Dal 2 al 5 maggio, tra Modena, Castelfranco Emilia e Gombola, si è svolta la settima edizione di Trasparenze Festival, dal titolo: muovere utopie. Negli ultimi anni la parola festival, che indica una festa e una rassegna a tema culturale, ha assunto non tanto nuovi significati quanto un riassestamento delle sue funzioni, processo questo ben lungi dall’essere terminato.
L’idea tradizionale di vetrina di spettacoli seppur permane soprattutto nei grandi eventi, viene sempre più sostituita nelle manifestazioni medio piccole dal convincimento che il festival sia soprattutto un momento e un’occasione in cui il teatro e le arti performative incontrano le comunità che le ospitano e si relazionano con il tessuto sociale.
Il festival diventa quindi uno strumento per intessere relazioni, non nel senso delle public relations, quindi con un fine utilitaristico, quanto piuttosto un recupero dell’idea di agorà, di luogo aperto al confronto e al dibattito, dove le anime di una polis, non necessariamente geografica e stabile, ma anche temporanea, ideale, utopistica forse, si possono confrontare e pensare evoluzioni impreviste.
Tale evoluzione, come detto ben lungi dall’essere terminata, è stata causata da più fattori: l’evoluzione del pubblico, stanco di essere un semplice occhio passivo e desideroso di essere maggiormente coinvolto; la presa di coscienza degli operatori dello scollamento avvenuto tra la società e la cultura e quindi dell’inutilità di una proposta legata semplicemente alla visione, al mostrare senza affiancare una riflessione e un incontro che riavvicini la comunità al teatro, non inteso come luogo fisico quanto piuttosto come piano immaginario e sperimentale; infine la richiesta dei maggiori finanziatori, oggi le fondazioni bancarie, di pensare luoghi che coinvolgano sempre maggiori categorie di pubblico, riflessione questa non sempre disinteressata.
La società come comunità e la relazione tra artisti e cittadini diviene dunque il centro dell’interesse dei festival e le strategie messe in campo sono molteplici, non tutte sempre efficaci, non tutte sincere. Trasparenze Festival si distingue nel panorama nazionale per un’effettiva ricerca di uno spazio di incontro tra l’arte del teatro (termine inteso nel senso più ampio possibile) e il territorio in cui opera e la società che lo abita, soprattutto nei riguardi delle categorie meno protette: detenuti, anziani, richiedenti asilo, disabili. Inoltre Trasparenze Festival cerca di smuovere il pensiero e la riflessione all’interno della comunità teatrale stessa, cercando di ripensare le modalità di creazione, riflettendo sul significato dell’atto creativo in sé.
Ogni agire comporta pregi e difetti, pratiche emendabili e perfettibili, penso soprattutto al Progetto Cantieri che intende promuovere un periodo residenza creativa non finalizzata alla restituzione di un prodotto ma all’indagine del momento zero della creazione artistica e che potrebbe essere magari maggiormente espanso nel tempo e forse allargato al pubblico e alla critica in maniera più integrata. L’agire però si distingue nelle intenzioni, nel promuovere pratiche virtuose, perché oggi è proprio nelle pratiche che il fare artistico e culturale porta la sua diversità e le sue utopie, e sotto questo aspetto Trasparenze si differenzia per la responsabilità e sincerità.
Un esempio è il tentativo operato dal festival di attivare un progetto di residenze artistiche che coinvolge la comunità a rischio spopolamento della piccola frazione di Gombola, nel comune di Polinago sull’appennino. Purtroppo a causa di una tempesta di neve fuori stagione il programma previsto il 5 maggio, che prevedeva una camminata poetica accompagnata dalla voce di Ermanna Montanari, lo spettacolo di Abbiati Una tazza di mare in tempesta, La delicatezza del poco e del niente di Roberto Latini e l’incontro cantato del Collettivo Hospites di Mario Biagini è stato annullato ma certo rimane nelle intenzioni e speriamo che nelle prossime future edizioni del festival tutto ciò possa essere realizzato.
L’afflato utopistico di Trasparenze Festival e del suo direttore Stefano Tè si manifesta in tutta la sua luminosità soprattutto nel progetto Moby Dick, spettacolo urbano che si avvale della drammaturgia di Giulio Sonno e che coinvolge bambini, detenuti, richiedenti asilo, attori e musicisti professionisti. Moby Dick è una produzione più vicina agli allestimenti di un grande teatro d’opera e quasi impossibile per una compagnia indipendente come quella del Teatro dei Venti. Stefano Tè ha però fortemente creduto nella sua realizzazione ed è riuscito insieme ai suoi collaboratori a rendere reale questa immensa nave che diventa balena e abita le piazze.
Un carro palco enorme che, come il Pequod, la nave di Achab nel meraviglioso romanzo di Hermann Melville, diventa una comunità ideale che solca i mari sfidando la sorte per la realizzazione di un progetto impossibile. Come spiega Giulio Sonno, il libro di Melville è attraversato dalla crisi del trascendentalismo americano che vede minato il sogno della democrazia partecipata. Ecco dunque che lo scontro tra Achab e la balena bianca assume un significato politico, nel conflitto tra l’idea di democrazia e la società di massa prefigurata nel Leviatano di Hobbes.
Lo spettacolo vede la grande nave trainata in piazza. Sulla tolda l’equipaggio percuote le grosse botti vuote che ospiteranno l’olio di balena. La nave issa gli alberi e le vele, si trasforma in balena, diviene essa stessa mostro e si chiude in minore con il monologo di Achab rivolto direttamente alla testa del leviatano, testa attraversato da molte suggestioni testuali, dal Faust di Goethe, al Qoelet, al trentatreesimo canto del Paradiso dantesco.
L’azione scenica ci restituisce la vita di una nave, dove gli attori non fingono d’essere equipaggio ma sono equipaggio e con questo si intende comunità che non simula ma agisce. Il pregio maggiore di questo Moby Dick, che offre al pubblico un’epica e magnifica risoluzione del romanzo di Melville, è quella di saper coniugare una grande spettacolarità con una intensa profondità di senso. Il carro-palco stesso non è solo macchina di fascinazione ma diventa piano ideale per la sperimentazione di una società possibile, e la sua immagine si moltiplica e rimanda ad altre navi ideali che hanno solcato i mari, da quella dell’Antico Marinaio, a quella di Ulisse, a quella dell’Olandese Volante, perfino quella dei grandi navigatori da Colombo a Magellano in mare per scoprire nuovi mondi.
Moby Dick è quindi la migliore manifestazione possibile dell’afflato utopistico che anima il Trasparenze Festival. È l’emblema della sua azione politica volta a creare comunità prefigurando scenari magari improbabili ma decisamente possibili quando si è animati, come Fitzcarraldo da una grande fede.
Ph: @Chiara Ferrin