Collective loss of memory: nell’inizio c’è già il finale. Ma non lo sappiamo. Non lo possiamo sapere. Due uomini lottano a destra della scena. Uno guarda. Uno è seduto su una sedia. Uno al microfono ripete come un mantra: being a man, mainly a man.
Sembra un inizio un po’ concettuale. E gli interpreti ci scherzano sopra subito. Il tono da serio diventa buffo. I danzatori si presentano. Uno addirittura con un grosso e finto pene che viene presentato al pubblico. Sarà un elemento ricorrente questo pene grosso. Poi comincia lo sviluppo. La danza è maschia, acrobatica, coinvolgente (i cinque danzatori in scena sono straordinari). Elementi violenti appaiono costantemente, ma lì per lì, non ci si fa troppo caso.
Poi si offrono caramelle al pubblico. Non vengono date con gentilezza. Vengono lanciate con violenza. E poi il mantra si ripete: being a man. È una affermazione che si fa domanda. Comincia a essere chiaro che è il maschile l’elemento su cui ci si interroga. Ritorna il pene, che viene offerto al pubblico come oggetto da testare, toccare, farne esperienza.
Infine il racconto dell’origine di questo spettacolo: siamo nel 2008, in una piazza, dove tutto è molto tranquillo. Un uomo entra correndo inseguito da un altro. Spariscono. La scena torna calma. Poi altri che inseguono i primi due, in formazione, come una freccia. Un uomo guarda, non fa niente, guarda e basta perché chi guarda non fa. Il gruppo torna sulla scena e compie movimenti circolari e semicircolari. Poi tutti escono. La scena torna calma. Resta solo l’uomo che guarda e non fa niente.
Ancora non si è ben capito cosa sia successo, perché il racconto volutamente astrae, indica delle linee di movimento e di sviluppo, fa emergere i punti salienti: la calma, l’azione principale del gruppo, quella secondaria, ma non meno importante, dell’uomo che guarda e non fa nulla. Infine si svela l’evento reale, che in verità è già, come detto, contenuto nell’inizio: un video mostra la scena descritta. Un fatto accaduto in un centro commerciale nel 2008. Un uomo è inseguito. Prima da un uomo, poi da un gruppo. Per un attimo tutti escono di scena poi tornano. È un pestaggio. Di una crudeltà e violenza inaudite. L’uomo è percosso dal branco in ogni modo possibile. Gli saltano in testa a piedi pari, calciano il suo cranio come fosse un pallone da rugby. Il sangue sprizza, l’uomo percosso è preda di tremori fino all’immobilità. A fianco di questa scena terribile, un altro uomo guarda e non fa nulla. Niente di niente. Nemmeno quando l’uomo percosso, giace a terra, nel suo sangue, solo. Chi guarda non fa nulla. Guarda e basta. Questo guardare e questo essere uomini sono la domanda. Chi guarda davvero non fa nulla? Essere uomini è veramente questo truce delitto? Non è necessario rispondere. È necessario porre la questione. E l’altra che sta in sottofondo. In tutto quanto accade non c’è presenza femminile. Sia nella coreografia che nell’evento del 2008. Chi guarda, chi agisce, chi danza sono solo uomini. Being a man.
Il modo in cui sono state poste queste domande da Jozef Fruček e Linda Kapitanea in Collective loss of memory è intelligente, tagliente, ineludibile. Tutto è accennato, fin dall’inizio. La comprensione di quanto sta davanti ai nostri occhi viene svelato a poco a poco. La coscienza emerge dal suo sonno pian piano, fino a essere scossa, se non percossa, al termine di questo percorso.
Collective loss of memory, spettacolo inquietante e sconvolgente, ci pone di fronte a delle domande a cui non si può scappare. Bisogna porsele. Bisogna farci i conti. La scena in questo lavoro assume un valore tragico ma pregnante. Quello che ci viene posto davanti agli occhi è necessario alla comprensione della nostra natura, di uomini, di civiltà: siamo tra coloro che guardano e passano? Che accettano la violenza insita in noi senza far nulla? Siamo solo spettatori? O siamo qualcos’altro? E il femminile dov’è?