Il 2 giugno, Festa della Repubblica, si è aperta la 24ma edizione del Festival delle Colline Torinesi. A inaugurare il programma Chiara Guidi e Claudia Castellucci con Il regno profondo. Perché sei qui? e La gioia di Pippo Delbono.
Chiara Guidi e Claudia Castellucci giungono sulla scena come due anziane signore, a braccetto, Con lentezza decisa salgono sul podio al centro della scena. Sono illuminate dall’alto da una luce a pioggia che cade da una lampada nera a forma di trapezio. Il podio è vuoto eccezion fatta per due aste per microfoni. Le donne sembrano due beghine con un austero vestito nero a righe, le gonne lunghe e severe, le calze nere anch’esse e le scarpe pesanti.
Le donne, chiamate “luogotenenti” perché presidiano un luogo in cui sono arroccate, cominciano a salmodiare un testo fitto di domande. In apparenza questioni religiose o, per lo meno, esistenziali. Si rivolgono direttamente a un interlocutore che potrebbe essere benissimo il pubblico come Dio stesso. Le domande vengono sparate a mitraglia, senza aspettarsi una qualsiasi risposta. C’è dello scetticismo persino nel porle. La cantilena intanto prosegue serrata come una sorta di salmo responsoriale che in verità non fornisce risposta alcuna. È un girare a vuoto su questioni a cui non si crede veramente e su cui vanamente ci si interroga.
Improvvisamente un intermezzo. Le “luogotenenti” si accasciano al suolo e nel buio parole vengono proiettate sul fondo, parole pletoriche che non hanno veramente un’urgenza, sembrano quasi casuali e intervallate da pubblicità assurde di attività artigianali nella provincia di Forlì.
E quindi il ciclo ricomincia, le donne ricominciano le domande, questa volta poste una all’altra in una sorta di dialogo fatto di domande a cui nessuna delle due fornisce risposta e poi ancora un intermezzo. Tre cicli in tutto. E poi le donne escono così come sono venute. Due anziane a presidiare una fortezza costituita da niente, a interrogarsi su vuote questioni senza giungere a un risultato alcuno. :”Casca il mondo. Casca la terra. E sotto non c’è niente” canticchiano le megere. Il tutto sembra un’agghiacciante istantanea di molta cultura odierna, che presidia posizioni inutili, senza porsi dei problemi urgenti e reali, mantenendo modalità obsolete e polverose mentre il mondo è andato avanti e, per dirla con un motto di una famosa serie, l’inverno sta arrivando.
Ottima la regia vocale di Chiara Guidi, una vera e propria direzione d’orchestra di parole che si fanno musica e richiamano il recitar rosari e il cantar salmi nelle veglie funebri. Un dire quasi automatico, abitudinario, svincolato dal fornire significato a quanto si dice, ma che conserva una certa musicalità annoiata come di ronzio. I silenzi e gli intervalli sono anch’essi sapientemente dosati come in un linguaggio musicale, così come il gesto e il movimento che danno l’idea di un rito ma di color funereo.
Se Perché sei qui?, spettacolo che costituisce la terza parte di una trilogia prodotta dalla Societas intitolata Il regno profondo, è opera che agghiaccia di comicità fredda e tagliente, La gioia di Pippo Delbono, primo suo spettacolo senza Bobò, è invece un percorso caldo e commosso verso quell’attimo che sospende la pena, un istante di suprema grazia fragile come lo sbocciare di un fiore, accolto dal pubblico torinese con un lunghissimo applauso e una standing ovation.
Cos’è la gioia? Questa la domanda a cui si può rispondere solo in maniera personale e senza la supponenza di aver sicura e pronta una risposta. Pippo Delbono ci racconta il suo viaggio, compiuto con gli attori della sua compagnia, un cammino lungo costellato di ricordi, di perdite, di ombre e dolori, di faticose risalite da pozzi bui, di incontri illuminanti e radiosi, di profonde disperazioni vinte grazie all’amore. La gioia ricorda in ogni istante come il cielo possa caderci in testa in ogni momento, come ogni vita sia fragile e debole di fronte alle forze che congiurano contro di essa.
