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La ballata dei Lenna

La Ballata dei Lenna: Human Animal ovvero è la noia che ci rende umani?

Al CineTeatro Baretti di Torino, all’interno della stagione titolata Il tempo del disinganno, è andato in scena da l’8 al 10 aprile Human Animal de La ballata dei Lenna, spettacolo liberamente ispirato a Il re pallido, ultimo romanzo incompiuto di David Foster Wallace.

I tre componenti de La Ballata dei Lenna, Paola Di Mitri, Nicola di Chio e Miriam Fieno, hanno seguito le tracce de Il re Pallido, ambientato ne gli uffici della Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate americana, strutturando la loro ricerca a partire da uno studio sul campo, in diverse nostrane, temute e famigerate Agenzie delle Entrate.

Come nel romanzo di Foster Wallace vengono seguite le vicende di tre funzionari in una giornata qualunque. Costoro divengono paradigmi attraverso cui porsi una serie di domande sul vivere contemporaneo: si può restare umani nonostante la burocrazia? La noia è parte integrante del nostro vivere? Qual è la sua funzione? E infine: cosa vuol dire essere umani? Domande a cui non è facile rispondere, ma necessarie al fine di potersi interrogare su alcuni inquietanti aspetti del nostro quotidiano agire/patire.

Interessante la modalità di messa in questione adottata da La ballata dei Lenna: insieme al biglietto ci viene consegnato un numero, esattamente come quando ci si presenta in un qualsiasi ufficio pubblico. Nel prendere posto si è già in attesa, in una situazione potenziale di noia, di tempo vacante, imposto da un sistema più forte di noi. Chi non ha provato, prendendo quel numerino, in posta, in stazione, all’agenzia delle entrate, la sensazione di costrizione, di star perdendo tempo, di essere una vittima? E chi non ha provato avversione per quei funzionari che hanno la nostra vita in loro potere?

In scena gli attori ci stanno aspettando di fronte a uno schermo, che taglia orizzontale la scena e proietta i nostri volti di pubblico, o utenti, in attesa. Questo l’incipit di un processo di interrogazione che attraversa varie fasi e utilizza diversi media. I personaggi ci vengono presentati attraverso un video: tre funzionari dell’Agenzia delle Entrate che devono ripulire dei documenti coperti di fango ed escrementi in seguito a un’alluvione.

Nell’adempiere a questo noioso e umile compito i tre addetti ci mostrano il dietro le quinte di questi uffici, la loro quotidiana resistenza o abbandono al meccanismo burocratico del quale sono comprese anche le nostre vite. Tutto ciò lo vediamo tramite un video costituito da piani sequenza colmi che continuamente mutano il nostro punto di vista. Ai primi piani e ai piani americani il compito di evidenziare il percorso emotivo dei tre protagonisti.

Talvolta il personaggio si presenta in platea. Rompe lo schermo, la divisione tra noi e loro solo apparentemente perché vi è ancora il confine della platea che ci separa. La narrazione però si sposta su un altro piano di realtà, dalla dimensione video a quella dal vivo del palcoscenico.

Un ulteriore slittamento avviene quando i tre attori smettono i panni del loro personaggio e si presentano per quello che sono: interpreti appunto. Ecco che in questa funzione chiamano i numeri che ci hanno assegnato chiedendoci direttamente: cosa vuol dire essere umano? La domanda è retorica, non si pretende realmente una risposta. Anzi il meccanismo di chiamata non serve ad altro che a smontare la supposta unicità delle nostre identità. Siamo tutti molto più simili di quello che pensiamo, per gusti, predilezioni, lamentele, tutte manifestazioni di un agire indotto da parte di un sistema che condividiamo.

Human Animal de La ballata dei Lenna è dunque un meccanismo teatrale che mette in campo una regia costituita da quello che potremmo chiamare: montaggio delle attrazioni. Video, azione scenica, drammaturgia sono frammenti che costituiscono un insieme discontinuo che si conforma come mosaico che mette in questione il reale. La narrazione è pretesto per porre delle domande che ci accompagnano oltre la messinscena. Lo spettacolo è dispositivo di interrogazione di una comunità rispetto a delle questioni che la attraversano, un congegno complesso che sviluppa un linguaggio multiforme e composito.

