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Odissea

ULISSE IN CARCERE: ODISSEA DE IL TEATRO DEI VENTI

Lo scorso 27 luglio ha debuttato Odissea de il Teatro dei Venti, un evento teatrale diretto da Stefano Té che ha attraversato le carceri di Castelfranco Emilia e Modena, all’interno di Trasparenze Festival, giunto alla sua IX Edizione dal titolo: Abitare Utopie. Prima di parlare della difficile genesi di questo dramma itinerante, è giusto fare una piccola premessa.

John Cage diceva che un’opera d’arte, una composizione, è paragonabile a una lettera a uno sconosciuto. Si compone, si scrive, si recita per un pubblico che non si conosce e, di conseguenza, in questo vi è un grande margine di rischio. Sarà piaciuto? Sarà capito? Sono i crucci di ogni artista. Oggi infatti l’industria dello spettacolo, volendo fidelizzare il pubblico/cliente, tende a minimizzare questo rischio puntando sul sicuro, sul ripetibile, sul semplificato, per incontrare nuovamente e senza scossoni i gusti già soddisfatti in precedenza. L’arte invece vive di questo rischio, anticipa i gusti, li previene, li sconvolge, li turba e nel fare questo smuove il pensiero di chi guarda. Lo spettatore, in questo caso, è chiunque volge i suoi occhi a ciò che accade sulla scena, sia esso un appassionato, un improvvisato e impreparato visitatore oppure un critico o un operatore. Ciò che importa è dunque la visione e le sue conseguenze, da cui non necessariamente nasce un dialogo una volta che è calato il sipario. Il rapporto, se non in casi eccezionali, è con l’opera, non con l’artista, che scompare dietro la propria creazione.

Per il critico le cose si fanno un tantino più facili, e nello stesso tempo più complicate in quanto si può o scegliere il destinatario o assumersi il rischio, come l’artista, di scrivere per uno sconosciuto. Preferendo questa seconda via si spera nel sorgere di una dibattito intorno all’opera e all’arte attraverso uno scritto che sia nello stesso tempo autonomo rispetto all’opera e ad essa vincolato e relativo. Nel far questo ci si distanzia dalla cronaca dell’evento (da qui l’autonomia) ponendosi in dialogo aperto, facendo scorrere i pensieri che sono sorti nella visione e mettendoli in relazione con l’agire artistico. Detto questo, per chi dunque si scrive una recensione?

Ph: @Chiara Ferrin

Lo scritto che per comodità chiamiamo con questo termine, nonostante sia una parola per nulla atta a racchiudere la complessità del ragionare sul teatro vivo e presente, si rivolge a un pubblico plurimo e variegato. Da una parte a un destinatario sconosciuto, costituito, per esempio, da amanti del teatro, da pubblico potenziale o da spettatori che vogliono confrontare le proprie riflessioni con quelle di un “esperto”; dall’altra si scrive per qualcuno che si conosce bene e con cui si vuole condividere un percorso riflessione al fine di intessere un circuito virtuoso di pensiero sul teatro agito, e tra questi vi sono ovviamente gli autori dell’opera, gli artisti e gli operatori del settore. Da ultimo infine ci può essere un terzo destinatario: uno sconosciuto con cui si vuol avviare una conoscenza e aprire un canale di comunicazione. In ogni caso l’obiettivo non è solo quello di rendere testimonianza di quanto avvenuto, ma soprattutto quello di far nascere un dialogo costruttivo tra le parti un causa: pubblico, artisti, critici e operatori

In questo caso, rispetto a Odissea di Stefano Tè e del Teatro dei Venti, il mio principale interlocutore, coloro verso i quali desidererei sorgesse uno scambio di idee e opinioni, sono gli attori, i detenuti delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Alcune parti di questo scritto sono dunque rivolte specificamente a loro, i protagonisti, visibili seppur nascosti (vedremo poi perché), di questo evento teatrale che non voglio in nessun modo chiamare spettacolo, proprio per rispetto a questi particolari attori. Da dove nasce questo desiderio? Dal fatto che per la natura intrinseca dell’opera, – un viaggio attraverso vari luoghi, tra loro non comunicanti -, lo scambio con gli attori, anche in forma semplice di applauso, non è potuto avvenire. L’ultimo atto dello spettacolo all’interno del Teatro dei Segni, prevedeva la lettura da parte degli attori detenuti di uno scritto che Penelope consegna ad Odisseo. Per la normativa Covid coloro che escono dal carcere al rientro devono scontare dieci giorni di isolamento e per questo motivo la presenza è stata prevista solo l’ultimo giorno di repliche. Qualcuno potrebbe sorprendersi nel sapere che nonostante questo, tutti gli attori che hanno avuto facoltà di compiere l’uscita dal carcere abbiano accettato pur di incontrare gli spettatori. Questa non è stata l’unica difficoltà incontrata durante la lavorazione di Odissea.

