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Sotterraneo

SUL PROMONTORIO ESTREMO DEI SECOLI: BE NORMAL di SOTTERRANEO

Ogni volta che mi trovo di fronte a uno spettacolo di Sotterraneo resto sempre meravigliato dall’ironica virulenza con cui aggrediscono la contemporaneità. Be normal, visto al Cubo Teatro di Torino il 18 dicembre nell’ambito della rassegna Fertili Terreni, graffia e incide, scuote e percuote domandando con soave leggerezza allo spettatore: è questo il mondo che vuoi?

La questione che vien posta ha uno e mille volti: quel demone che ci spinge verso il nostro destino, il daimon di Socrate risvegliato da Hillman, va ucciso perché non fruttifero ma solamente latore di passioni improduttive e che hanno l’unico scopo di farci sentire centrati e realizzati? Questo assassinio rituale è imposto da chi è venuto prima è ha codificato le leggi della produttività a ogni costo e della monetizzazione dei sogni e dei destini. Tali codici vanno rispettati? O andrebbero abbattuti? Uccidere il demone e vivere una vita normale, dove con tale aggettivo si intende accettata e riconosciuta, oppure schiantarsi seguendo la passione? Un terzo elemento pare non esserci. Nessuna conciliazione degli opposti. Si deve scegliere in quale campo stare. Come nei romanzi di Fenoglio: la neutralità non è un’opzione.

La piccola bara bianca, che avanza sulle note di Sound of Silence, è l’agghiacciante corteo funebre di più generazioni che in questo paese sono state sacrificate alle colpe di chi li ha precedute, ma è anche un monito: il silenzio uccide, così come l’ignavia crea quel corteo immaginario che segue, quello degli «sciaurati, che mai non fur vivi».

Lo spazio scenico è per Sotterraneo il luogo di interrogazione non di rappresentazione. Si gioca con il mondo facendolo a pezzi con le immagini, si cerca di capire come funziona per rimontarlo in altro modo. Ci si affanna su quel palco che si apre oltre le sue possibilità, nel dietro le quinte, nel retropalco, fuori le mura. Dilaga. Ciò che è dentro la scatola fuoriesce. È dappertutto.

Il linguaggio scenico è frenetico montaggio delle attrazioni. Bisogna dimostrare di fare, di lavorare. Bisogna riempire tutti gli spazi di tempo, che non si pensi giammai che l’artista si riposi. Ossessione del pieno in una gara senza vincitori a chi lavora di più, a chi produce di più. Così si crea un raccapricciante giardino delle delizie, dove in un’immaginaria giornata scandita dal procedere delle ore come nella serie 24, si passa da un colloquio presso un cartello mafioso, alla ragazza che nutre lo scheletro della madre bulimica benché defunta, al tirassegno per abbattere i vecchi (tra la regina Elisabetta, Hugh Heffner, Paperon de’ Paperoni, il vero nemico è Mario Rossi, pensionato generico).

Tutto appare falsamente lieve, in accattivanti toni neo-pop, quasi scenette da moderno avanspettacolo, eppure ogni immagine è scudiscio che dovrebbe farci trasalire di dolore. Dopotutto si mette in scena un catastrofico fallimento, quello di tutto e di tutti, senza speranza alcuna. Aleggia un rumore di schianto tra le risate. Si precipita nel buonumore senza accorgersi del suolo che si avvicina a tutta velocità.

Sotterraneo ci bombarda di oggetti e situazioni, quasi una saltar di palo in frasca, non lascia mai tregua, serrata mitraglia di informazioni, persino di grafici e statistiche sull’invecchiamento della popolazione per far emergere un affresco di una gioventù soffocata dal decrepito, dal trapassato che non vuol lasciar quartiere, quel paese di podagra che si vorrebbe morto dai tempi di Marinetti.

Be normal di Sotterraneo è spettacolo del 2013 ma pone domande che restano inevase. In quella bara bianca le generazioni si accumulano e niente si fa per impedirne il seppellimento anzitempo. Siamo una società votata al Götterdämmerung. Si aspira all’apocalisse. Si vuole consumare tutto e subito e del futuro chissenefrega.

Anche quando apparentemente si loda la gioventù, la si insignisce di premi e nomination in verità li si sbeffeggia. Non si creano le condizione ai giovani germogli per diventare pianta solida. Nel teatro per esempio, non sono gli Ubu e nemmeno la pletora di premi e premietti che fertilizzano la crescita, ma lo sarebbero il miglioramento delle condizioni produttive, una distribuzione efficiente in Italia e all’estero, la pluralità di fonti di finanziamento accessibili, la libertà di fare ricerca senza dover produrre ogni sei mesi un lavoro nuovo che diventa vecchio già a metà stagione.

Se si vuole veramente che il daimon dei giovani cresca florido, bisogna dar loro spazio, luce e tempo per svilupparsi. E invece bulimici li si consuma, li si osanna per gettarli nel fuoco appena diventano over 35. Sotterraneo con Be normal ci pongono delle domande urgenti: sarebbe il caso di cominciare a dare delle risposte prima che non ci sia nessuno a trasportar quella bara bianca.

Ph: @Emiliano Pona