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MARGHERITA LANDI: quando una critica apre a un dialogo

A lungo mi sono interrogato, e mi interrogo, sul ruolo che sto assumendo come critico, e sulla responsabilità di quello che dico, sulla necessità che non sia un proporre un mio punto di vista, ma che tale sia utile a chi legge e a chi pratica. E questo scritto di Margherita Landi è un dono enorme che mi illumina non poco la strada. Ho seguito il suo intervento a Ricerca X e ne ho criticato più che le conclusioni i metodi, e lei con molta umiltà mi ha scritto chiedendomi spiegazioni. ed è nato un dialogo profondo che si svilupperà in una collaborazione. C’è stata un’interazione che tramite il dialogo perdura e fa crescere il critico come l’artista. E questo è un regalo senza prezzo. Lo scritto che mi ha mandato mi sembra giusto condividerlo, rendere pubblico un dialogo che vorrei estendere su questo blog anche con altri, affinché questo spazio virtuale diventi sempre più un piano di incontro, condivisione e confronto sulle arti sceniche e così dissipare per quanto è possibile quella solitudine di cui parla Margherita.

Enrico Pastore

Quando una critica apre un dialogo

Dopo anni di lavoro sul mio progetto presentato a Landscape of Practice per Ricerca X, leggere l’articolo di Enrico Pastore è stato un duro colpo. La ricerca è un processo molto delicato, che non mi aspettavo sarebbe stato sottoposto a un giudizio così lapidario, in una fase così fragile. Ho deciso di scrivergli per avere un feedback più dettagliato.

Dopo esserci scritti siamo passati a una lunga telefonata che ci ha permesso di comprendere a fondo le nostre prospettive, scoprendo con grande piacere che convergono su molti punti tanto da sentire il desiderio di intraprendere una collaborazione. Attraverso la nostra conversazione ho avuto modo di rivedere il mio lavoro su un nuovo punto di vista non tanto nei contenuti, ma scoprendone nuovi livelli di analisi e di interpretazione e scavando più in profondità su cosa mi ha mossa in tale direzione.

Così è nata anche una riflessione sul nostro mestiere e sulla scena di oggi nel campo della danza e del teatro. Mi ha colpito l’osservazione di Enrico su come crei più risonanza un articolo che uno spettacolo. Questo è un punto cruciale secondo me: si sente la mancanza di un dialogo sullo stato dell’arte e si sente la mancanza di una riflessione veramente circostanziata su quello che la scena propone. Di fatto ciò che lui ha scritto ha aperto una confronto interessante.

La comunità artistica sta cambiando velocemente, già tra me e Enrico, pur avendo pochi anni di distanza, c’è già una differenza di esperienze e di opportunità. Il privilegio di poter dedicare lunghi periodi a processi di ascolto collettivo, alla creazione del gruppo, sono esperienza negate alla mia generazione di performer “take away” costretti a saltare da un progetto all’altro tutti di breve durata, portandoci dietro una evidente difficoltà a costruire un gruppo di riferimento con cui condividere un linguaggio consolidato. Le necessità legate alla crisi hanno in poco tempo precluso la possibilità di lavori stabili, produzioni a lungo termine e con un numero consistente di performer in scena. Cosa che in me ha generato la forte urgenza di ritorno a pratiche legate all’ascolto, alla percezione dell’altro, al sentirsi.

Esplorare la voglia di lasciare il tempo perché l’intuizione prenda forma, di domandarsi cos’è l’intuizione stessa e di rivedere alcune delle nozioni apprese in brevi workshop in una luce più aggiornata, personale e continuativa. La mia ricerca è stata accompagnata da un senso di solitudine profonda in questi anni. A parte alcuni brevi momenti di condivisione in residenze di una settimana o due, nei quali lo scambio era forte ma breve, per il resto mi sono mossa da sola in cerca di punti di riferimento tra danza, teatro, aikido, butoh, antropologia, neuroscienza, fisica quantistica, psicologia e molto altro, sentendo però la mancanza di un quadro di riferimento integrato, che in qualche modo con un po’ di sforzo mi sono costruita da sola.

