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Compagnia Ragli

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A COMPAGNIA RAGLI

Per la trentasettesima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Roma per incontrare la Compagnia Ragli. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Compagnia Ragli si occupa di teatro civile e sociale ed è stata fondata da Rosario Mastrota, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona. Ospite dei importanti festival e più volte finalista al Premio Hystrio ha prodotto numerosi lavori tra cui: Salve Reggina!, L’Italia s’è desta, Panenostro, Ficcasoldi, Border Line.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La risposta ad entrambe le domande è: il gruppo di lavoro. Attori, registi, scenografi e tecnici fanno parte della creazione artistica allo stesso modo. Ognuno accresce lo sviluppo con la propria tecnica trasformandola in arte. L’efficacia è corale e appartiene a tutti. Il pubblico stesso deve far parte di questa squadra. Non è importante che comprenda tutto immediatamente ma è essenziale che sappia interrogarsi. Le risposte non sempre servono. Ogni percorso di creazione scenica richiede, a mio avviso, un concatenarsi di relazioni essenziali che determinano la calibratura necessaria, per chi partecipa a questo rito, a soddisfare le personali urgenze

di ciascuno. La propositività determina l’evoluzione. Poi ci sono le storie, indispensabili altrettanto. Noi (Compagnia Ragli) lavoriamo in team, la maggior parte del tempo la dedichiamo all’esplorazione delle possibilità che possono derivare dall’allestimento. Attori e regista si muovono in relazione costruttiva per spianare il campo a scenografi e tecnici. Il risultato finale (lo spettacolo) seppur definito e strutturato ci riserva sempre diversi sentori e diverse reazioni del pubblico. Infatti è sempre costruttivo cogliere alcune letture recepite da un punto di vista inatteso. È capitato, per esempio, durante alcune repliche de L’Italia s’è desta. Al Nord c’era una diversa reazione rispetto al Sud, un tema arcaico come il rapimento (nello spettacolo raccontavamo, mediante l’escamotage della fake news, che la ‘ndrangheta rapisse la Nazionale di calcio a due mesi dall’inizio dei Mondiali) ha visto ilarità spensierata nelle repliche lombarde e timore e imbarazzo in quelle in Calabria.

Compagnia Ragli
  1. Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Istituire una valutazione delle proposte artistiche più pluralista. Libertà e verità dovrebbero essere metro di giudizio inequivocabili, invece troppi vincoli o cavilli tecnici rendono alcuni percorsi più complicati se non impossibili. I tecnicismi non possono valutare l’arte.

In alcuni stati esteri c’è meno settorialismo e all’Artista vengono concesse più libertà per sviluppare l’idee o la poetica, senza il vincolo di parametri o celle di Excel. In alcuni casi di questo processo produttivo italiano si punta alla celebrazione di “nomi” anziché “attori” o di “firme” anziché “storie”. Le residenze creative dovrebbero essere la normalità, un processo del sistema produttivo Italiano, come le fabbriche. Festival e concorsi idem, come Sanremo (in senso di importanza mediatica). Per migliorare il processo, sempre a mio avviso, potrebbe essere funzionale educare la gente al Teatro e alla sua importanza, non all’ammirazione della vetrina che può scintillare se in scena ci sta “quello famoso della tele…” . Da due anni, in collaborazione con Dasud e ÀP Accademia, ci occupiamo del Premio Mauro Rostagno, una manifestazione per spettacoli a tema diritti umani. Non valutiamo su criteri matematici, valutiamo l’energia dedicata dalle Compagnie alla trattazione di temi così delicati. Il nostro riconoscimento (1000 euro) è un atto simbolico per sostenere quelle volontà e legittimarne il coraggio.

Macbeth aut idola theatri, Dalila Cozzolino
  1. La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Non può esserci la distribuzione di un prodotto (creativo) se il prodotto stesso è reputato inferiore a quello di altre arti. Bravi o meno bravi non dovrebbe dirsi degli artisti. Professionisti o non-professionisti nemmeno. L’artista è libero. Chi può dire se è più bravo Van Gogh di Picasso o Carmelo Bene di Vittorio Gassman? Di certo non chi organizza, non chi gestisce la Cultura, non il numero dei C1.

