Ventinovesima intervista per Lo stato delle cose. Questa domenica si va in Emilia Romagna, a Modena, per incontrare Stefano Tè de Il teatro dei venti.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Il Teatro dei venti è compagnia di grande impegno civile la cui attenzione è rivolta alle fasce deboli della nostra società: i carcerati, i migranti, i disabili mentali e fisici. Stefano tè e Teatro dei venti sono organizzatori del Festival Trasparenze a Modena luogo di incontro e di scambio tra teatro e comunità. Nel 2019 con Moby Dick vince il Premio Ubu per il miglior allestimento scenico e il Premio Rete Critica per per l’organizzazione/progettualità.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
A mio parere la creazione artistica ha come aspetto necessario il rischio. Considero un grande problema l’adagiarsi su questioni e soluzioni già investigate. Esiste una zona di conforto nel nostro mestiere, spesso alimentata dai tempi serrati delle produzioni e da un certo timore di uscire da parametri nei quali si è riconoscibili, catalogati. Per questo motivo ho scelto di accostare attori della compagnia e attori detenuti. Per lo stesso motivo prediligo presentare spettacoli in spazi urbani. In entrambi i casi emergono diversi aspetti di rischio. Vi è certamente il tema dell’omologazione ed incasellamento per generi, nel nostro paese soprattutto, ed è questo una prima sfida che amo correre. Superare un certo tipo di aspettativa quando ci si trova davanti ad uno spettacolo in piazza, ad esempio. Sfidare le aspettative lo trovo molto stimolante.
Allo stesso tempo sento una grande attrazione verso quella creazione che sfugge dal mio controllo. Esercito con grande caparbietà un contenimento delle soluzioni in fase di creazione. Cerco di limitare tanto l’improvvisazione durante i miei spettacoli, adottando un sistema di partiture molto precise, spesso definite e contenute dalla musica. Ciò nonostante, per la tipologia di attori e per il luogo nel quale avviene l’azione, l’imprevisto è una presenza costante.
C’è una tendenza naturale all’imprevisto che tiene in tensione il mio rapporto con il mio teatro.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Esiste ancora una atrofizzazione del sistema che dovrebbe sostenere il teatro, soprattutto le realtà più giovani. Ci sono stati sforzi importanti, ma per una realtà artistica è certamente più complesso ora rispetto a decenni fa. Ci sono sostegni che incoraggiano giovani artisti alla creazione di prime opere e progetti, ma latitano ancora prospettive vitali durature, capaci di stimolare e testare chi si approccia al mestiere nel tempo. L’affiancamento dovrebbe durare almeno tre anni, durante i quali le giovani realtà possono sentirsi tutelate, nonostante gli inciampi. E’ necessario a mio avviso una accurata e rigida selezione per evitare gli avventori occasionali del mestiere e avviare poi processi di affiancamento e monitoraggio a giovani compagnie e artisti singoli, per lunghi periodi. Questo monitoraggio andrebbe esteso anche ai non più giovani. Ci si affida troppo spesso esclusivamente ad un ritorno burocratico dell’investimento, ad una prova del lavoro svolto più sul versante amministrativo che artistico. L’efficacia artistica e sociale del mestiere andrebbe monitorata sempre, perché esistono piccoli gruppi di artisti sconosciuti, che non hanno una struttura capace di accogliere importanti finanziamenti, ma che hanno da molti anni un importante ruolo nelle comunità in cui vivono, che si barcamenano e si arrangiano per rientrare in parametri burocratici che non tengono conto della loro esistenza. C’è quindi uno sforzo enorme ed uno sperpero di energia, che queste piccole realtà devono compiere per adeguarsi, contro natura, ai parametri imposti, tenendo conto esclusivamente del teatro che si conosce, che sta nello schema d’azione prestabilito. E’ necessario quindi un costante monitoraggio della realtà.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
La questione è soprattutto legata, anche qui, al tema del rischio. Ci sono festival e programmazioni ai quali è impossibile accedere. Vengono proposti e riproposti nomi, spesso provenienti dall’estero, che rivestono con una patina di confortevole lustro i cartelloni. Le realtà emergenti vengono collocate in apposite sezioni, a parte. Così per quel teatro che nella definizione ha un accostamento di rischio. Il teatro sociale sta nei cartelloni di teatro sociale. Il teatro di strada sta nei cartelloni di teatro di strada. Sono pochi gli sconfinamenti e spesso, anche qui, con il conforto del nome conosciuto. Il rischio è ciò che manca. Si crede ancora di risolvere il problema dell’assenza di pubblico con cartelloni confortevoli. Spesso le compagnie più interessanti sono quelle provenienti dall’estero, ma dubito che esista solo altrove una certa qualità da sostenere. Allora i canali di distribuzioni andrebbero ripuliti con coraggio. Ridefiniti i ruoli nel teatro ed i suoi obiettivi.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Un evento da viversi, come si vive l’istante qui ed ora, ha una funzione arcaica, semplice. Deve tornare ad essere l’evento pubblico dove è possibile testare l’azione reale. Dove incontrare fedeltà e credibilità di azione e quindi di emozione. L’esperienza di sangue e carne che solo a teatro puoi ritrovare. Questo è possibile se riconduciamo la nostra esperienza d’artisti nelle traiettorie che portano al magico, all’impossibile che si realizza, alla straordinarietà dell’evento, alla meraviglia che risiede nel semplice gesto reale, credibile. Allora ci si deve liberare di orpelli e maniere per ritrovare quel punto di partenza che fa del teatro una esperienza irripetibile. Torno al tema del rischio. Ora più che mai tutto è messo in discussione e la realtà sembra distruggere ogni piano futuro. Ora è necessario innovare la nostra presenza ed è fondamentale riavviare tavoli di confronto su temi anche pratici e artistici. Ora che tutto sembra sfumare resta il desiderio di mettersi in azione e manca come l’aria quell’elemento che rende unico il nostro mestiere: l’incontro reale.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Credo di aver risposto sopra anche a questa domanda
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