabilità di fronte alle nuove generazioni: non vanificare le loro speranze con parole e riti vuoti di significato, non obbligarli a credere che le vie dei bandi e dei rendiconti sia l’unico modo per sostentarsi e far fiorire il proprio talento, e soprattutto non farli crescere all’ombra del rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato e non sarà. Il rischio altrimenti è far sorgere schiere di Pip e di Estella, delusi nelle loro grandi speranze e incapaci di creare un futuro all’arte del teatro. Una schiera di giovani cinici pronti, pur di avere un posto al sole, ad assolvere qualsiasi richiesta e tutto ciò in barba alla ricerca artistica.

La nostra responsabilità è provare a costruire un futuro diverso, basato su altri presupposti purché solidi. Inventare nuove funzioni allo spettacolo dal vivo e soprattutto essere nuovamente capaci di comunicare la forza e la bellezza di un’arte che ha attraversato la storia dell’umanità per circa tremila anni e se ciò è avvenuto nonostante le pesti, le cadute di imperi gloriosi, le invasioni barbariche, la Guerra dei Cent’anni, dei Trentanni e di due conflitti mondiali, ci saranno state delle profondissime ragioni. Vanno solo ritrovare e reinventate. Tutto questo non è solo una responsabilità, è un’urgenza non più differibile. A volte questa nuova terra è molto più prossima di quel che si pensa. Come dice Proust in un passo memorabile: «una terra incognita visibilissima in tutte le sue più impercettibili sfumature a coloro che l’abitano, ma che è notte, puro nulla per chi non vi penetri e la lambisca senza sospettarne vicino a sé l’esistenza». Come per l’isola di Lost, per vedere questo nuovo continente, bisogna solo crederci e muovere un passo in una direzione differente.

Franz Kafka

RINUNCIA! OVVERO LA PARALISI DELL’INNOVAZIONE

«Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla»

F. Kafka Il castello

Sarà forse perché è caduta la prima neve e la stagione volge a quella invernale, sarà l’assidua lettura del nuovo decreto sul FUS, ma mi risulta difficile, se non impossibile, non pensare ad alcune immagini, tremende e sublimi, sorte dal mondo ovattato e innevato de Il Castello di Kafka. Ne sono incapace probabilmente perché queste, in qualche modo oscuro e potente, riescono non solo a descrivere alcune malattie croniche del nostro teatro, che il nuovo decreto anziché sanare probabilmente aggraverà, ma a volerle ascoltare, senza il turbamento che provocano, scuotono e invitano a ricercare un’alternativa radicale allo stato attuale.

Kafka chiamava le immagini con la parola tedesca Sinnbilder: un lemma composto da Sinn «senso, significato» e Bild «immagine»: immagini che hanno significato. In italiano potremmo usare il termine simbolo ma con il senso che vi attribuivano i Greci: qualsiasi cosa capace di suscitare nella mente un’idea differente rispetto a quanto viene visto nella realtà e, nello stesso tempo, metà di una parte. Questo secondo significato rimanda a un’antica tradizione secondo cui un oggetto veniva tagliato irregolarmente e ciascuna delle due parti veniva affidata a due amici o famiglie come simbolo di riconoscimento della reciproca amicizia. Due metà attraverso cui agisce un’identificazione e quindi si palesa un significato nascosto a tutta prima non percepibile.

Immagini parlanti alla realtà perché in qualche modo la rispecchiano, donano un senso nuovo pronto a risvegliare energie sopite. La prima pronta a sorgere dalle stradine innevate del villaggio è l’amministrazione stessa del Castello ele sue funzioni che noi possiamo desumere dal colloquio di K. con il sindaco. In poche frasi Kafka riesce a tratteggiare un universo inquietante di cui, sempre più inconsapevoli, facciamo tutti parte. Vediamo quali sono tali caratteristiche e proviamo, per gioco, a scoprire se in esse riconosciamo il simbolo come metà mancante capace di illuminare il reale.