La Critica si avvicina a qualcosa che sta in mezzo a questa decisione ma la missione è troppo nobile, delicata, ardua. Ce ne sono tracce in Italia, per fortuna.

Io cambierei la parola distribuzione con opportunità. Opportunità per la gente di vedere linguaggi di artisti differenti. Le tournée, che bellissimo ricordo di un periodo di grandi sperimentazioni; si arrivava un po’ dappertutto, certo non tutti erano noti ma tutti riuscivano a moltiplicare le opportunità.

  1. La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Per coerenza con quanto detto prima non posso dire cosa è unico e irripetibile e cosa, invece, è sciatto e da evitare. I linguaggi adoperati mutano, è naturale, l’arte si adegua, racconta il presente, vede il futuro e parte sempre dal passato. Uno spettacolo “da remoto”, senza corpi, con occhiali tridimensionali o proiezioni olografiche non andrei a vederlo, ma è un gusto personale. Ma è un’espressione anche quella, non so se è moda o impigrimento o addirittura necessità ma è qualcosa. Tranciare una tela o appendere una banana è un’idea artistica, una visione, esattamente come dipingere la Monna Lisa o creare Amleto. Però io mi ricorderei più nitidamente l’ebbrezza procurata dal monologo della non-follia di Ofelia, di uno spettacolo interattivo; per quel tipo di emozioni posso anche andare in sala giochi o usare una Playstation. Il teatro è fatto di carne. L’unicità della replica (ossimoro per antonomasia) è reale. Seppur ciclico, il teatro vive ogni sera di differenze: emozioni, tecniche, sociali. Il teatro è vivo per questo motivo: perché respira come le persone.

Panenostro, Andrea Cappadona
  1. Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Post -verità, per me, è sinonimo di immaginazione. Io posso immaginare un cavallo con un corno sulla fronte, posso disegnarlo, posso anche mettergli le scarpe e farti credere che esista nel mio garage e ogni sera mangia sushi fino a scoppiare. Ma non è dell’unicorno che ti sto parlando ma di un politico. Trasfigurare la Natura è un’arma innocua che detiene ogni regista, si parte da lì non c’è scampo. L’oggi e il racconto del reale potrebbero sfiduciare se raccontati solo in senso distruttivo, caotico o ipercritico. L’oggi è lì, fuori, alla portata di tutti, raccontarlo in maniera naturalistica non è teatro, diventa reportage. La critica al reale, in senso democratico, spetta alla politica, quella vera. Il teatro non è politico. La resistenza è un atto umano, la guerra è un atto politico. Spero di aver reso il concetto.

Noi (Compagnia Ragli) ci occupiamo di un teatro civile che non ha l’ambizione di educare o modificare le percezioni di nessuno. Proviamo a idealizzare alcuni atti reazionari o di opposizione di personaggi realmente esistiti e li reinventiamo nello spirito dei nostri personaggi. A volte, durante le ricorrenze per esempio, quando si ricorda qualcuno che è stato ucciso o che non c’è più, la pietà prende il sopravvento. Ci si impietosisce, si commemora, si ricorda solo l’affezione spesso dimenticando l’azione. Noi proviamo a scivolare via dal sentimentalismo e, immaginando altri mondi possibili, ricamiamo storie eccezionali a vite o personaggi invisibili.

  • l’atto che ci interessa investigare. La possibilità. La forza che ognuno ha. A volte emoziona tantissimo, altre volte interroga, spesso alimenta discussione, altre volte non piace. Sono solo quattro esempi di possibilità di reagire, ce ne sono altre. Questo ci interessa scoprire.

Uno dei nostri personaggi, Carla, de L’Italia s’è desta, per esempio, vive nel mondo reale ma è capace di vedere molti più mondi possibili, nella sua meravigliosa folle libertà.

Valentino Mannias

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VALENTINO MANNIAS

Per la trentaduesima intervista de Lo stato delle cose andiamo in Sardegna per incontrare Valentino Mannias. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Valentino Mannias si è formato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Nel 2015 ha vinto il Premio Hystrio come migliore attore. Nel 2018 è stato selezionato per l’Ecole des Maitres (a guida Thiago Rodrigues). Collabora con Sardegna Teatro che sta producendo la sua Orestea.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica, come per altre creazioni, credo consista nel suo compiersi esclusivamente in presenza di un pubblico che ne modifica l’essenza.

