La tempesta di Giorgione, proiettata sul fondale, accoglie lo spettatore in questa Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani per la regia di Michele di Mauro, in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi.
Nel dipinto vi è racchiuso molto del significato di questo lavoro di Massimo Sgorbani. Una donna quasi interamente svestita allatta un bambino e rivolge il suo sguardo verso l’osservatore. A sinistra un uomo appoggiato a un bastone, che solo apparentemente sembra una lancia, guarda la donna. Tra i due, una coppia di colonne spezzate. Nella parte alta del quadro, le mura di una città su cui incombe una nuvolaglia nera scossa da un fulmine. La tempesta sta arrivando.
Il dipinto del Giorgione è una delle opere più enigmatiche e misteriose della storia dell’arte, e in questa sede non interessano le sue svariate interpretazioni, quanto le sue implicazioni rispetto all’opera di Massimo Sgorbani: una donna osserva ed è osservata, quasi completamente nuda, mentre alle sue spalle si sta scatenando la violenza degli elementi. Il quadro è stato dipinto con tutta probabilità immediatamente prima dello scoppio della Guerra della Lega di Cambrai nel 1507. Le forze dello scacchiere italiano stavano coalizzandosi contro Venezia. La guerra stava per scoppiare.
Resta un altro elemento da segnalare prima di analizzare l’allestimento di Michele Di Mauro interpretato da Matilde Vigna: le memorie mistiche di Angela da Foligno, morta nel 1309. Le sue estasi mistiche parlano di un amore di Dio che squarcia il corpo della santa, lo strappa in pezzi, ne disperde le viscere. L’amore che squassa il corpo, la divinità che usa violenza era già dei greci per i quali l’intervento divino era sempre assimilabile allo stupro.
Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è un trittico di canti con protagoniste tre donne: una prostituta kossovara, una kamikaze palestinese, e Angela da Foligno che nel testo di Sgorbani precede e nell’allestimento di Michele Di Mauro chiude.
Tre donne, tre esperienze mistiche. Le due donne contemporanee vivono la tempesta della guerra, ne subiscono nella carne le violenze: una costretta alla prostituzione, giovane madre di un figlio avuto da un soldato delle forze di pace, abbandonata e a sua volta costretta ad abbandonare il bambino; la seconda sterile, ripudiata dal marito, infermiera di bambini deturparti dalle ferite di guerra, che diventa kamikaze per divenire santa al cospetto del profeta.
Violenza, tempesta, e lo sguardo perforante di un uomo, che le spinge ad intraprendere un percorso violento e mistico. Lo sguardo che fa violenza è di tutti, è nostro come pubblico e come società, ma è anche del teatro che è pur sempre Teatron, il luogo da cui si guarda.
L’allestimento di questo testo di Massimo Sgorbani, duro, feroce, in qualche modo brutale sceglie l’abbondanza quasi bizantina. Una vera proliferazione di segni, di immagini, oggetti, e musiche che ingombrano la scena saturando la retina dell’osservatore. La violenza dello sguardo combattuta con la sovrabbondanza dei segnali.
Da una parte un testo che disegna un trittico violenza che diventa porta per una beatificazione controversa, dall’altra una scena barocca, densa quasi come un film di Greenaway. Due linee compositive che si aggregano in una fitta armonia che in alcuni casi diventa ridondanza di segnale.
L’interpretazione di Matilde Vigna è convincente, commovente, senza mai cadere nell’affettazione accademica. Vi è un che di naturale, credibile nel suo dire che è pur sempre poetico, di tono elevato e lirico, mai superficiale. Al suo fianco una sorta di servo di scena, che all’inizio, come l’uomo nel dipinto di Giorgione guarda la donna, a fianco della scena, con un lungo spazzolone al fianco, e che per tutta la durata dello spettacolo, diventa servo di scena e occhio che guarda all’interno della rappresentazione.
Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è, nell’allestimento di Michele Di Mauro, un teatro di parola e di testo con una regia che prova ad affiancare all’opera drammaturgica un linguaggio scenico che agisce in armonia provando a non essere didascalico non sempre riuscendoci. Benché sia comprensibile il cumulo di segnali in relazione alla violenza visiva, si sente in molti punti la necessità di asciugare e raffinare. Sembra, in alcuni tratti, una scena in perpetuo affanno rispetto al testo, un tentativo di riuscire a stargli alla pari.
Causa di beatificazione è comunque un lavoro intenso, che pone molte domande volutamente lasciate aperte e senza risposte. Quello compete al pubblico, alla sua riflessione. È l’occhio che vede che modifica il reale, è l’occhio che vede che ferisce ciò che viene visto. A lui l’onere di interpretare o, meglio, comprendere ciò che graffia e lacera.