Franz Kafka

K. prima ancora di essere introdotto dal sindaco si accorge, reduce dal primo scontro con l’ostessa, di aver iniziato una battaglia quasi impossibile e il motivo essenzialmente risiede nella natura stessa della lotta: «l’autorità non aveva che da difendere in nome di signori lontani e invisibili cose altrettanto lontane e invisibili, mentre K. lottava per qualcosa di molto vivo e vicino». L’impossibilità di avere ragione dell’amministrazione sta proprio nel fatto che quest’ultima non è personalmente coinvolta nel processo se non in quanto agente-macchina, mentre per K. è questione di vita o di morte. Da una parte non vi è coinvolgimento alcuno, è solo questione, nella migliore delle ipotesi, di attenersi alle norme e alle direttive, nella peggiore di emanarle senza conoscere veramente la realtà (è il caso di K. nominato agrimensore del conte senza che ve ne fosse alcun bisogno reale), mentre dall’altra vi sono la vita e il destino dei singoli.

Quando il sindaco si dilunga a spiegare i meccanismi che hanno portato alla sua nomina per un servizio di cui nessuno aveva reale necessità, ossia il disguido tra l”ufficio A e l’ufficio B e il susseguente intervento di Sordini, K con sarcasmo nota: «Mi diverte soltanto questo […] perché mi dà un’idea del ridicolo imbroglio che in certe circostanze può decidere della vita d’un uomo».

Ciò che è ancora più sconcertante è il fatto che nessuno di fatto ha sbagliato. Ognuno ha seguito la natura del suo ufficio e del relativo regolamento governante l’attività sua specifica. Le carte si sono in qualche modo perse senza alcuna ragione apparente, e come per il Cacciatore Graccus, è ormai impossibile per K. trovare la via d’uscita dal limbo in cui è caduto. Infatti come viene notato dal sindaco: «Uno dei principi che regolano il lavoro dell’amministrazione è che non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio».

Quello che rende ancor più difficile, se non impossibile, la lotta di K. sono le due ulteriori caratteristiche dell’amministrazione del Castello: l’inerzia, ossia come viene detto in un passo espunto: « le autorità badavano soltanto a difendere», e l’arbitrarietà. Vediamo di esaminarle con attenzione.

K. già nella sua cameretta all’Osteria del Ponte aveva percepito un certo fastidio quando, in stato di debolezza, Frieda e gli assistenti accorrono ad aiutarlo: «non era ancora tanto in forze da rifiutare i loro servigi, vedeva bene che accettandoli cadeva in una specie di dipendenza che poteva avere conseguenze spiacevoli». Più avanti a colloquio dal sindaco ecco ripresentarsi la stessa sensazione: «in tal modo lo viziavano e lo indebolivano, escludevano qualsiasi conflitto e lo relegavano in un’esistenza torbida, strana, che era fuori dalla vita ufficiale».

Fotogramma da Delitti e segreti di Steven Soderbergh ispirato a Il processo e il Castello di Kafka

Questo atteggiamento apparentemente conciliante dell’amministrazione, connessa con la passività di chi gioca in difesa e lascia all’attaccante la prima mossa, conduce inevitabilmente a facili vittorie su cose di nessuna importanza e, nello steso tempo, a essere incapaci di ottenere qualcosa di veramente cruciale. Inoltre la sicurezza di non sbagliare mai e la conseguente messa in discussione dell’operato del richiedente mina «la conseguente ben fondata sicurezza per altre lotte più importanti», con il risultato: «che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri […] egli, illuso dal favore che in apparenza gli si dimostrava, regolasse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire in pieno».

Ecco la chiave di volta dell’intero pensiero di K.: le minuscole concessioni, le carezzevoli rassicurazioni, conducono solo in un cul de sac da cui è impossibile fuggire e dove il fallimento è certo. Tutto rimane uguale, niente cambia mai, perché nessuno è mai messo in condizione di poter agire in maniera efficace proprio per l’inerzia di tutta l’amministrazione.