Il viaggio di Pippo Delbono diventa per questo universale perché ognuno di noi vede in quelle morti, in quei dolori il proprio calvario, si riconosce e, privo di difese e scetticismi intellettuali, si commuove.
Una zolla d’erba è la prima immagine. Nelson Lariccia appare con un innaffiatoio e la irrora. E poi il buio. Ed ecco che sorge un primo fiore, e poi un altro, infine un giardino. Il tema è tutto in questo primo quadro: lo sbocciar dei fiori dalle lacrime.
Il cammino è tortuoso, bisogna attraversare inferni per giungere a un attimo di paradiso, il seme deve morire e con sforzo spaccare la terra per elevarsi al cielo. Ed ecco scendere dall’alto sbarre di ferro a formare una gabbia intorno a Pippo Delbono, e figure oscure, vampiresche e demoniche invadono la scena percossa da una martellante luce strobo.
Il viaggio è quello di uno sciamano il cui corpo e anima devono essere fatti a pezzi per essere ricomposti da capo. Uno scendere all’Ade verso le ombre dei morti per incontrarli una volta ancora. I ricordi affollano la scena, gli incontri con Bobò,la cui vocina da uccellino risuona nuovamente sulla scena, con Gianluca Ballaré, con Nelson nelle strade di Napoli, con Pepe Robledo che da ormai trentacinque anni condivide il viaggio teatrale con Pippo. E i frammenti degli spettacoli: le barchette di carta diItaca, oggi tristemente più attuali e presenti che mai, i clown di Guerra, la panchina su cui Pippo e Bobò erano Vladimiro ed Estragone in Barboni. In questo rimembrare tutto personale, in questo turbinare di figure che si affollano intorno a Pippo Delbono c’è una spasmodica e tutta umana ricerca della gioia, un condividere il dolore per superarlo, un con-patire che permette di rompere quelle sbarre di disperazione per far sorgere uno straordinario giardino fiorito (opera del floral designer Thierry Boutemy) che nasce appunto dalle foglie morte, immagine finale che si riallaccia, in circolo chiuso e compiuto, con quella dell’inizio.
Vent’anni fa giovane studente di teatro a Venezia ebbi la fortuna e l’onore di essere assistente di Pippo Delbono nella produzione di Her Bijit, spettacolo itinerante nell’Arsenale durante la Biennale di Venezia del 1999. In quell’occasione un giorno, in uno dei rari momenti di pausa, chiesi a Pippo, da studente ansioso di strappare dei segreti al maestro, cosa animasse il suo teatro. Mi rispose, dopo un lungo istante di silenzio, che era il suo modo per esorcizzare il dolore e la paura della morte condividendoli con gli attori e con il pubblico. Quelle parole mi sono tornate alla mente mentre assistevo a La gioia e penso, allora come oggi, che questa è la forza del teatro di Pippo Delbono: la capacità di creare una comunità di persone, in scena e in platea, che condividono una pena e tramite la scena la superano. Anche laddove le immagini possono apparire ingenue, semplici fino alla banalità, esse assumono sempre una delicata sostanza poetica capace di irrompere nei cuori più induriti e aprire loro una via di fuga al dolore.
La gioia forse in fondo è questo: un lungo e difficile percorso di superamento dello strazio e del tormento per godere, magari per un solo istante colmo di commozione, della fragilità e bellezza della vita. E in fondo, come diceva Artaud, il teatro è appunto uno strumento che ci ricorda di come tutto congiuri contro la vita, quel delicato fiore che si erge contro la tempesta e destinato a perder la sua battaglia per essere portato via dal vento.
Chiara Guidi e Pippo Delbono aprono dunque la ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi con due opere diverse per intenti e temperature emotive ma altrettanto potenti. Un debutto di festival di grande intensità con i lavori di due maestri del teatro italiano capaci di toccare, scuotere e commuovere il pubblico.
Ph: @Andrea Macchia