Ad oggi per me la sua possibilità di essere efficace si misura proporzionalmente alla necessità che riunisce un gruppo di persone, alimentata dallo studio dedicato alle creazioni di altri artisti e al pensiero umano nel corso della storia. Studiando quasi sempre ci si rende conto che non c’è nulla di veramente nuovo se non il proprio stupore e amore per il sapere. Prendendo spunto dal pensiero dell’artista e filosofo Gino De Dominicis, possiamo osservare che veniamo al mondo dopo chissà quanti secoli di storia del teatro, risultando di fatto molto più vecchi di un drammaturgo del VI secolo a.c, nel quale poter scorgere la ricchezza di un incontro politico, spirituale e agonistico ad oggi parzialmente perduto. Pertanto, benché sia stato piacevolmente colpito dall’inserimento del mio lavoro all’interno della “giovane ricerca italiana”, devo ammettere di trovare lo stimolo per creare non tanto nella ricerca di nuove espressioni sceniche quanto nella consapevolezza di quelle già esistenti senza pormi l’obiettivo di rinnovarle. Per scrivere i primi testi teatrali ho ascoltato i racconti dei miei parenti, finché loro sono scomparsi fisicamente e mi sono rimaste le loro storie. In fondo sto facendo la stessa cosa adesso con l’Orestea di Eschilo, in quanto trovo il nostro rapporto col sacro, contenuto anche in alcuni classici, più vivo e necessario di qualsiasi volontà di rinnovamento, offrendo all’arte scenica la possibilità di farci cogliere misteriosamente un senso unitario del nostro essere nella vita e nella morte, di cui la società del nostro tempo non sa parlare se non come esperienze separate.

Valentino Mannias

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Ci sono molti più strumenti ma con molte meno risorse. Questo non provoca solo danni economici al mondo del Teatro ma alla sua stessa natura, creando però le condizioni storicamente ideali per elaborare una nuova gestione delle economie rivalutando un modo antico di intendere la società artistica e teatrale.

E’ evidente per tutti che lo Stato, oltre a quello che già fa, dovrebbe tornare a far Teatro, godendo del suo potenziale umano, politico ed economico. D’altra parte a fronte degli ultimi 70 anni della nostra storia e dopo l’odierna crisi mondiale, è possibile che maturi nella nostra civiltà il desiderio di un confronto tangibile con sé stessa, con la propria vita politica e delle proprie comunità religiose, riconoscendo una certa mancata eticità nella totale sostituzione del virtuale all’essere, e riscoprendo almeno per un tempo limitato la ricchezza di un confronto fisico con la realtà.

Proviamo allora a immaginare insieme un Teatro e una Danza che possano essere utili quel giorno, beneficiando del loro potenziale anacronismo rispetto alla società teatrale odierna. Il MiBACT e il Miur potrebbero nominare ogni anno un certo numero di registi teatrali, cinematografici e coreografi, tra under 35 e non, e invitarli a esprimersi attorno a dei temi di attualità senza limiti di genere e durata offrendo al pubblico la possibilità di partecipare a un evento che offra delle prospettive differenti sui temi e prodotto per l’occasione in grandi spazi delle diverse città a cielo aperto. Ogni opera, laddove fosse previsto il linguaggio verbale, dovrebbe prevedere necessariamente la fruizione in diverse lingue, favorendo così un impatto ad alto flusso turistico atto anche a sostenere i costi. Dando vita a un’olimpiade dell’Arte Scenica Italiana il nostro Paese avrebbe così la possibilità di valorizzare finalmente la propria tradizione artistica agli occhi del mondo e i cittadini avrebbero di nuovo uno spazio ad oggi inesistente dove ragionare dal vivo sul presente della propria vita politica e spirituale attraverso l’arte drammatica, oltre che a beneficiare per gli anni a venire di un prestigioso e innovativo contesto di formazione. La grande rete di “fondazioni bancarie, festival, istituzioni” esprimerebbe così il suo effettivo potenziale convogliando tutte le energie verso un unico grande avvenimento: il Teatro.