Facciamo infatti un piccolo passo indietro e raccontiamo, per sommi capi, l’odissea di questa Odissea, ossia la genesi e la costruzione di un opera che ha attraversato un periodo di ricerca di circa due anni a cavallo di tutto il periodo pandemico, nonché l’attraversamento di difficile momento di rivolta nel carcere di Modena nei giorni tra l’8 e il 10 marzo 2020 e i successivi strascichi (trasferimenti, indagini, etc) di questo drammatico evento che vide la morte di nove detenuti.

Odissea ha dunque attraversato diverse fasi, alcune drammatiche di interruzione totale del rapporto con i detenuti e del successivo lento riannodare i fili di un dialogo, oltre a un ricercare una modalità di lavoro a distanza in cui fosse possibile veramente costruire insieme (Teatro dei Venti e detenuti) un ambiente in cui il teatro potesse sorgere non come surrogato ma come strumento di pensiero in azione.

Un primo frutto di questo lavoro di ricerca ha debuttato nella primavera 2021 sviluppandosi prima in versione filmica come “Odissea Web”, progetto realizzato con i materiali video delle prove da remoto, prodotti nel corso del lockdown, da marzo a giugno 2020 e, in seconda battuta, come progetto radiofonico in dodici puntate su Cosmic Fringe Radio. Infine tra il 27 e il 30 luglio 2021 ha preso corpo come performance itinerante tra i due istituti di pena a bordo di un bus su cui, come su una nave, lo spettatore compie la propria Odissea attraversando soglie e barriere prima di tornare al proprio presente.

Vista la difficoltà di questo percorso sembrava giusto rivolgere alcune considerazioni proprio ai detenuti che hanno vissuto più di tutti tali avversità e complicazioni, uomini come Odisseo segregati nell’isola di Ogigia, luogo separato e sospeso tra il mondo dei vivi e dei morti, lontani dalla propria patria e dalla propria famiglia.

Ph: @Chiara Ferrin

Iniziamo da ciò che distingue un attore ossia l’arte di recitare. Non siamo di fronte a dilettanti benché non si possa nemmeno parlare di professionisti (nel senso di coloro che vivono di questo mestiere). Non si finge né si simula, si è. Si fa qualcosa con tutto il proprio essere senza l’intenzione di imitare qualcosa o qualcuno. L’intenzione tende a scomparire e a tramutarsi in tensione, non quella nervosa di chi non sa stare in scena, ma quella positiva che elettrizza e cattura l’attenzione. Non vi è esposizione di un ego, ma un lasciarsi attraversare dalle figure evocate capaci quindi di raggiungere con forza l’occhio dell’osservatore. Facciamo alcuni semplici esempi: il ragazzo che compie evoluzioni da ginnasta o break dancer alterna virtuosismo e fatica, non fa altro che essere in questi due stati e in questa semplicità si esalta il dramma che incarna; l’uomo coperto di fango, compagno di Odisseo trasformato da Circe, nel suo far niente, nell’essere nient’altro che una statua di fango immobile, esalta la trasformazione, fa sembrare il suo corpo qualcosa di alieno così come il suo tornare alla vita nel momento in cui Odisseo, con l’acqua, cancella il fango. Se a qualcuno venisse in mente che fare il niente in scena sia semplice, non conosce la difficoltà dell’agire e dell’essere attore. Fare niente, semplicemente stare, è forse la cosa più difficile da chiedere. Saperlo fare sotto gli occhi di qualcuno è qualcosa che si avvicina al virtuosismo. Un dilettante non lo saprebbe fare. Infine lo strazio nel grido di Polifemo: «mi hanno accecato, padre punisci», è qualcosa che sa toccare il cuore perché chi lo dice è in quelle parole, non le dice perché scritte in un copione come parte dell’interpretazione di un personaggio, ma si fa attraversare dalla voce che incarna e così facendo raggiunge l’orecchio del pubblico.

