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Varietà della Caduta

DOVE TUTTI SONO CADUTI: il Varietà della Caduta

Il Varietà della Caduta, dopo un percorso di quasi quindici anni, sta per chiudere. Il 26 febbraio 2019 sarà l’ultimo martedì illuminato dalla fisicofollia di una forma spettacolare patafisica che è stata palestra per molti artisti nella città di Torino. Sul minuscolo palco del Teatro della Caduta di via Buniva circensi e giullari, attori e danzatori, musicisti e cantautori, poeti, maghi, sperimentatori di linguaggi e semplici dilettanti, tutti hanno potuto far parte di quel varietà, provarsi di fronte al pubblico, saggiare le proprie capacità, collaudare un’idea, fallire in libertà.

Tutti quelli che cadono era il titolo del primo esperimento nel dicembre del 2004: una cornice-manifesto che conteneva i numeri degli artisti. Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro, direttori di quel neonato caravanserraglio, dichiaravano un intento: creare uno spazio in cui poter cadere, dove il fallimento non era un dramma, ma una prova necessaria prima di rialzarsi e riprovare. Come scrive il grande funambolo Philippe Petit: “ho atteso la mia prima caduta pubblica. Mi ha fortificato, mi ha inondato di un orgoglio gioioso, come un colpo sulla spalla che incoraggia più che far male”.

Sperimentare è prima di tutto contemplare serenamente il fallimento. In un mondo dove si chiede solamente certezza, dove l’idea stessa di sbagliare è costantemente colpevolizzata, emarginata, ridicolizzata, si perde la vertigine necessaria a ogni vera creazione. Rischiare di cadere, imparare errando senza fine, fallendo ancora e meglio. Non si impara a camminare senza cadere.

Questo è stato il Varietà della Caduta: il luogo in cui tutti i possibili linguaggi erano accetti, dove chiunque poteva fallire senza tema di essere giudicato, uno spazio agibile e fruibile senza che nessuno ti chiedesse un curriculum. Il varietà si costituì intorno a questa idea che si mantenne costante nel corso degli anni, nonostante i molti cambiamenti e i diversi artisti che si occuparono di creare una nuova cornice ai numeri ospitati. Il Varietà della Caduta non era altro che un contenitore aperto a chiunque, anche al pubblico che aveva la possibilità di salire sul palco dalla platea e far parte dello spettacolo.

Intendiamoci: non era una corrida o la spettacolarizzazione dell’incapace, oggi tanto di moda: Era un’azione politica, un concedere tempo e spazio a chiunque volesse condividere, partecipare, costruire una forma indipendentemente dai risultati. Nel piccolo teatrino di via Buniva, il pubblico non era semplice spettatore e nemmeno carne da macello, era creatore insieme agli artisti di quel magico momento dove tutto era possibile, persino cadere rovinosamente senza paura di farsi male. Teatro non era un genere ma, come vorrebbe il suo etimo, principalmente un luogo, dove per due o tre ore si condivideva una utopica possibilità.

Il Varietà della Caduta fu un immediato successo. Gli artisti si affollavano per poter portare un proprio numero in quel contesto, il pubblico si prenotava con giorni d’anticipo per poter partecipare, stretto come una sardina, in quella piccola sala. Quando giunsi a Torino per la prima volta nel 2005 fu il primo posto dove mi portarono. Rimasi affascinato da quel luogo in cui un palco piccino era sovrastato da un soppalco dove, come nel teatro elisabettiano, stava l’orchestra schiacciata contro il soffitto. Una tenda nascondeva un camerino che sarebbe stato stretto per due, figurarsi per otto o dieci persone. Il tecnico rintanato in un metro quadro sul tettuccio della minuscola biglietteria. Gli spettatori pazienti in fila per strada con qualsiasi tempo atmosferico. Non c’era biglietto, si contribuiva alla fine, a cappello, come per gli artisti di strada. In quello spazio sovraffollato si respirava però un’eccitazione, un senso di condivisione e di partecipazione che raramente ho riscontrato in una sala teatrale. Di tutti i luoghi dedicati alla scena è quello in cui mi sono sentito più a casa.

Guido Catalano, I Maniaci d’amore, Matthias Martelli, Federico Sirianni, Saulo Lucci, Manuel Bruttomesso, Carolina Khoury, Benjamin Dalmas, Francesco Giorda, Marco Bianchini. In molti sono sono saliti su quel palco. Sarebbe impossibile nominarli tutti. Qualcuno ora noto e apprezzato dalla scena nazionale, altri per sempre sconosciuti, tutti sono caduti nel Varietà. L’hanno fatto con gioia, con eccitazione, qualche volta con paura, ma sicuri che lanciandosi il pubblico li avrebbe sostenuti e nessuno si sarebbe fatto male.

