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Maryam

MARYAM di Ermanna Montanari e Teatro delle Albe

Maryam è Maria, madre di Gesù, nel mondo islamico. La Sura XIX del Corano è a lei dedicata ed è figura amata dalle donne dell’Islam. La sua icona di madre sofferente, di colei a cui Dio/Allah ha chiesto il sacrificio più grande, di credere in lui nonostante la morte in croce del proprio unico figlio, raccoglie la devozione e la preghiera delle donne del Maghreb e della Palestina. Maryam è colei attraverso cui Allah, il Misericordioso, ha voluto dare un segno, “prescelta tra tutte le donne del mondo”, “segno per le genti” e il cui abbandono e il cui dolore sono ricettacolo di altro dolore e sofferenza. A Maryam le donne d’Islam si rivolgono per ottenere pace, vendetta, ascolto per e alle proprie sofferenze di mogli e di madri. Figura di donna angelicata, cara a Dio, elevata sopra e al di là del mondo e della sua immensa sofferenza, anche nella gloria di Dio ricorda il dolore e lo conserva, perché niente può far dimenticare. E così Maryam diventa dea madre, erede delle Grandi Dee dei pagani, a cui le donne tutte possono rivolgersi per chiedere e ottenere grazia, protezione e vendetta.

In questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari, diretta da Marco Martinelli, Maryam ascolta le invocazioni di tre donne palestinesi, – Zeinab, Intisar e Douha -, che hanno perso figli e sorelle. Tre storie terribili, violente, strazianti. Le parole di Luca Doninelli che le riscrive si fanno voce e suono attraverso Ermanna Montanari che le rende vive, solide, potenti, feroci e crudeli. La madre che ha perso il figlio, autore di un attentato suicida, che con orrore scopre la borsa contente il denaro prezzo di un’inutile sacrificio; la donna che piange l’amica venduta dallo zio indegno, ubriaco e lubrico, che alla morte del fratello si impossessa di una famiglia non sua disfacendola nel dolore e nella violenza; la madre che perde il figlio nel tragitto di fuga attraverso il mare verso l’Europa. Tutte loro gridano a Maryam il loro dolore, tutte loro chiedono vendetta, chiedono che coloro che portarono il male nel mondo siano dal mondo espulsi tra infinite sofferenze, per essere ripagate del loro strazio, non chiesto, non cercato, non voluto. Ah, quanto è duro il loro dire che si fa schiaffo attraverso la voce di Ermanna Montanari. Quanto dolore che ci fa tristi e raccolti, quanto dolore spinse queste donne al doloroso passo di chiedere alla Madre di Gesù di vendicarle, sostenerle, consolarle, persino strapparle a quella sofferenza che non si può contenere in un’anima sola.

Ermanna, come una sciamana, dietro il velo si fa voce per loro, riporta le invocazioni, le maledizioni, mentre immagini traforate di finestre arabe disegnano reticoli e scritte in arabo solcano il velo che ci divide da lei, in quella lingua misteriosa fatta di piccole curve, vermicelli, brulicante di vita in quei segni per noi incomprensibili e alieni. Un disegno di luci che accompagna e potenzia quanto si ode al di là del velo: macchie rosse che come demoni prendono forma di corpo informe e inquieto; la donna che ci fissa immota se non per lo sbattere delle palpebre, occhi duri che pongono domande, che chiedono conto di questo infinito sopportare; glifi arabi che tagliano come spade di luce il nero velo.

E la voce di Ermanna si fa creatura viva, si fa attraversare dalla rabbia, dal dolore, dal chiedere senza sosta giustizia e vendetta. Si fa materia dura, come diamante e come lui tagliente, a cui niente resiste allo stridere delle parole che come macigni lapidano i misfatti che prendono vita. Si perché il peccato commesso chiede che si scagli la prima pietra di una lunga fila che seppellisca il male commesso e subito. Per lo zio che condanna a una vita infame l’amica si chiede il peggior cancro, a coloro che hanno corrotto quel figlio gentile fino a fargli commettere una strage si chiede una vita di dolore e sofferenza, senza amore, senza figli, senza famiglia; la madre senza più figlio né marito, ormai inaridita e incattivita chiede a Maryam di capire, di poter almeno comprendere. Ermanna si fa preghiera e maledizione, perché la preghiera a volte si avvicina alla bestemmia, per scuotere il divino, per costringerlo a proteggerci dal male che incombe su di noi in ogni istante e ad ogni passo di questa vita miseranda. Ma il divino tace, mortalmente assente da questo mondo, ritirato forse per sempre in un abisso incomprensibile e sideralmente distante.

E ora l’ultimo passo: Ermanna si fa voce di Maryam, risuona della voce della madre. E non ha risposte per noi. Non ha nessuna consolazione lei che per prima è stata incapace di allontanare il calice, non ha potuto schiodare il figlio da quella croce infame. Non ha potuto aiutare il figlio abbandonato da dio e lasciato a disperarsi aggrappato a quei chiodi e a una corona di spine. Che posso per voi io che per prima non ho potuto niente per me?

In quel nero quadrato che è la scena dove voce, suono e luce disegnano preghiere non c’è risposta alla domanda di giustizia e vendetta. Sembra esserci solo rassegnazione. Lontana è ogni giustizia, nemmeno rinviata al giorno del giudizio. Un finale in minore, che lascia insoddisfatta questa rabbia, questo desiderio di giusta vendetta. All’impotenza di queste donne di fronte alla tragedia e al male, risponde altrettanta impotenza da Maryam che pur partecipa del divino e della sua gloria. Il dolore resta, sfregia le anime irrimediabilmente. Le cicatrici restano come segni indelebili, il male non si cancella e non si vendica, e nemmeno l’amore di Maryam può lenirlo.

Questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari e Marco Martinelli andato in scena a Kilowatt a Borgo Sansepolcro è disperato e disperante, colmo di sofferenza che non trova canale di scolo in cui dissiparsi. L’orrore monta e riempie il cubo nero in cui il suono/racconto prende vita e poi si sgonfia come la rabbia di Pluto nell’inferno dantesco e poi che l’alber fiacca, tal cade a terra il dolore di queste donne, cade su questa ripa che’l mal de l’universo tutto insacca. Come i pianti e le bestemmie dei dannati nell’inferno le parole di queste donne non trovano consolazione perché Dio è distante, e per quanto conosca tutte le nostre lacrime nulla fa per lenirle.

Foto Cesare Fabbri