Human Animal ci consegna un lavoro di una compagnia giovane che ha ben chiaro i propri obbiettivi di ricerca e che sa coniugare, con linguaggio maturo, narrazione, spettacolarità e ricerca di senso.

SLAVIKA: UNO SGUARDO D’AMORE SULLA CULTURA SLAVA Intervista al direttore artistico Alessandro Ressa

Parte oggi Slavika. Un evento interessante e particolare che getta uno sguardo attento e prezioso sui fenomeni culturali in atto nei paesi slavi. Un programma variegato che coglie i fermenti in atto nella letteratura, nel cinema, nel folklore, nella musica e nelle arti sceniche, in quell’Europa dell’Est che tanta parte ha e ha avuto nei fermenti culturali della civiltà europea e che troppo spesso vengono considerati marginali o esotici. L’Europa dell’Est, la cultura dei paesi slavi, è una colonna portante di questo nostro continente sempre più attraversato da conflitti e contraddizioni, e gettare uno sguardo in questo affascinante calderone è, non solo un’azione meritoria, ma anche fondamentale per capire cosa avviene oggi. Per questi motivi invito tutti coloro che sono interessati a frequentare questi giorni questo piccolo ma interessante festival. Per il programma completo rimando al sito del Polsky Kot, https://polskikot.wordpress.com/festivalslavika/, per invece comprendere qualcosa in più delle linee e delle intenzioni di questa manifestazione ho intervistato Alessandro Ressa, anima e direttore di Slavika.

EP: Ci fai una piccola presentazione di questa ricca seconda edizione di Slavika?

AR: Rispetto al primo anni in cui il festival è nato un po’ come un progetto esplorativo di quello che potevano esserne le potenzialità, siamo cresciuti soprattutto a livello di luoghi e di frequentazioni. Quest’anno infatti il festival non si svolgerà solo al Polsky Kot (circolo culturale nato con lo scopo di promuovere la cultura polacca e slava e sito in via Massena a Torino ndr.), ma anche in altre prestigiose sedi della cultura torinese. Al di là della presentazione con il concerto che si è tenuto all’Hiroshima, andiamo anche al Circolo dei Lettori, al CineTeatro Baretti, al Cinema Massimo e alle Officine Corsare. Questa mi sembra la crescita più importante dal punto di vista delle frequentazioni. C’è anche una crescita importante dal punto di vista del programma, particolarmente ambizioso quest’anno, che mette insieme, come al solito, vari aspetti della cultura slava, passando per il cinema, la letteratura, lo sport, il folklore, il teatro ma con appuntamenti interessanti che vantano partecipazioni prestigiose, a partire proprio dall’appuntamento di chiusura con la partecipazione di Dario Fo, ma anche l’incontro con il regista polacco Grzegorz Jaroszuk al Polsky Kot martedì 22 marzo a cui seguirà la proiezione al CineTeatro Baretti del suo film Kebab i Horoskop, oppure Zero la performance di danza di Paola Bianchi che nasce come un omaggio e una riflessione sull’opera di T. Kantor, giovedì 24 marzo alle 21 alle Officine Corsare.. E questo per citarne solo alcuni.

EP: Può essere una domanda banale: perché i paesi slavi?

AR: Slavika è nato come prolungamento delle attività del Polsky Kot, che a propria volta nasce come vetrina della cultura polacca, ma non solo. Il Polsky Kot è lagato a doppio filo a quello che è il mio percorso personale di vita e di studio che mi ha portato a passare svariati anni in Polonia a studiare il polacco e ad amare la letteratura e la società di quel paese. Questo amore mi ha portato in seguito ad ampliare i miei orizzonti verso altri paesi slavi, soprattutto verso i paesi della Ex Jugoslavia, ma anche Russia e Ucraina. Polsky Kot è nato con questa ambizione, di importare qui in Torino quelle che sono le peculiarità culturali dei paesi slavi: Slavika è il tentativo di gettare uno sguardo curioso, nell’arco di una settimana, su quelle che sono le specifiche attività del Polsky Kot durante tutto l’anno.