Ph: @Chiara Ferrin

Questi sono solo degli esempi dei molti che si potrebbero fare di questi momenti d’arte presenti in Odissea e agiti da attori che ci fanno dimenticare il loro essere dei detenuti, capaci quindi di stare sotto l’occhio del pubblico portando se stessi e le proprie storie nascosti nelle pieghe del personaggio e dando così forza alla maschera di cui si fanno portatori.

Certo manca la tecnica, quella che un professionista acquisisce in anni di lavoro di bottega e di studio, ma l’atteggiamento, lo stare e l’essere in scena, sono quelli di un attore che sa che il suo lavoro non sta nel fingere o nel simulare ma nel far apparire.

Odissea è anche un attraversamento di luoghi, di soglie, di barriere. Quella principale è mentale tra chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere. Ci si ricorda della pena, del reato, mai dell’uomo. Dietro le sbarre si confina ciò che non si vuole ricordare essere presente in tutti noi. Questi attori ci fanno dimenticare le barriere e sarebbe bello pensare che anche per loro, sulla scena, accada lo stesso. Paradossalmente a ricordarci dove siamo e cosa distingue chi guarda da chi agisce sono le guardie: seppur discrete, sono una presenza la cui divisa è l’unico costume a non essere di scena.

Da ultimo questa Odissea del Teatro dei Venti è l’intrecciarsi delle storie di Odisseo e di Penelope, nella collisione e confronto tra l’odissea del viaggio e quella dell’attesa. Non è insolita questa versione. È nota fin dall’antichità. Nel 2019 Pino Carbone e Teatri Uniti proposero su questo tema un PenelopeUlisse alla Biennale Teatro diretta da Antonio Latella. Non è questo il punto. Non è l’efficacia delle idee che importa ma la necessità e l’utilità all’interno di un disegno narrativo e drammaturgico. In questo caso sorprende il finale in cui Penelope prende la scena e affronta Odisseo e le sue narrazioni. Ogni storia ha molte versioni. I greci e i loro miti conoscevano bene la natura della narrazioni. Nessuna più di Arianna ha avuto nelle storie destini, amori e morti diverse, in tutte però resta la Signora del Labirinto. Penelope e Odisseo saranno sempre gli ingannatori, coloro che protetti da Atena, vincono le difficoltà con la metis, la capacità di cogliere l’attimo adattandovisi. Teatro dei Venti ci ha fatto riscoprire proprio questo aspetto del mito: l’essere una pluralità di racconti dai finali mai scontati.

Innumerevoli altre cose si potrebbero dire di questo evento teatrale che impegna il pubblico per molte ore e in molti luoghi. Stefano Tè ci ha abituati alle imprese difficili, se non impossibili. Il merito che ha avuto in questa operazione sta soprattutto nell’aver reso realizzabile il viaggio tra la città e i luoghi di reclusione, attraversando soglie, isole e territori, incontrando visioni e pensieri. Certo ci sono difetti, ma non è la perfezione che importa. Nel teatro che si confronta con la realtà carceraria penso siano tre gli obiettivi primari: ricordarci l’umanità di chi viene recluso e il superamento in chi guarda di quell’atteggiamento buonista, borghese e benpensante per cui anche i meno fortunati e coloro che sbagliano sanno fare delle cose buone. In questo credo che Teatro dei Venti e Stefano Tè siano riusciti pienamente. Il terzo è il più complicato pregiudizio ed è proprio di chi osserva volendo giudicare con malizia e cinismo: il teatro carcere serve a chi lo organizza più che ai carcerati. Su questo mi piacerebbe che rispondessero proprio gli attori che abbiamo potuto vedere sulla scena a Modena e Castelfranco Emilia. Penso che nessuno oltre loro possa arrogarsi il diritto di poter sentenziare sulla questione, per cui concludo queste riflessioni con un invito a loro affinché ci facciano pervenire i loro pensieri su ciò che ha significato il contatto con il teatro nella dimensione carceraria. Spero con tutto il cuore che questo invito possa essere accolto.

Visto a Castelfranco Emilia e Modena il 27 luglio 2021

Odissea

Con Alice Bachi, Vittorio Continelli, gli attori e le attrici delle Carceri di Modena e di Castelfranco Emilia, attori e allievi attori del Teatro dei Venti

Costumi: Beatrice Pizzardo e Teatro dei Venti

Allestimento: Teatro dei Venti

Drammaturgia: Vittorio Continelli, Massimo Don e Stefano Tè

Assistenza alla regia: Massimo Don. Regia Stefano Tè

Una produzione del Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna. Nell’ambito dei progetti Abitare Utopie, co-finanziato dalla Fondazione di Modena, e Freeway co-finanziato da Creative Europe. Il progetto Freeway è realizzato con i partner aufBruch (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e UPSDA (Bulgaria) e promuove la creazione artistica, la formazione, l’audience development e lo scambio di buone pratiche di Teatro in Carcere a livello europeo.