Vedendo le cose da una prospettiva realistica possiamo invece notare sistematicamente che ci sarebbe la necessità di più fondi per il teatro, che si potrebbero distribuire con più equilibrio quelli già stanziati nel FUS, che andrebbe sostenuta l’intermittenza del lavoro di un’artista invece di chiedergli di produrre ciò che il mercato non potrà comprare, che l’internazionalizzazione del nostro sistema produttivo e distributivo vede lontana la luce della propria nascita e del proprio sviluppo senza un investimento nella formazione delle adeguate figure professionali, o ancora, che bisognerebbe sperimentare nuove forme di produzione seguendo in altri modi gli artisti, privilegiando il rapporto di una compagnia con una comunità di riferimento e attivando dei percorsi paralleli piuttosto che badare semplicisticamente alla compravendita di uno spettacolo che, come sappiamo, non basta mai a coprire le paghe e le spese di una compagnia. Personalmente sono grato a Sardegna Teatro e a Massimo Mancini per aver potuto realizzare gran parte di quello che ho scritto sopra. Ma se parliamo di migliorare la produzione di Danza e Teatro in Italia dobbiamo riunire interessi pubblici e privati in un’unica visione che riscopra la potenzialità stessa del teatro in un’economia dinamica e sostenibile nell’interesse di tutti. Se si guarda invece al denaro premiando progettazioni con una logica a ribasso, ad ù affondare saranno le idee e con esse, a seguire, l’economia. Finché un grande sogno non genererà un business capace di abbracciare realtà diverse, e di sostenere anche l’economia di quelle autonome che non ne vogliono far parte, per ognuno di noi risulterà innaturale fare un mestiere che non è nato come intrattenimento, ma per essere il cuore pulsante della società civile, l’organo principale che deve battere a prescindere per tenere in vita l’esperienza democratica della collettività, nel bene e nel male.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Ricordando alcuni esempi virtuosi del nostro recente passato credo che in questo momento gli artisti e gli organizzatori teatrali, lavorando insieme, abbiano l’opportunità di pensare nuovamente al senso stesso della distribuzione di un prodotto innescando un sano dialogo tra diversi contesti. A fronte di questo stimolo trovo per esempio che le compagnie, disponendo possibilmente delle figure professionali di riferimento, non debbano più concentrarsi esclusivamente nella vendita del proprio spettacolo in quanto tale, ma ancorarsi sopratutto al perché sarebbe importante distribuirlo in un determinato territorio, studiandone le specificità sociali ed economiche e mettendo in relazione con esse la propria arte come moderne compagnie di giro che fanno tesoro della propria tradizione artistica. L’idea della lunga tournée per come la intendiamo ora è recente e in generale porta con sé una gestione dispersiva delle economie, difficilmente sostenibile. Nel settore gli artisti tendono spesso a considerarla erroneamente solo come una tradizione ideale, un’esperienza preziosa per far maturare il proprio lavoro nel tempo e questo è vero, potrei confermarlo in prima persona. Ma è al contempo importante saper cogliere la possibilità odierna di non mostrare la stessa creazione scenica in due regioni che hanno una storia differente, partendo comunque da una motrice comune. Il processo della creazione acquisirebbe maggiore importanza rispetto alla rappresentazione di per sé, amplificando l’idea di mercato e favorendo un’offerta diversificata al pubblico. In particolare la possibile presenza di quest’ultimo durante il concepimento dell’opera potrebbe offrire anche un’esperienza più interessante rispetto a quella di una creazione scenica agita nelle prove senza l’attore-pubblico per poi “essere mostrata” adesso in occasione di un ipotetico punto d’arrivo.

Un ulteriore aspetto da considerare maggiormente rispetto al secolo scorso è il concepimento di un’opera pensata per un uditorio che non sia solo italiano con la traduzione diretta o indiretta in lingue diverse a partire dal primo giorno di lavoro. Questo riguarda anche le accademie di formazione che non possono più pensare a un’espressione artistica che non prenda in considerazione una dimensione internazionale e la valorizzazione delle diverse lingue e dialetti che convivono linguisticamente nel nostro Paese. Non farlo significa accettare la prossima eredità di queste problematiche nel mercato e rafforzare muri invisibili tra diverse culture. Chiaramente l’elenco delle questioni non si esaurirebbe qui approfondendo comunque

questa linea di pensiero.