Quello che K. scopre pian piano è che tutti fanno parte dell’autorità e della burocrazia del Castello: l’ostessa, il carrettiere Gerstächer, il maestro, gli aiutanti e Frieda, tutti, persino Barnabas, sono parte dell’ingranaggio e non hanno nessuna intenzione di indebolirne le fondamenta. L’unica estranea, colei che mai ha voluto esser parte del Castello, è Amalia e come ribelle è totalmente esclusa dalla vita della comunità. In un diverso inizio, in seguito eliminato da Kafka, K. in uno scambio con Elisabeth, una cameriera dell’Osteria, dice apertamente di non fidarsi di nessuno di loro perché: «siete tutta una congrega».

K. però non si accorge di un fatto essenziale: lui stesso, nell’accettare la lotta diviene parte di quella comunità che intende combattere. Benché voglia cambiare le regole, nonostante le sue irrituali irruzioni all’Albergo dei Signori, l’aver strappato Frieda a Klamm, egli di fatto diviene parte del sistema che detesta e vuole abbattere. Si direbbe, in fondo, che il suo sogno rivoluzionario sia in fondo riducibile all’essere accettato dal sistema.

Il sindaco a K. aveva fatto intravedere una soluzione, o una sorta di via di uscita dall’impasse: «nessuno vuol trattenerla qui, ma questo non vuol dire neppure che si voglia cacciarla via». Parole molto simili vengono pronunciate dal predicatore ne Il processo: «Il tribunale non vuole nulla da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai». Per cambiare veramente occorre uscire dal sistema, andarsene, come Amalia. Cosa apparentemente semplice perché nessuno ci trattiene. Eppure nessuno compie questa scelta.

La facilità è infatti solo un’illusione. Tutto congiura nel farci credere nella potenza delle forze che ci avvinghiano a un sistema malato. Chiunque provi o semplicemente minacci il tentativo di fuoriuscita o di ribellione viene imbrigliato e congelato, da una parte dai piccoli vizi concessi dall’amministrazione, e dall’altra dalla comunità stessa che nega la partecipazione a un’azione comune. Se il Castello esiste è perché tutti lo tengono in piedi. K. se ne rende conto in maniera flebile, quasi inconscia, il suo primo giorno quando non può fare a meno di dirsi: «egli capiva chiaramente che anche soltanto pochi giorni trascorsi qui senza costrutto lo avrebbero reso per sempre inabile a un’azione risolutiva».

Il Castello di Peter Haneke

Vi è un piccolo racconto scritto da Kafka nel 1922 durante la stesura de Il Castello che ha un titolo esemplificativo Rinuncia! e vorrei riportare per intero: «Era la mattina per tempo, le vie pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello d’un campanile, vidi che era molto più tardi di quanto avessi pensato, dovevo affrettarmi assai, lo spavento di quella scoperta mi rese incerto sulla via, non conoscevo ancora bene questa città; fortunatamente vidi una guardia poco distante, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada, Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”

”Appunto” risposi “ Dato che non so trovarla da me”

”Rinuncia, rinuncia!” E si girò con grande slancio come chi vuol esser solo con la propria risata».

Tutto congiura contro una vera riforma del sistema. Lo abbiamo visto in questi due anni. Allo slancio iniziale sono seguite le prime pallide riaperture, i ristori, l’allargamento del FUS, etc. Tanto è bastato perché le spinte riformatrici si inaridissero. Ora si profila, con il nuovo decreto, un’ennesima restaurazione del sistema, solo che nel frattempo è successo un evento drammatico e devastante, cui nessuno sembra pensare nonostante ancora lo si stia attraversando e le cui conseguenze ancora non si siano del tutto palesate.