EP: La domanda nasceva da una considerazione, che i paesi slavi, alcuni dei quali sono addirittura confinanti con il nostro paese, hanno sempre un’aurea di esotico, attraggono e respingono come se fossero paesi lontani nello spazio e nella fantasia,nonostante di fatto, soprattutto nel Novecento sono stati fondamentali per la cultura europea.

AR: Ma io credo che quest’aspetto sia proprio la forza della cultura slava, del fascino che ha su di noi. Come dici tu sembra sia una cosa esotica, appartenente a paesi lontanissimi pur essendo vicina. Questo a volta è un limite, il percepire la distanza, altre volte si trasforma in forza quando ci attrae e ci porta ad approfondirne la conoscenza. E proprio il fatto che le si percepisca come culture lontane questo viaggio di approfondimento si percepisce sempre un po’ come un’avventura esotica, che ci porta a scoprire che poi basta solo mettere un passo fuori Trieste, ed eccoci qua: ci si trova immersi nelle culture slave. Ma questo probabilmente è dovuto anche all’effetto degli anni della Cortina di Ferro, che ha dilatato le distanze malgrado le distanze non ci fossero

EP: Nonostante le difficoltà di questo periodo economico, soprattutto per effetti che questo riflette sulla vita culturale, Slavika è uno dei pochi festival che anziché comprimere la sua attività, cresce e si allarga. Qual è il vostro segreto?

AR: La nostra fortuna, o sfortuna, mettila come vuoi, è che non abbiamo fondi pubblici italiana, e questo fa sì che uno possa essere indipendente e impermeabile a quelli che sono gli accadimenti tendenzialmente negativi rispetto alla cultura italiana di questi giorni. Vediamo ovviamente che intorno a noi le cose non vanno benissimo, ma essendo indipendenti dai fondi culturali italiani, questa cosa non dico che non ci tocca, ma non ci colpisce. Noi ci basiamo molto su fondi esteri, e siamo sostenuti per la maggior parte dal Consolato Generale di Polonia di Milano, ma intervengono anche alcune piccole realtà private. Quest’anno per esempio, ci è venuta incontro una piccola realtà che si chiama Casa Polonia che si occupa di prodotti polacchi.

Noi non abbiamo entrature derivate dal Governo Italiano e dalle sue istituzioni, quindi rimanendo distanti, ahimè, da una parte, e per fortuna, dall’altra, possiamo tentare una crescita benché la direzione di marcia sia al contrario.

EP: Da una parte quello che dici è confortante ed è di stimolo, nel senso che è possibile trovare strade alternative agli schemi soliti di funding, ma dall’altra mette anche un po’ tristezza, nel senso che uno per sopravvivere, quasi è costretto a guardare ad altri paesi e ad altre istituzioni.

AR: Questo è vero, ma bisogna anche cercare di essere pragmatici. Il sistema dei soldi pubblici diventa spesso un grosso limite, perché oltre a deluderti dal punto di vista umano, sono un ostacolo dal punto di vista pratico perché, A) non sai quanti soldi avrai, e B) non sai quando li prenderai, di cosa stiamo parlando? Che tipo di investimento puoi fare in queste condizioni? E poi la complicazione di certi bandi, perché in Italia la burocrazia può diventare un ostacolo veramente insormontabile. A volte quindi si sta meglio mettendola da parte e dandola per persa. Nel nostro caso poi c’è la realtà quotidiana delle nostre attività che si svolgono in collaborazione continua con altri stati, e quindi non lo trovo così incredibile o strano prendere dei fondi dall’estero, che di fatto sono anche un riconoscimento alla bontà del lavoro svolto.

EP: Certo. Possiamo anche dire che la prassi in Europa è quella di cercare fondi alla cultura in collaborazione tra paesi diversi, è un vizio italiano quello di limitarsi a guardare esclusivamente nell’orticello di casa.

AR: Sì, però bisogna anche dire che il dissesto nell’indotto culturale non sia limitato ai nostri confini, Bisogna riconoscere ad onor del vero che viviamo in un periodo in cui i valori culturali non sono messi al primo posto, e nemmeno al secondo, non solo da noi. La cultura viene spesso vissuta come un peso piuttosto che come una risorsa. Quando l’approccio è quello, di zavorra, comunque è difficile sopravvivere, qui in Italia, come altrove.