In sintesi quello che a cui assistiamo oggi è un modo di fare le cose, già ampiamente

collaudato e che ha dimostrato una relativa efficacia. Ma è evidente che in futuro il criterio che decreterà la fine o la sopravvivenza dei teatri consisterà nella loro attitudine a diventare dei luoghi abitati non tanto dal maggior numero di persone quanto da realtà sempre diverse. Gli artisti che vogliano evitare il solito servilismo alla logica della visibilità televisiva per riempire le sale, dovranno cercare un seguito nelle comunità di riferimento condividendo con esse un’indagine sui temi che le riguardano, prendendo seriamente un’altra strada, diversa e insostituibile. Pensare alla distribuzione in maniera diversa però non riguarda solo degli interventi da attuare “dall’alto” come l’olio su una catena arrugginita, ma cambiare anche nel nostro piccolo alcuni aspetti del modo sclerotico in cui ci siamo abituati a vivere il teatro.

Bisogna cogliere l’opportunità di non ridurre la vita dell’arte teatrale a un qualcosa che “mi è piaciuto o non mi è piaciuto”, che “funziona o non funziona” per un un pubblico che “andrebbe educato” e al quale si chiede solo di “spegnere i telefoni cellulari” e di “stare in silenzio”, un silenzio di lutto per la morte stessa del Teatro che ancora vanta la triste reputazione di essere un luogo per pochi che se lo possono permettere. Probabilmente, insieme alle rappresentazioni, i teatri tornerebbero ad essere invece dei luoghi di interesse per il pubblico, sostenibili per lo Stato, unici e liberati dalla forma mentis per la quale lo “spettacolo” ha vinto in Occidente, ma non l’arte teatrale.

Questa è un’arte sottopagata e svilita, dagli autori drammatici agli attori, perché finché non si farà chiarezza sul perché produrla sprigionando la sua vera luce, sarà di

conseguenza sempre più oscura la ragione per cui la si debba distribuire.

Valentino Mannias

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Mi viene in mente la famosa scena di “2001 Odissea nello spazio” della scimmia che giocherella con l’osso di un tapiro morto finché scopre che ciò che ha in mano può diventare un un’arma per uccidere; e quella di pochi minuti dopo in cui a seguito dell’uccisione di un altro capobanda lancia la clava in aria e questa, roteando nei secoli, diventa una navicella spaziale. Credo che sulle nuove tecnologie in teatro siamo ancora nella fase dei palleggi sperimentali, forse perché non manteniamo abbastanza a fuoco il fine.

A mio parere la creazione scenica nel contesto computerizzato potrebbe avere la chance di utilizzare gli strumenti a disposizione per puntare allo stesso obiettivo teatrale di sempre, a meno che non abbia l’ambizione di inventare una nuova forma d’arte. In altre parole trovo che si possa verificare l’utilità di uno strumento in base a ciò che si intende comunicare con una determinata opera, perché in caso contrario potrebbe impercettibilmente diventare un’arma per ucciderla.

Credo che su questo tema abbiamo recentemente assistito a un esempio storico che voglio prendere come riferimento, la benedizione “urbi et orbi” fatta da Papa Francesco il 27/03/2020. Chiunque, laici, credenti di diverse religioni, agnostici, guardando quel video può percepire il senso di ciò che sta dicendo il Papa in rapporto

al proprio dolore, e le sue parole, le voci che cantavano l’inno eucaristico “Adoro te devote” scritto da Tommaso d’Aquino nel 1264, non perdono la loro potenza espressiva con la fruizione digitale, perché cercano di rispondere profondamente all’immenso vuoto della nostra condizione mortale.

Il procedimento opposto, ovvero partire da una semplice suggestione, ad esempio una generica voglia di utilizzare delle proiezioni, di giocherellare con uno scheletro senza un fine preciso, messo al vaglio del tempo e del confronto con gli altri, può egualmente condurre a una ragione concreta, ma nella mia condizione di quadrumane

teatrale ho sperimentato essere ad oggi una via più lunga, col rischio di compiacersi fin troppo del dubbio sul fine ultimo della nostra arte. Ad ogni ominide il suo randello.

