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Les Printemps de Sevelin

Danze della primavera: Les Printemps de Sevelin

A Losanna, città della Svizzera francese affacciata sul Lago Lemano, la primavera è salutata da oltre vent’anni da un interessante festival internazionale di danza, Les Printemps de Sevelin, organizzato dal Théâtre Sevelin 36 e dal suo direttore Philippe Saire.

Il Théâtre Sevelin 36 si trova nel quartiere Flon, situato nel centro della città e oggi cuore pulsante della vita notturna e culturale di Losanna dopo il recupero dal declino industriale negli anni ’90. I grandi magazzini e opifici sono oggi diventati locali notturni, discoteche, teatri, gallerie d’arte e studi d’artista frequentati fino tarda notte.

Les Printemps de Sevelin è un festival dedicato alle nuove e giovani tendenze nella danza contemporanea, e affianca agli spettacoli una serie di appuntamenti quali aperitivi filosofici, workshop e incontri, offrendo al suo pubblico uno sguardo trasversale su quanto avviene nella ricerca del corpo in movimento e miscelando con sapienza nomi riconosciuti nel panorama internazionale come Jan Martens, Pietro Marullo e Arno Schuitemaker, con artisti giovani, come Simon Crettol, che presentano le loro prime sperimentazioni (per chi volesse consultare il programma rimando a questo link https://www.theatresevelin36.ch/fr/programme/festival/ ).

Interessante il processo di audience development messo in atto dalla direzione del teatro che ha coinvolto negli anni le scuole superiori, quelle di danza locali e la Manufacture Haute école des arts de la scène, azione che ha permesso la costruzione di un pubblico prevalentemente giovane (la maggioranza ben al di sotto dei quarant’anni) che frequenta le attività con costanza e assiduità.

Durante la mia visita al festival ho potuto vedere tre lavori molti diversi: Likes di Nuria Guiu Sagarra, Raphaël di Simon Crettol e If you could see me now di Arno Schuitemaker.

Likes di Nuria Guiu Sagarra, giovane danzatrice e coreografa catalana, indaga da un punto di vista antropologico il significato, il valore e il potere che il Mi piace sui social assume nella nostra vita quotidiana. Nuria Guiu Sagarra ha osservato due fenomeni come la Cover Dance, termine che indica la riproposizione in video tutorial di coreografie presenti nei video musicali, e lo Yoga-tutorial in tutte le sue infinite ed esotiche varianti come lo yogagoat, yoganude, yagolates (mix di yoga e pilates), yogabeer, etc. La performance inizia con la presentazione del punto di vista antropologico: osservare e partecipare. La danzatrice quindi racconta la sua ricerca e mostra al pubblico, con intelligente ironia, alcuni passi di danza tratti da video di cover dance e di yoga.

Questo materiale diventa quindi l’elemento costitutivo di una nuova coreografia, una creazione che si sviluppa a partire da questi elementi già pre-approvati dall’audience sulla rete e si pone una domanda: come può questa coreografia riconquistare i tanto agognati likes? Quali sono gli elementi che conducono a una diffusione capillare sulla rete? La questione è capitale soprattutto rispetto a ciò che tradizionalmente si è portati a considerare come arte e sui potenziali metodi di diffusione della stessa. Per ottenere i likes e quindi essere conosciuti e riconosciuti bisogna per forza abbassare i livelli, essere estremamente semplici da divenir banali o utilizzare ammiccamenti erotici? La popolarità si conquista solo attraverso la riproposizione del già visto? Il corpo, soprattutto quello femminile. può essere solo strumentalizzato come bene di consumo? Con ironica leggerezza Nuria Guiu Sagarra presenta nel suo lavoro pericoli, possibilità e fascinazione della ricerca spasmodica del Like, ossessione che nasconde l’antico e sempre attuale bisogno di amare ed essere amati. Lo spettacolo sarebbe forse più efficace se coinvolgesse il pubblico nell’esperimento (per esempio se i like fossero messi dal vivo) invece di relegarlo in posizione di passivo osservatore.

Simon Crettol, artista giovanissimo che proviene dalla scena Waaking e Hip Hop e da poco diplomatosi alla Manufacture, presenta Raphaël, opera acerba sebbene contenga elementi di grande energia e immagini ben costruite. Simon Crettol evoca la femminilità che abita il suo mondo interiore attraverso forme ibride tra performance art, antiche ritualità e street dance. Un’esplorazione frammentaria della parte femminile della propria personalità che necessita ancora di raffinazione e di una matura costruzione drammaturgica.

If you could see me now di Arno Schuitemaker è un’esperienza ipnotica, quasi mistica, in cui ii confini tra l’io e gli altri tendono a confondersi e a sbiadire attraverso la danza e la musica da club. Tre danzatori sulla scena iniziano a danzare sul ritmo ossessivo di musica elettronica dando vita a un’onda che coinvolge il pubblico in sala. I corpi in movimento, benché unici e particolari nelle movenze e nei passi, diventano come un unico organismo che palpita, si spande e si contrae al ritmo dei beats. Il tempo e lo spazio si dilatano e si comprimono, l’energia si propaga, la percezione di modifica come in una seduta di ipnosi collettiva. If you could see me now è una sorta di immersione nell’attimo presente, istante che sembra statico pur nella sua eccessiva dinamicità, quasi una bolla in cui le lancette del tempo sembrano immobili. Elemento fondamentale, come spesso accade per i lavori di Arno Schuitemaker, il disegno luci che dipingere spazi sempre diversi, crea ritmo e interagisce con il movimento dei danzatori potenziandolo.