A tal proposito vorrei concludere con un’ultima immagine kafkiana contenuta nei diari e datata 28 febbraio 1913, un racconto semplicemente abbozzato e non finito. Il signor Ernst Liman giunge a Istanbul e vuole alloggiare al suo solito Hotel. È già il suo decimo viaggio. Salito sulla carrozza non esita a fornire al vetturino l’indirizzo dell’Hotel Kingston. Durante la sua assenza però l’albergo è bruciato in un incendio. Il vetturino lo sa ma vi conduce Liman ugualmente. Giunto sul posto scarica le valigie tra le proteste di Liman. Nel frattempo giunge il capoportiere dell’Hotel. Gli impiegati infatti abitano ancora le poche parti non bruciate dell’albergo circondati dalle macerie, nell’attesa della ricostruzione, annunciata ma per nulla cominciata. Costui cerca di convincere il signor Liman a rimanere in una delle case di proprietà dell’albergo e per convincere la reticenza incrollabile dell’uomo ricorre a Fili, una prostituta dipendente dall’albergo. Il racconto finisce improvvisamente con Fili che si aggiusta la camicetta e Liman che afferma: «È inaudito».

Stiamo abitando una casa bruciata? E cosa faremo per trattenere quel pubblico che, a parte i grandi eventi, sembra essersi allontanato dalle nostre case? E come ci comporteremo con un’amministrazione pronta a disinnescare qualsiasi battaglia per una reale riforma del settore?

Dobbiamo tornare a porci domande scomode, a scuoterci dall’inerzia che ci opprime. Non abbiamo altra soluzione. Le minacce del guardiano alla porta della Legge sono inconsistenti, non c’è nessun altro ulteriore tremendo custode. C’è solo un enorme campo libero dove provare a ricostruire o magari un luogo sgombro di limiti dove provare e reinventare la realtà e il mondo. Non c’è più tempo, come in Favoletta altro racconto breve kafkiano che ho già più volte citato ma non guasta riproporlo in chiusura:

«”Ahi” disse il topo, “il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente i muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro così in fretta che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò”. “non avevi che da correre in altra direzione”, disse il gatto, e lo mangiò».

Davanti alla porta della Legge

DAVANTI ALLA LEGGE: RIFLESSIONI IN FORMA D’ALLEGORIA

Davanti alla porta della Legge è una parabola enigmatica contenuta ne Il processo. Viene raccontata dal predicatore del tribunale a Josef K, nell’ombra incombente del duomo. Kafka era un maestro di scrittura per enigmi, è stato il creatore di un universo mitico, disciplinato da regole alquanto astruse e inquietanti, ma tali da fotografare lampi e frammenti di verità della realtà presente e viva.

In qualche modo, rileggendo alcuni passi degli scritti di Kafka, alcune immagini mi sono rimaste fortemente impresse perché sembrano parlare del presente e in determinati passi addirittura sembrano riferirsi ai fondamenti del sistema teatro italiano e, nello stesso tempo, paiono sussurrare possibilità di fuga dalle grinfie dei suoi tentacoli più molesti e velenosi, se solo sapessimo ascoltare.

Facciamoci dunque suggestionare insieme da queste immagini e vediamo se riusciamo a farle parlare.

Cosa racconta l’apologo dell’uomo di fronte alla Legge? Un uomo giunge davanti alla porta della Legge. Il portone è aperto ma vigilato da un custode. L’uomo chiede di poter accedere alla Legge ma il guardiano dice che: «al momento non può assicurargli l’ingresso». L’uomo chiede allora se questo potrà avvenire più tardi e la risposta che ottiene è tanto enigmatica quanto ambigua: «È possibile, ma non ora». La speranza è alimentata, ma la durata e il motivo del divieto rimangono misteriosi.

L’uomo, nell’attesa, si sporge a sbirciare oltre il portone e il custode ora lo tenta e spaventa: «se ti alletta tanto, prova pure a entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo il custode di grado più basso. Sala dopo sala vi sono guardiani uno più potente dell’altro. Già solo la vista del terzo io non la posso sopportare». Tanto basta a calmare ogni velleità di ribellione dell’uomo.