Durata 210’circa

Stefano Tè

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A STEFANO TÈ

Ventinovesima intervista per Lo stato delle cose. Questa domenica si va in Emilia Romagna, a Modena, per incontrare Stefano Tè de Il teatro dei venti.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Il Teatro dei venti è compagnia di grande impegno civile la cui attenzione è rivolta alle fasce deboli della nostra società: i carcerati, i migranti, i disabili mentali e fisici. Stefano tè e Teatro dei venti sono organizzatori del Festival Trasparenze a Modena luogo di incontro e di scambio tra teatro e comunità. Nel 2019 con Moby Dick vince il Premio Ubu per il miglior allestimento scenico e il Premio Rete Critica per per l’organizzazione/progettualità.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A mio parere la creazione artistica ha come aspetto necessario il rischio. Considero un grande problema l’adagiarsi su questioni e soluzioni già investigate. Esiste una zona di conforto nel nostro mestiere, spesso alimentata dai tempi serrati delle produzioni e da un certo timore di uscire da parametri nei quali si è riconoscibili, catalogati. Per questo motivo ho scelto di accostare attori della compagnia e attori detenuti. Per lo stesso motivo prediligo presentare spettacoli in spazi urbani. In entrambi i casi emergono diversi aspetti di rischio. Vi è certamente il tema dell’omologazione ed incasellamento per generi, nel nostro paese soprattutto, ed è questo una prima sfida che amo correre. Superare un certo tipo di aspettativa quando ci si trova davanti ad uno spettacolo in piazza, ad esempio. Sfidare le aspettative lo trovo molto stimolante.

Allo stesso tempo sento una grande attrazione verso quella creazione che sfugge dal mio controllo. Esercito con grande caparbietà un contenimento delle soluzioni in fase di creazione. Cerco di limitare tanto l’improvvisazione durante i miei spettacoli, adottando un sistema di partiture molto precise, spesso definite e contenute dalla musica. Ciò nonostante, per la tipologia di attori e per il luogo nel quale avviene l’azione, l’imprevisto è una presenza costante.

C’è una tendenza naturale all’imprevisto che tiene in tensione il mio rapporto con il mio teatro.

Stefano Tè Moby Dick

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Esiste ancora una atrofizzazione del sistema che dovrebbe sostenere il teatro, soprattutto le realtà più giovani. Ci sono stati sforzi importanti, ma per una realtà artistica è certamente più complesso ora rispetto a decenni fa. Ci sono sostegni che incoraggiano giovani artisti alla creazione di prime opere e progetti, ma latitano ancora prospettive vitali durature, capaci di stimolare e testare chi si approccia al mestiere nel tempo. L’affiancamento dovrebbe durare almeno tre anni, durante i quali le giovani realtà possono sentirsi tutelate, nonostante gli inciampi. E’ necessario a mio avviso una accurata e rigida selezione per evitare gli avventori occasionali del mestiere e avviare poi processi di affiancamento e monitoraggio a giovani compagnie e artisti singoli, per lunghi periodi. Questo monitoraggio andrebbe esteso anche ai non più giovani. Ci si affida troppo spesso esclusivamente ad un ritorno burocratico dell’investimento, ad una prova del lavoro svolto più sul versante amministrativo che artistico. L’efficacia artistica e sociale del mestiere andrebbe monitorata sempre, perché esistono piccoli gruppi di artisti sconosciuti, che non hanno una struttura capace di accogliere importanti finanziamenti, ma che hanno da molti anni un importante ruolo nelle comunità in cui vivono, che si barcamenano e si arrangiano per rientrare in parametri burocratici che non tengono conto della loro esistenza. C’è quindi uno sforzo enorme ed uno sperpero di energia, che queste piccole realtà devono compiere per adeguarsi, contro natura, ai parametri imposti, tenendo conto esclusivamente del teatro che si conosce, che sta nello schema d’azione prestabilito. E’ necessario quindi un costante monitoraggio della realtà.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La questione è soprattutto legata, anche qui, al tema del rischio. Ci sono festival e programmazioni ai quali è impossibile accedere. Vengono proposti e riproposti nomi, spesso provenienti dall’estero, che rivestono con una patina di confortevole lustro i cartelloni. Le realtà emergenti vengono collocate in apposite sezioni, a parte. Così per quel teatro che nella definizione ha un accostamento di rischio. Il teatro sociale sta nei cartelloni di teatro sociale. Il teatro di strada sta nei cartelloni di teatro di strada. Sono pochi gli sconfinamenti e spesso, anche qui, con il conforto del nome conosciuto. Il rischio è ciò che manca. Si crede ancora di risolvere il problema dell’assenza di pubblico con cartelloni confortevoli. Spesso le compagnie più interessanti sono quelle provenienti dall’estero, ma dubito che esista solo altrove una certa qualità da sostenere. Allora i canali di distribuzioni andrebbero ripuliti con coraggio. Ridefiniti i ruoli nel teatro ed i suoi obiettivi.