Manca una comunità artistica coesa, consapevole del processo sociale e culturale che sta compiendo. Siamo tante isole perse nel mare di piccoli eventi, festival scollegati e produzioni lampo. Mancano le occasioni che aprano riflessioni e scambi come quello nato tra me e Enrico. Un’iniziativa centrata in questo senso, quella di Ricerca X, ha cercato si riunire artisti diversi in luogo di residenza condivisa e continuativa, nella quale ho avuto la possibilità di collocare la mia ricerca in un landscape composito di ricerche e pratiche. Importante quindi lo sforzo Di Erika Di Crescenzo e Carlotta Scioldo di fornire un linguaggio condiviso con cui esprimersi e nel quale cercare di inquadrare il nostro lavoro e il tentativo di rapportare la nostra comunità ad altre che hanno già compiuto tali passaggi. Da qui la domanda/spunto posta da Ricerca X, nell’incontro organizzato da Carlotta e Erika: qual è la relazione tra ricerca artistica e ricerca scientifica? Incontro nel quale, a febbraio, io e Mario Benassai, fisico, abbiamo esposto in parallelo le nostre personali ricerche per offrire spunti di riflessione al pubblico e offrendo a noi due una possibilità di dialogo, di conoscenza, di amicizia davvero preziosa. Una domanda questa comunque sulla quale mi sono a lungo arrovellata in passato, chiedendomi più che altro come sia possibile che la scienza stessa non si interessi al mondo del corpo e al potenziale di percezione che viene esplorato dai danzatori dagli anni 60 fino ad oggi, soprattutto alla luce di nuove scoperte scientifiche, come ad esempio i neuroni specchio.

La nuova fase del mio lavoro, che da poco ho rinominato The vulnerable technology inside of us, ha di fatto intrapreso una nuova direzione, e non ha alcuna pretesa esplicativa o scientifica, ma puramente artistica. Perché da tutto il mio percorso se c’è qualcosa che mi è sembrato chiaro, è che l’arte comunica a un livello più profondo rispetto alla scienza.

Il dialogo con Enrico ci ha poi portati a una riflessione sull’empatia, sulla perdita dell’ego che l’autore deve mettere in azione per predisporsi all’atto performativo, e con nostra sorpresa ci siamo trovati a concordare su come troppo spesso l’ego degli autori non permetta di entrare in contatto con un messaggio profondo, chiaro, enpatico e suggestivo. È buffo che sia stato proprio da un fisico quantistico francese, Françoise Martin, con cui ho avuto modo di condividere le mie ricerche sulla sincronicità, sia arrivata una suggestione su questo tema, ovviamente in chiave artistica.

Françoise scrisse anni fa una sceneggiatura dal titolo L’astrominotauro di cui vi cito alcune brevi frasi dall’introduzione: “In questo pezzo, la teoria del Big Bang è stato elevato al livello del mito. Qui, l’arte e la scienza si verificano contemporaneamente: la scienza in arte e l’arte nella scienza. Per me, il termine “incautamente” significa che il nucleo di tutta la sofferenza è la perdita, e che tutto il lavoro dell’uomo è di accettare questa perdita. […] L’accettazione della perdita è alla base della creazione, di tutte le creazioni, e in particolare la teoria del Big Bang che può essere parte dell’inconscio umano come una nuova teoria della creazione. Essendo un Universo in espansione perde qualcosa: perde la sua originale semplicità; ma guadagna la complessità, la coscienza umana è la manifestazione più eclatante“.

Per me Francoise Martin in queste poche parole risponde a tante domande: su quale sia la relazione tra ricerca artistica e scientifica, su cosa sia l’arte, su cosa voglia dire espansione e creazione su molti piani, e non è solo ciò che dice, ma come ha scelto di dirlo: propone di elevare il Big Bang a livello di mito, una nuova teoria della creazione, una sceneggiatura che vede un astrofisico accompagnato da una bambina in un viaggio nell’universo. Uno scienziato con un forte lato artistico che si esprime in questi termini, per me, dice tanto. Offre molti piani di lettura, a me, però, piace pensare che stia parlando proprio a noi artisti, ricordandoci che ogni atto creativo è perdita, dal Big Bang alle nostre creazioni artistiche il processo è lo stesso, accettare di perdere il controllo, di perdere l’ego, lasciandoci accompagnare per mano a una bimba nell’Universo in espansione. Anche per potersi confrontare è necessario perdere qualcosa, lasciarsi portare da qualcosa, anche nella comunità perdiamo qualcosa forse anche un po’ di noi stessi, di quell’identità che sentiamo a volte di dover difendere a tutti i costi per sentirci unici. Ma siamo sicuri che valga la pena aver paura di questa perdita? Ciò che ne deriva non è una ricchezza molto più appagante?

Così “incautamente” l’articolo di Enrico ha sollevato molte riflessioni, il processo di perdita/espansione però si è sicuramente messo in moto.

Margherita Landi