Il progetto iniziò senza soldi, senza finanziamenti, senza azioni di audience engagement, solo per la disponibilità e generosità di Massimo e Lorena, dalla loro idea di teatro come gioia e divertimento, e dalla voglia di molti giovani artisti di provarsi. Il pubblico raccolse quella volontà di donarsi, di giocare e di sperimentare. Lo ha fatto per quindici anni e probabilmente continuerebbe a farlo. È bastato il semplice passaparola, tanta volontà e capacità di sognare un percorso e un’idea di teatro.

Ora il Teatro della Caduta è una realtà riconosciuta e sostenuta. Molta strada è stata fatta e la realtà cittadina è molto cambiata. Forse oggi è venuto il tempo di cambiare, eppure non posso fare a meno di sentire già da ora la mancanza del Varietà della Caduta, di quella libera possibilità di cadere nel vuoto che è ingrediente fondamentale dell’arte antica del teatro.

Ph: @Enrico Auxilia

Marco Bianchini

1:6000 di Marco Bianchini

Uno su seimila. L’unico contro i molti. L’unicità che fronteggia spavalda, seppur un poco intimorita, lo sciame. Il titolo dell’ultimo lavoro di Marco Bianchini è una proporzione e una dichiarazione. I numeri sono impietosi, nella loro algida evidenza manifestano uno stato di fatto: uno contro tutti. L’uno diventa lo zero virgola, si fa piccolissimo pur restando origine del mucchio selvaggio. L’uno è il seme, è l’unità base, è il solitario, è il mago dei tarocchi, il possessore di sé, colui che usa la ragione per piegare gli eventi alla sua volontà, è colui che sa usare il mondo a proprio vantaggio, ma è anche la goccia contrapposta alla vastità del mare, la goccia che rischia di sparire, di essere annullata di fronte all’enormità abissale della moltitudine.

L’uno è Arjuna che fronteggia l’esercito dei suoi fratelli, affiancato sul carro da Krishna, l’auriga che guida i cavalli e rende possibile il pieno possesso di sé.

1:6000 di Marco Bianchini è il racconto surreale ma non troppo di una battaglia, quella di chi, diverso in qualsiasi forma, si trova a ergersi, spesso suo malgrado, contro la massa uniforme dei conformi. Una narrazione che par divagare, che procede tortuosa, a salti e balzi, raccontando frammenti che si ricompongono come un mosaico: un libro fantastico e mai esistito che segna lo spartiacque dell’evoluzione culturale (Le avventure del gattino Cicci), la presentazione del distretto economico dell’Alto Vicentino, un manga giapponese (Il Grande sogno di Maya di Sozue Miuchi), e il racconto autobiografico di un’infanzia e un’adolescenza alla ricerca di strategie di integrazione per difendersi dal bullismo. Questi gli elementi mescolati in un racconto superflat dove alto e basso, reale e immaginario, si intrecciano in un linguaggio ironico e divertente ma mai banale.

1:6000 di Marco Bianchini è un canto della diversità che si adatta alla necessaria ma complicata convivenza con la conformità. Poco importa di che natura sia la diversità, se sessuale, esistenziale, professionale, di colore o di partito, importano le strategie che essa mette in campo, non tanto per adattarsi, ma per sopravvivere, per esistere e sussistere. Con pochi elementi e una verve narrativa stimolante si affrontano i pregiudizi, le sofferenze, le umiliazioni, le lotte dell’uno, di qualsiasi uno, per affrontare i seimila sempre pronti a puntare il dito.

1:6000 di Marco Bianchini si inserisce in un filone di opere che negli ultimi tempi interrogano la scena e la comunità che la frequenta. Da MDLSX di Silvia Calderoni, a Todi is a small town in the center of Italy e Un eschimese in Amazzonia di Livia Ferracchiati, – opere queste decisamente più orientate verso la diversità sessuale, tema presente anche nel lavoro di Bianchini -, la scena si interroga sempre più sulla questione dell’accettazione delle eccezioni, sul loro inserimento nel mondo della conformità con pari diritti e dignità di esistenza. In una civiltà che a torto si crede evoluta, civile e libera ci si dimentica troppo spesso che in fondo siamo animali che ancora applicano, fin dalla più tenera età, la legge del branco. Non saremo mai veramente evoluti se non impareremo ad accettare l’eccezione e la ricchezza che porta con sé. Non potremo mai dirci veramente progrediti se non la smetteremo di contrapporre i molti ai pochi, la massa ai solitari, i conformi ai diversi. La convinzione di essere civili è la più falsa maschera che indossiamo. È ora di toglierla e di affrontare la nostra più grande miseria.

1:6000 di Marco Bianchini apre la tredicesima stagione del Teatro della Caduta di Torino. Un programma variegato e interessante con sei prime regionali e due prime assolute in cui spiccano Peti’ Glasse’ de Gli Omini, Finale di Partita di Teatrino Giullare e Lourdes di Andrea Cosentino. Una programmazione che rimarca, qualora ce ne fosse bisogno, l’affermazione di una realtà sempre più importante e vitale nella vita culturale della città di Torino, e che fin dalle sue origini nel 2003 si è dimostrata luogo aperto e accogliente delle più diverse forme di ricerca scenica.