Moby Dick Ph: @Ilenia Tesoro

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Un evento da viversi, come si vive l’istante qui ed ora, ha una funzione arcaica, semplice. Deve tornare ad essere l’evento pubblico dove è possibile testare l’azione reale. Dove incontrare fedeltà e credibilità di azione e quindi di emozione. L’esperienza di sangue e carne che solo a teatro puoi ritrovare. Questo è possibile se riconduciamo la nostra esperienza d’artisti nelle traiettorie che portano al magico, all’impossibile che si realizza, alla straordinarietà dell’evento, alla meraviglia che risiede nel semplice gesto reale, credibile. Allora ci si deve liberare di orpelli e maniere per ritrovare quel punto di partenza che fa del teatro una esperienza irripetibile. Torno al tema del rischio. Ora più che mai tutto è messo in discussione e la realtà sembra distruggere ogni piano futuro. Ora è necessario innovare la nostra presenza ed è fondamentale riavviare tavoli di confronto su temi anche pratici e artistici. Ora che tutto sembra sfumare resta il desiderio di mettersi in azione e manca come l’aria quell’elemento che rende unico il nostro mestiere: l’incontro reale.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo di aver risposto sopra anche a questa domanda

Trasparenze Festival

TRASPARENZE FESTIVAL: la volontà di muovere utopie

Dal 2 al 5 maggio, tra Modena, Castelfranco Emilia e Gombola, si è svolta la settima edizione di Trasparenze Festival, dal titolo: muovere utopie. Negli ultimi anni la parola festival, che indica una festa e una rassegna a tema culturale, ha assunto non tanto nuovi significati quanto un riassestamento delle sue funzioni, processo questo ben lungi dall’essere terminato.

L’idea tradizionale di vetrina di spettacoli seppur permane soprattutto nei grandi eventi, viene sempre più sostituita nelle manifestazioni medio piccole dal convincimento che il festival sia soprattutto un momento e un’occasione in cui il teatro e le arti performative incontrano le comunità che le ospitano e si relazionano con il tessuto sociale.

Il festival diventa quindi uno strumento per intessere relazioni, non nel senso delle public relations, quindi con un fine utilitaristico, quanto piuttosto un recupero dell’idea di agorà, di luogo aperto al confronto e al dibattito, dove le anime di una polis, non necessariamente geografica e stabile, ma anche temporanea, ideale, utopistica forse, si possono confrontare e pensare evoluzioni impreviste.

Tale evoluzione, come detto ben lungi dall’essere terminata, è stata causata da più fattori: l’evoluzione del pubblico, stanco di essere un semplice occhio passivo e desideroso di essere maggiormente coinvolto; la presa di coscienza degli operatori dello scollamento avvenuto tra la società e la cultura e quindi dell’inutilità di una proposta legata semplicemente alla visione, al mostrare senza affiancare una riflessione e un incontro che riavvicini la comunità al teatro, non inteso come luogo fisico quanto piuttosto come piano immaginario e sperimentale; infine la richiesta dei maggiori finanziatori, oggi le fondazioni bancarie, di pensare luoghi che coinvolgano sempre maggiori categorie di pubblico, riflessione questa non sempre disinteressata.

La società come comunità e la relazione tra artisti e cittadini diviene dunque il centro dell’interesse dei festival e le strategie messe in campo sono molteplici, non tutte sempre efficaci, non tutte sincere. Trasparenze Festival si distingue nel panorama nazionale per un’effettiva ricerca di uno spazio di incontro tra l’arte del teatro (termine inteso nel senso più ampio possibile) e il territorio in cui opera e la società che lo abita, soprattutto nei riguardi delle categorie meno protette: detenuti, anziani, richiedenti asilo, disabili. Inoltre Trasparenze Festival cerca di smuovere il pensiero e la riflessione all’interno della comunità teatrale stessa, cercando di ripensare le modalità di creazione, riflettendo sul significato dell’atto creativo in sé.

