Con questa piccola recensione esco un po’ dal seminato, un’incursione anomala in un territorio non mio. Più che un recensione è un gesto di ammirazione per l’attività di un musicista che ha ampliato notevolmente il repertorio gettando uno sguardo in luoghi e periodi storici di solito trascurati se non negletti.
Sto parlando di Jordi Savall, un instancabile ricercatore che in ogni suo concerto o registrazione riesce a formare un immagine di un tempo e di un luogo nascosto dalle cortine fumose della storia. Che siano le tradizioni musicali dei catari, o le musiche di corte degli Aragona di Napoli, o le musiche della Spagna della Reconquista, non si ascoltano solo dei suoni ma si riesce a vedere la vita che animava epoche lontane. Come in una sorta di teatro immaginario l’ascolto stimola una visione.
È il caso del concerto andato in scena al Teatro Ponchielli di Cremona nell’abito del festival Monteverdi e dedicato al Libro della scienza della musica di Dimitrie Cantemir, il voivoda moldavo ostaggio alla corte del Sultano nel periodo a cavallo fra Sei e Settecento. Cantemir divenne uno dei più eminenti intellettuali nell’Impero Ottomano di cui scrisse una monumentale storia, la prima in latino per cui è noto tutt’ora. Fu compositore e musicologo instancabile arrivando a raccogliere e trascrivere centinaia di manoscritti musicali di provenienza turca, armena, ebraica, latina, slava e mediorientale. Il frutto di questo lavoro di ricerca certosina è il Libro della scienza della musica di cui Jordi Savall ci ha offerto in dono un piccolo e sublime saggio.
Ma come detto i concerti di Savall non sono solo un buon pasto per l’ascolto, sono atti che tracimano dal loro contesto specifico. Sono gesti di intensa politica culturale e non solo. Conferma di queste mie parole è l’introduzione fatta da Savall ai bis alla fine del concerto dove mostra con disarmante semplicità come un unico disegno melodico attraversi e unisca tutte le civiltà del Mediterraneo: una ninna-nanna sefardita diventa un danza greca, e poi una musica turca, per divenire un canto gregoriano o una danza berbera. Chi è stato il primo? Chi può dire questa melodia mi appartiene? Tutti e nessuno, perché nonostante le guerre e le divisioni, il Mediterraneo è un crogiuolo di culture unite da origini comuni in perenne permutazione e comunicazione.
Istanbul stessa, capitale turca con il nome greco, (‘s tin polin ossia: la città), dai Greci chiamata Costantinopoli, nome però usato dai nemici Arabi e dagli odiati Latini, è città crogiuolo di razze e culture, fiorita proprio perché crocevia di diversità. Ne è esempio lampante il concerto i cui brani tratti dal libro di Cantemir provengono dalle più sperdute regioni dell’Impero, dalla Persia, al Marocco.
In un periodo storico come quello odierno dove la diffidenza verso l’altro e il diverso supera i livelli di guardia, dove più paesi invocano una sorta di isolazionismo, di separazione, evocare questi paesaggi sonori costituiti di permeabilità, incontro, persino fusione, è atto non banale e di certo coraggioso. Per tutti coloro che pensano che la cultura sia solo una forma di enterteinment leggero, fatto per sviare dalla durezza della vita quotidiana, si ricredano. La cultura è aprire gli occhi sulla verità e la vita, e questo sguardo è sempre più necessario per sfuggire agli orrori, alle segregazioni e agli egoismi che sempre più prendono forza sulla scena della storia odierna.