Costui quindi passa tutta la vita davanti al portone cercando di ottenere l’agognato permesso usando ogni mezzo possibile, e giunto infine agli ultimi istanti, mentre già gli occhi vedono solo buio in cui si intravede una luce fievole provenire dal portone della Legge, chiede al custode: perché in tutto questo tempo nessuno oltre me è mai giunto? Il guardiano strilla: «qui nessuno poteva ottenere di entrare perché questo ingresso era destinato solo a te. Adesso vado e lo chiudo».

Orson Wells Il Processo

In questa maniera crudele e repentina termina la parabola. Josef K. e il predicatore cominciano a fare una lunga e complicata esegesi del racconto. Il primo è convinto che l’uomo sia stato ingannato, mentre il secondo afferma che dopotutto il custode non è altro che un servitore della legge e ha fatto, forse ignaro, forse no, nient’altro che il suo dovere.

Eppure le spiegazioni non convincono. L’essenza non è stata esplicitata. Perché l’uomo non se n’è andato visto che nulla lo tratteneva? Perché per lui era così importante accedere alla Legge? E se era così vitale, perché non ha ignorato il divieto? E poi: qual è il significato di quella luce finale che traspare dal portone della legge? Forse mancano degli elementi che dobbiamo rintracciare altrove.

Spostiamoci un momento nel paesaggio innevato, nebbioso e oppressivo de Il Castello. L’agrimensore K. è a colloquio dal sindaco riguardo la sua assunzione, di cui tutti, tranne K. sembrano dubitare. In effetti rispetto alla posizione del povero K. vi sono elementi ambigui e divergenti. C’è ovviamente la lettera di Klamm ma vi sono anche altri documenti che attestano il contrario. Insomma K. rimane tra color che son sospesi. Anche qui la legge è barriera, ma trasformata però in norme e disposizioni amministrative, lacciuoli stringenti, di difficile comprensione e applicazione, opera di una serie di funzionari plenipotenziari del conte Westwest che nessuno ha però mai veduto. Alcuni di questi burocrati sono chiamati signori e hanno un loro personalissimo albergo. Sono dispotici, dispettosi, lussuriosi, viziati, onnipotenti.

Orson Wells Il Processo

Tre sono i particolari inquietanti all’interno del mondo macchinoso e burocratico del castello: la strada che dovrebbe portare le persone alla fortezza sul colle apparentemente si dirige verso le sue mura ma poi diverge per portare altrove. Sembra dunque che non ci si possa arrivare, che il Castello sia di fatto isolato benché dalla sua azione tutto dipenda. Secondo punto: nessuno sembra volerci andare e effettivamente nessuno oltre K. prova a compiere l’impresa. Come per la porta della Legge nessuno oltre l’uomo vi si presenta. Terzo: come fa notare Roberto Calasso, al mondo del castello non appartengono né religione né cultura. La chiesa è solo un edificio fra tanti, libri non compaiono mai, e i quadri ritraggono solo funzionari per altro di basso livello. Esiste solo la tirannica e impossibile burocrazia adorata come un Dio e compulsata, annotata, commentata come fosse la Divina Commedia

La legge e la burocrazia escludono la cultura. Sono totalizzanti e non permettono altro pensiero. L’arte necessita, e lo sapevano bene gli antichi, di otium, e invece bisogna occuparsi dei procedimenti e delle disposizioni perché i signori del Castello non ammettono errori, benché nulla sembri procedere in alcuna direzione.

L’assenza di cultura risulta, pur se meno evidente, anche ne il Processo: l’unico libro che Josef K. trova in possesso di un giudice del tribunale è un’opera colma di immagini oscene, e il pittore da cui spera aiuto dipinge solo ritratti di giudici per lo più di basso rango le cui commissioni hanno un unico scopo: pura e semplice vanagloria.