Ogni agire comporta pregi e difetti, pratiche emendabili e perfettibili, penso soprattutto al Progetto Cantieri che intende promuovere un periodo residenza creativa non finalizzata alla restituzione di un prodotto ma all’indagine del momento zero della creazione artistica e che potrebbe essere magari maggiormente espanso nel tempo e forse allargato al pubblico e alla critica in maniera più integrata. L’agire però si distingue nelle intenzioni, nel promuovere pratiche virtuose, perché oggi è proprio nelle pratiche che il fare artistico e culturale porta la sua diversità e le sue utopie, e sotto questo aspetto Trasparenze si differenzia per la responsabilità e sincerità.

Un esempio è il tentativo operato dal festival di attivare un progetto di residenze artistiche che coinvolge la comunità a rischio spopolamento della piccola frazione di Gombola, nel comune di Polinago sull’appennino. Purtroppo a causa di una tempesta di neve fuori stagione il programma previsto il 5 maggio, che prevedeva una camminata poetica accompagnata dalla voce di Ermanna Montanari, lo spettacolo di Abbiati Una tazza di mare in tempesta, La delicatezza del poco e del niente di Roberto Latini e l’incontro cantato del Collettivo Hospites di Mario Biagini è stato annullato ma certo rimane nelle intenzioni e speriamo che nelle prossime future edizioni del festival tutto ciò possa essere realizzato.

L’afflato utopistico di Trasparenze Festival e del suo direttore Stefano Tè si manifesta in tutta la sua luminosità soprattutto nel progetto Moby Dick, spettacolo urbano che si avvale della drammaturgia di Giulio Sonno e che coinvolge bambini, detenuti, richiedenti asilo, attori e musicisti professionisti. Moby Dick è una produzione più vicina agli allestimenti di un grande teatro d’opera e quasi impossibile per una compagnia indipendente come quella del Teatro dei Venti. Stefano Tè ha però fortemente creduto nella sua realizzazione ed è riuscito insieme ai suoi collaboratori a rendere reale questa immensa nave che diventa balena e abita le piazze.

Un carro palco enorme che, come il Pequod, la nave di Achab nel meraviglioso romanzo di Hermann Melville, diventa una comunità ideale che solca i mari sfidando la sorte per la realizzazione di un progetto impossibile. Come spiega Giulio Sonno, il libro di Melville è attraversato dalla crisi del trascendentalismo americano che vede minato il sogno della democrazia partecipata. Ecco dunque che lo scontro tra Achab e la balena bianca assume un significato politico, nel conflitto tra l’idea di democrazia e la società di massa prefigurata nel Leviatano di Hobbes.

Lo spettacolo vede la grande nave trainata in piazza. Sulla tolda l’equipaggio percuote le grosse botti vuote che ospiteranno l’olio di balena. La nave issa gli alberi e le vele, si trasforma in balena, diviene essa stessa mostro e si chiude in minore con il monologo di Achab rivolto direttamente alla testa del leviatano, testa attraversato da molte suggestioni testuali, dal Faust di Goethe, al Qoelet, al trentatreesimo canto del Paradiso dantesco.

L’azione scenica ci restituisce la vita di una nave, dove gli attori non fingono d’essere equipaggio ma sono equipaggio e con questo si intende comunità che non simula ma agisce. Il pregio maggiore di questo Moby Dick, che offre al pubblico un’epica e magnifica risoluzione del romanzo di Melville, è quella di saper coniugare una grande spettacolarità con una intensa profondità di senso. Il carro-palco stesso non è solo macchina di fascinazione ma diventa piano ideale per la sperimentazione di una società possibile, e la sua immagine si moltiplica e rimanda ad altre navi ideali che hanno solcato i mari, da quella dell’Antico Marinaio, a quella di Ulisse, a quella dell’Olandese Volante, perfino quella dei grandi navigatori da Colombo a Magellano in mare per scoprire nuovi mondi.

Moby Dick è quindi la migliore manifestazione possibile dell’afflato utopistico che anima il Trasparenze Festival. È l’emblema della sua azione politica volta a creare comunità prefigurando scenari magari improbabili ma decisamente possibili quando si è animati, come Fitzcarraldo da una grande fede.

Ph: @Chiara Ferrin