D’altra parte in termini più generici il teatro potrebbe invece avere un approccio conservatore con questa ubriacatura dell’infanzia delle nuove tecnologie continuando

a focalizzarsi sull’incontro della polis, sua eterna essenza. Il mercato non ne sarebbe contento ma in fondo non ne patirebbe neanche perdite così ingenti. Il punto è che sono strumenti e come tali vanno usati se e quando servono.

A questo proposito una volta Pasolini si chiese ironicamente se, per soddisfare la coerenza pretesagli da un giornalista, fosse il caso di fare film per raccontare il suo pensiero critico nei confronti del capitalismo, o di suicidarsi per la dolorosa presa di coscienza che quegli stessi film si servivano della logica capitalistica per essere realizzati. Decise comunque di girare i suoi film e poi sappiamo come andò a finire. Il poeta non rinunciò alla ferma convinzione che la sua arte in questo caso cinematografica, pur servendosi dei mezzi che gli son più propri, dovesse indicare una via di giustizia. Quale sia questa via chiama tutti noi a uno sforzo etico ben maggiore rispetto a decidere se usare o meno delle proiezioni in una scena, ma può illuminare anche questo aspetto facendo chiarezza sul proprio vivere quotidiano. Personalmente trovo l’essenzialità una chiave interessante per la scena e per la vita lasciando all’immaginazione le elaborazioni di senso e di forma di cui per sua natura

è capace.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il dolore e la morte sono reali, l’arte deve rievocarli per ritemprare la vita attraverso una metafora. Quello che viviamo in questi giorni purtroppo o per fortuna può aiutarci a fare il punto su questo tema: il lutto e la sofferenza sono il primo metro affidabile per conoscere il reale. Ma questa realtà sarà oggetto di manipolazioni dei media che ne parleranno in temi bellici, a mio avviso impropri o in termini scientifici, preferibili, cambiando in parte la nostra percezione del problema. Addirittura sarà la mente stessa, come sappiamo, a cambiare subito le carte in tavola, elaborando ciò che stiamo vivendo finché ognuno di noi racconterà di aver vissuto una cosa diversa dagli altri. A questo punto si rivela centrale il ruolo assunto dall’arte che con un atto di volontà creativo, e manipolando comunque la realtà nel perpetrare il suo essere, può aiutarci a ristabilire un contatto con quel dolore per compiere una scelta sulla nostra vita. In questo senso pratico riscopriamo l’utilità concreta di alcuni riti dai quali trae fondamento la nostra arte. Tuttavia, com’è noto, in un luogo deputato alla rappresentazione scenica vi sono delle realtà che precedono ogni creazione artistica e influiscono su di essa: l’ecosostenibilità della struttura, la legislazione dello spettacolo che tuteli i diritti e i doveri dei lavoratori, la lingua parlata in quella determinata città per cui il testo necessita di una traduzione, i finanziamenti adeguati senza i quali la troupe di Friedrich Munro rischia di fermare i lavori a metà riprese etc… Si tratta sempre di danzare e cantare affinché il cielo pianga sulla terra ma in linea di massima il teatro italiano è irreale in relazione a questi temi.

Detto questo, chi parla di circostanze reali senza occuparsi di creare una metafora scenica per raccontarle, a mio parere non consente un incontro col reale a chi partecipa poiché non crea la distanza necessaria per consentirgli di richiamare alla

mente il suo dolore. Chi invece non parla di circostanze reali concentrandosi esclusivamente nella costruzione di una bella forma, non consente un incontro col reale in egual modo perché offre la metafora di un nulla di fatto. Personalmente credo

che valga sempre la pena vivere in teatro un confronto col reale attraverso una metafora che rievochi le ferite da cui siamo nati, che ci caratterizzano e dalle quali poi guardiamo il mondo.

Oyes

VANIA di Oyes: tra immobilismo e rimpianto di una vita che non c’è.

Ieri sera per la rassegna Schegge di Cubo Teatro è andato in scena al Cecchi Point Vania della Compagnia Oyes, recentemente insignita del Premio Hystrio Iceberg.

Vania è ispirato al dramma di Cechov Zio Vania attraverso una riscrittura comune che aggiorna i temi del grande maestro russo a un paesino di provincia italiano. Quattro i personaggi in scena più il Professore, presente in assenza. Di lui solo un suono di respiratore che lo fa né vivo né morto.