Oscenità e decorativismo. Due elementi che accomunano l’universo kafkiano con il sogno del bordello-museo di Baudelaire. Ciò che invece avvicina e rende simili l’agrimensore K. e l’uomo davanti al portone della Legge è il fatto di essere essenzialmente liberi di andarsene. Niente obbliga uno o l’altro a restare vincolati alla missione autoimposta. K. potrebbe ritornare da dove è venuto oppure potrebbe, come suggerito da Frieda, andarsene via con lei altrove. Persino l’uomo potrebbe tornare in campagna. Sembra però che una volta avvinti dalla forza gravitazionale di questo buco nero burocratico amministrativo non se ne possa uscire.

Nonostante questa apparente paralisi entrambi sono manifestazione di un mondo potenziale. Se ora sono inutili e umiliati niente vieta che in un istante diventino potenti. Il mistero è perché non vogliano esercitare questa energia per svincolarsi dai sentieri forzati posti di fronte al loro cammino.

Questo è il punto veramente fondamentale: si potrebbe pensare a soluzione alternative ma queste non vengono minimamente prese in considerazione. Se l’eroe della tragedia greca lottava contro il fato tanto da rimanerne sconfitto, nella cosmologia kafkiana si lotta per avere ragione del regime burocratico, senza voler esercitare l’unica possibilità di vittoria: ignorare il sistema e inventarne uno diverso.

Pensiamo a Josef K. a cui si nega, innocente, la possibilità di assoluzione. Ciò che gli resta sono la dilazione e l’assoluzione fittizia e in entrambi i casi sono metodi incapaci di garantire una sicura e permanente libertà dai nascosti e invisibili tentacoli del tribunale. Potrebbe fuggire perché, anche se arrestato, è libero di andare dove vuole e in possesso di tutti i suoi documenti. Ma non lo fa. Decide di combattere ma senza voler seguire le strade battute. Vuole rivoluzionare il sistema dall’interno. Il finale lo conosciamo: ucciso nella cava come un cane da due pessimi attori di cabaret.

Vi è un altro elemento parallelo tra queste storie incompiute (tutte le storie migliori lo sono, non hanno mai fine e hanno infinite chiavi di lettura): nessuno ha mai visto chi dirige il tribunale o regna sul castello. Vi è un frammento che potrebbe metterci sulla strada giusta e lo riporto interamente:

«Ci sono molti che aspettano. Una moltitudine immensa, che si perde nel buio. Che cosa vuole? Evidentemente accampa determinate pretese. Ascolterò queste pretese e poi risponderò. Ma non uscirò sul balcone; né lo potrei, anche se volessi. D’inverno la porta del balcone viene chiusa e la chiave non si trova. Non mi affaccerò nemmeno alla finestra. Non voglio vedere nessuno, non voglio lasciarmi turbare dalla vista di niente; dietro lo scrittoio, ecco il mio posto, la testa fra le mani, ecco il mio atteggiamento».

Quest’uomo (forse il conte Westwest?) è chiuso nella sua stanza con balcone. È inverno (come ne Il Castello dove, lo dice la camerierina Pepi, è sempre inverno a parte qualche rara eccezione) e l’uomo non esce mai benché molti richiedano qualcosa da lui. Non risponderà in nessun caso anche se forse all’inizio ne aveva intenzione. Vuole rimanere allo scrittoio, gli occhi fissi sul piano.

Elias Canetti in Der andere prozess sembra darci qualche elemento in più. Anche in questo caso è giusto riportare l’intero frammento: «Io ero inerme di fronte a quella figura, che sedeva quieta al tavolo e ne guardava il piano. Io giravo intorno a lei e da lei mi sentivo strangolato. Intorno a me girava un terzo e da me si sentiva strangolato. Intorno al terzo girava un quarto e si sentiva da lui strangolato. E così si proseguiva sino ai moti degli astri e oltre. Tutto sentiva la stretta al collo».