Questi i tre lavori visionati che, pur nella brevità del racconto, danno un’idea, seppur parziale, dei differenti linguaggi e ricerche coreografiche che il Festival offre allo sguardo dei suoi spettatori. Les Printemps des Sevelin è un evento fresco, rivolto principalmente ai giovani e una programmazione che non si limita a essere semplice vetrina, ma vuole presentarsi come luogo di incontro e scoperta sociale e artistica, e che intende il teatro come ambiente in cui la comunità si confronta attraverso l’azione coreutica su temi e questioni che la attraversano.

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SPECIALE INTERPLAY – ODE TO ATTEMPT di Jan Martens – PROMETEO: IL DONO di Simona Bertozzi

L’azione scenica è sempre un tentativo, un audace camminare sul filo del fallimento ponte, tra un luogo certo e comodo e un obbiettivo non sempre definito e che non conduce veramente a qualcosa che potremmo definire successo. La vita è sempre altrove in arte. Quanto un lavoro finisce, si esaurisce, ci si spinge un po’ più in là verso un altrove avvolto nella nebbia. Quello che è fondamentale nel tentativo artistico è la necessità del procedere.

Faccio una citazione: «Per me non si tratta tanto di lasciare che qualcosa emerga spontaneamente. Non è solo lasciare che venga a galla qualcosa. Certo, questo è un processo, ma bisogna vedere che tipo di processo è; ci si dovrebbe domandare: “Bene, è emerso qualcosa da me, ma ha delle qualità?”. Ovviamente non basta affermare che l’arte è un processo che chissà come scaturisce da me, quasi lo vomitassi, perché quello che emerge potrebbe benissimo essere una falsità». Quello che parla è Joseph Beuys, in un intervista dedicata alla domanda: cos’è l’arte? E questo suo pensiero mi è riaffiorato alla memoria ieri sera nell’ultima serata di Interplay vedendo i lavori di Jan Martens e Simona Bertozzi.

Nel lavoro di Jan Martens, Ode to attempt, titolo peraltro bellissimo, il giovane danzatore/coreografo si consegna alla scena seguendo una lista di compiti precisi. Tredici esperimenti o tentativi di definire se stesso, o rappresentarsi, agendo sulla scena utilizzando non solo la danza ma anche il proprio laptop come interfaccia. Tutto diviene un tentativo: iniziare un movimento, definirlo meglio, renderci edotti di quanto sta succedendo, mandare un messaggio alla/al suo ex, essere classico o minimal, ringraziare i morti viventi, trovare un finale kitsch ma carino, perfino inchinarsi al pubblico. Tutto quindi è sospeso nella parola tentativo, tutto è provvisorio, fragile. L’ironia rende tutto gradevole e leggero. Eppure la domanda di Beuys mi rimbombava in testa. Nonostante movimento e immagini fossero gradevoli, ben costruite, nella testa ronzavano le parole di Beuys come palline nella roulette.

A seguire il lavoro di Jan Martens, quello di Simona Bertozzi, Prometeo: il dono. Ho cominciato a gustare la danza, un filo inquietante, con ritmi a volte forsennati, con movimenti a volte in bilico verso il fallimento, tra sincronia e negazione della stessa, in un intreccio evocativo e emozionante tra i tre interpreti, quanto ho smesso di chiedermi cosa c’entrasse Prometeo in quello che vedevo. Ho goduto del movimento, del suo sviluppo nello spazio, nello sforzo dei muscoli per battere la gravità, nell’espandersi in linee e figure nel quadrato nero della scena. Colpa mia! Ho seri problemi quando mi mettono davanti al simbolico. Lo detesto perché chiude lo sguardo, perché obbliga a cercare un significato, una corrispondenza precisa, a giocare al rompicapo con il senso. É in gioco la libertà di interagire con quel qualcosa che prende forma davanti a te, che ti interroga con la sua presenza anziché invitarti a un gioco. Preferisco quando l’immagine è aperta, vogliosa di metamorfosi, di vestirsi di infiniti sensi, più che divenire maschera di un solo o pochi prescelti significati.

Onestamente poi il taglio delle verdure finali non l’ho proprio capito. E quindi ribalto la domanda fatta in scena durante l’esecuzione di questo Prometeo: della necessità chi è che tiene il timone? Certo posso leggere sul programma di sala sul dono di Prometeo all’umanità, quella capacità di creare, di forgiare, di coltivare e costruire. Ma non l’ho visto. Ho visto una bellissima danza. Ho visto il suo sviluppo, l’interazione tra gli interpreti, il sapiente uso del ritmo e delle pause, e ne ho goduto, ma Prometeo non l’ho trovato se non fuorviante. E se la gioia di vedere quel che ho visto fosse il senso del lavoro l’avrei trovato con o senza Prometeo.

E quindi torniamo a Beuys. È necessario capire sempre più se quello che emerge da un lavoro sia valido, se sia o meno necessario, se abbia un valore. E andrei anche un po’ oltre: mi chiederei anche se la self-expression sia un valido motivo per avviare un processo artistico. Qual è la funzione del fare scenico? Tornare a ragionare sulle funzione dell’agire e non solo su materiali e tecniche trovo diventi sempre più pressante. Se negli anni ’60 e ’70 questa domanda era fin troppo sviscerata, oggi si corre il rischio opposto di non porsela per nulla e di fare per fare.

Lavori ineccepibili dal punto di vista tecnico/formale peccano di cedevolezza funzionale, non sembrano per nulla urgenti, paiono qualcosa di legato solo all’artista in scena e non a un uditorio che resta divertito ma indifferente. La funzione attiva l’interazione, non l’estetica, non la comunicazione, ma la presenza necessaria e ineludibile.