La moglie Elena, la figlia Sonia, il fratello Ivan e il Dottore, non stanno meglio di lui. Certo si muovono, sono coscienti, ma sono anch’essi appartenenti a un mondo in cui la vita non è presente se non in un altrove dislocato nel tempo o nello spazio geografico lontano. Questi mondi immaginari sono per tutti il paese dei balocchi, laddove tutto è possibile, dove è realizzabile una qualche felicità.

I quarantenni volgono lo sguardo al passato, la giovane nipote a Londra, la bella Elena guarda ad altri uomini: tutti impossibilitati a trovare quel che cercano nel loro qui ed ora. I personaggi sono bloccati verso una qualsiasi azione efficace, incapaci di contrastare la forza d’inerzia che li trascina a un tetro immobilismo.

In questa riscrittura di Cechov, Oyes mantiene la forza espressiva che promana dai suoi testi sempre rivolti all’emersione del dramma dal piccolo noioso quotidiano. Dolori intensi e struggenti, speranze infrante, illusioni irrealizzabili, amori spenti e disillusi: tutto nel lento chiacchiericcio domestico, nell’agire d’ogni giorno tra una tisana e la spesa, tra un cambio di lenzuola e una sbornia al bar.

I personaggi intorno all’infermo sono anch’essi tutti malati, appestati dal male di vivere senza entusiasmo, illuminati da lampadine che non sono altro che aste da flebo. A turno visitano il Professore, e dalla stanza dedicata al dolore si immergono nel flusso dell’anonimo e scialbo vivere d’ogni giorno.

Non ci sarà evoluzione. Il blocco rimane tra l’aspettare Godot e la rassegnata certezza che mai arriverà.

Quella di Oyes per Cechov è un vero esercizio di ammirazione, frutto di uno studio attento e di una passione costante (altri due i lavori della compagni dedicati alla sua drammaturgia: Io sono il Gabbiano e Anton).

Convincenti gli interpreti: naturali, sebbene forse un po’ raggelati all’inizio, intensi, misurati. Piccola sbavatura solo l’inutile nudo mezzo busto della moglie Elena nel finale.

La riscrittura dosa ironia e dolore, rendendo sopportabile quel cumulo di dolore e immobilismo. Certo non siamo di fronte a un teatro di reale innovazione, soprattutto nella regia e nell’interpretazione.

La regia è appiattita su movimenti orizzontali, con scene chiuse. La recitazione è classica seppur non ammorbata da una dizione falsa come le monete di cioccolato. Benché si sia svecchiato il linguaggio siamo nell’alveo del teatro di tradizione e della rappresentazione.

Vania di Oyes è un lavoro ben costruito dunque, e ben recitato, che tocca l’animo e il cuore del pubblico con una storia che ci appartiene e che ci fa riflettere sulla nostra vita e su quanto siamo in grado di viverla pienamente. Tutto questo con un linguaggio scenico conosciuto, senza ansie avanguardistiche, ma forse un po’ datato e impolverato. Non basta aggiornare un testo per trovarsi di fronte a un teatro contemporaneo.

Benché sia sempre refrattario agli stilemi della rappresentazione classica, di fronte a lavori ben fatti come questo, ne riconosco l’efficacia ma mi domando: non è possibile raggiungere lo stesso effetto sfruttando le conquiste della migliore tradizione del Novecento senza per forza ancorarsi a stilemi funzionali ma stantii? Non sarebbe più auspicabile il coraggio di affrontare modalità più moderne per raccontare a teatro? E ancora: non si commette lo stesso peccato dei personaggi di Cechov nel conformarsi agli stilemi tradizionali, seppur aggiornati, invece di lanciarsi all’adozione di nuove tecniche anche se non conferiscono la certezza del risultato?

Sono domande che mi pongo sempre più spesso e mi piacerebbe vedere più coraggio nei giovani artisti, non tanto nella ricerca del nuovo per il nuovo, quanto nell’emersione di un vero linguaggio scenico moderno, che sfrutti le potenzialità del teatro invece di adagiarsi sul conosciuto sfruttamento di un testo letterario.

Queste sono ovviamente solo mie piccole paturnie. Vania di Oyes è uno spettacolo che funziona e fa pensare e forse questo è già abbastanza.