Una piccola lampadina si accende nel buio. Poi un’altra. E poi ancora. Man mano le piccole luci nel buio cominciano a diventare molte, a comporre linee geometriche, figure, percorsi nella notte. Infine esplodono in un bagliore che acceca.
All’eruzione della luce nella sua potenza, segue un buio in cui ancora lampeggiano sulla retina le immagini residue. Solo allora emerge il primo danzatore che sulla musica assillante e ripetitiva di Lorenzo Senni, comincia a disegnare sul palco una piccola danza fatta di passetti e piccole gestualità. Una sequenza che si ripete nello spazio, ora accompagnata da un secondo e infine un terzo danzatore. Una sequenza che si ripete anch’essa infinite volte, con piccole variazioni, accumulazioni, mutazioni. In Higher di Michele Rizzo tutto si ripete geometrico, infinito, ossessivo. Nonostante le micro variazioni del movimento e della musica che, piano piano, accumula sonorità e ritmi, si ha l’impressione che il tempo scompaia, si dilati nella ripetizione, nella riproduzione. Tutto torna sempre uguale, sempre diverso. Sembra che questi moduli ripetuti non debbano finire mai. Una generazione costante di forme modulari dallo stesso DNA che mantengono una loro unicità d’esistenza. Tutto scorre come non dovesse finire mai. Senza sentimento, senza immedesimazione, senza significazione. Le sequenze di danza e musica, si manifestano costanti, ipnotiche, come prodotti in una catena senza inizio né fine, il cui sviluppo è indeterminato, imprevedibile. Poi tutto sparisce nella notte. Il buio si riprende tutto. La trance ipnotica si evapora. Si torna nel tempo.
Quest’opera di Michele Rizzo che ha aperto Interplay possiede la rara qualità di affascinare nonostante i gusti personali. Io, per esempio, mi trovo in forte disagio di fronte a lavori fortemente ripetitivi, razionali e astratti nel loro formalismo. Eppure si supera il disagio, lo si mette per un momento da parte, apprezzando il tentativo di far nascere una nuova forma di trance estatico-religiosa, a partire dalla danza e musica per club. Benché comprenda la possibilità della manifestazione di una trance che sorga dalla ripetizione di moduli sonori e di movimento nello spazio, faccio fatica ad associare questo fenomeno a un sorgere di un qualche contatto con il sacro. La religiosità associata dalle asserzioni del coreografo al fenomeno di danza e musica per club, il paragone club-chiesa, mi pare un po’ azzardato. Più che una religiosità mi pare si possa scorgere nel fenomeno una ritualità laica, svincolata dalla coscienza che l’agire rituale possa condurre al divino o al sacro. Mi sembra più che altro un trascendere dal quotidiano, dal sé. Una ricerca di un abbandono che conduca al superamento di sé per un periodo di tempo. Poi come alla fine dello spettacolo si torna a essere se stessi, senza il raggiungimento di una nuova conoscenza e coscienza del mondo. Un esperimento interessante. Razionale e geometrico come un Mondrian, che però mi pare alla fine si riduca a un formalismo vuoto di sostanza. Il rito per il rito. Senza finalità. Auto giustificante. Senza sbocchi. Uno strumento senza scopo, perfettamente funzionante, lucidamente concepito.
fotografie@Jasmijn_Slegh