L’uomo ritratto da Canetti sembra proprio lo stesso del frammento di Kafka: la testa tra le mani e lo sguardo fisso sul piano della scrivania. Intorno a lui gravitano un numero imprecisato di persone. Si parla di quattro ma sappiamo che la serie è infinita. Tutti si sentono soffocare dal gravitare degli altri in queste orbite concentriche il cui centro sembra disinteressarsi di loro. Canetti, cogliendo il segno di universalità delle sue immagini, sembra dar forma cosmologica a ciò che Kafka aveva immaginato.

Anthony Perkins In Il Processo di Orson Wells

Canetti ne Il frutto del fuoco afferma essere le immagini una sorta di rete da pesca attraverso cui far affiorare i punti nodali su cui poggia la nostra comprensione del mondo. Quelle potentissime di Kafka, affioranti dal suo universo allo stesso tempo mitico e burocratico amministrativo, ci aiutano a determinare la particolare situazione in cui versa il teatro italiano. O per lo meno a farci un’idea dei pericoli e umiliazioni cui è sottoposto.

Innanzitutto il legislatore (di ogni ordine e grado, sia inteso) appare come l’uomo nella torre del frammento: lontano, chiuso nel suo studio, con le mani a stringere la testa e lo sguardo fisso sul piano del tavolo. Anche se volesse non avrebbe la chiave per aprire il balcone e osservare il mondo che dovrebbe governare.

Le leggi e le disposizioni sono quindi svincolate dalla realtà, come nel caso dell’assunzione di K. come agrimensore del Castello. Tutto appare arbitrario, di difficile comprensione e applicazione (basta provare a leggere l’ultimo decreto sulla ripartizione del FUS nel prossimo triennio 2022-24).

Artisti e operatori si trovano quindi nella stessa situazione di Josef K.: mai assolti e sempre in stato di giudizio, obbligati a occuparsi ogni giorno dei propri procedimenti e pratiche, al fine di soddisfare i funzionari di questo orrendo tribunale. Per di più, come nel Castello, sparisce la cultura e resta la burocrazia. Il tempo eroso per sottoporre l’attenzione alle procedure amministrative impedisce lo svolgersi di un’azione artistica efficace e inoltre ne abbassa i livelli per rispondere alle caratteristiche indicate e volute.

La legge diventa quindi l’obiettivo, entrare nella sua porta per tutelare la propria attività, anche se niente garantisce che ci sia qualcosa o qualcuno al di là di quella benedetta porta. Potrebbe essere tutto un inganno del custode o semplicemente della Legge stessa per garantirsi una raison d’être che altrimenti verrebbe meno. Molti vengono respinti, ma tutti si presentano di fronte a quel portone che è lì solo per loro. La funzione del teatro non è più propria a se stesso. Come nel Gran Teatro di Oklahoma una volta entrati si viene rapiti da un vortice amministrativo solo per essere assunti.

Ora di certo questo gioco allegorico è solo una piccola provocazione a fin di bene però è giusto ricordare che come per K. o per l’uomo di campagna, non vi è nessun obbligo a rimanere in questo stato. Si può e si deve, per quanto difficile sia, costringere il legislatore a uscire sul balcone e ascoltare coloro che vogliono parlargli. Di certo non come le discordanti trombe del Gran Teatro di Oklahoma, ma con una voce unitaria. Non si può più accettare che il mondo dell’arte venga risucchiato in un gorgo burocratico amministrativo fatto di domande, ricorsi, rendiconti, ritardi nei pagamenti, corsi di aggiornamento, regole e pratiche emergenziali o meno.

Urge trovare il modo di parlare con i signori del Castello e con il conte Westwest e non importa che la strada sia difficile da percorrere, ne va della salute del teatro. A non provarci si rischia la fine di Josef K, offrire il collo docilmente a un destino ineluttabile.