Devo ammetterlo: ho molti problemi a scrivere di questo spettacolo di Licia Lanera. C’è qualcosa nella natura del lavoro che mi blocca, mi impedisce. E questi ostacoli sopravvengono ogni qual volta mi trovo di fronte a lavori che condividono lo stesso DNA o meglio le stesse patologie. Mi rendo conto che questi problemi sono miei e derivano dalle mie scelte artistiche e che queste scelte sono, mi si passi il termine, eretiche rispetto alla norma. Quindi prima di parlare dello spettacolo, devo spiegare la mia idiosincrasia e cercare di rendere chiaro quali siano le patologie che mi impediscono di apprezzare lavori di questo tipo e perfino di scriverne.
Io provo una sorta di rigetto fisico, come se avessero tentato di inserire nel mio corpo organi estranei, quando mi trovo di fronte a spettacoli dove, come diceva splendidamente Carmelo Bene, c’è qualcuno che simula di essere qualcun altro scritto da un altro ancora. Tutti sanno che l’attore in scena non è la persona che parla ma facciamo finta di crederci e applaudiamo alla riuscita magia della simulazione.
E poi il testo che precede l’atto scenico e lo schiavizza. Questo fatto dell’interpretazione, di dare un senso, un taglio a qualcosa che preesiste. Questo gioco di inganni. Ma il testo, sempre per citare C.B:, tranquillizza, il testo è legge, è garante di una censura. Dona uno scopo a un’arte che scopo non ha, che è potente proprio quando non ha scopo e ciò che nasce sulla scena è per la scena, e non è simulacro di qualcosa di estraneo che nasce altrove. Questo mettere in scena i testi, le drammaturgie d’autore, questo rendere omaggio al grande poeta o drammaturgo, è in fondo, un teatro per chi non legge. È sussidiario che si fa carne, è alimentazione forzata di cultura. Non ho tempo o voglia di leggere Pasolini, allora vado a teatro e lo sento dire da altri, che sono magistralmente bravi a leggermelo, a farmi credere che ciò di cui si parla abbia vita vera in scena. E quello che più mi stupisce è il fatto che tutte le rivoluzioni nel teatro dell’ultimo secolo e mezzo volte a garantire al teatro la possibilità di esistere senza soggiacere ad altre arti, che il teatro possa infine parlare con la sua lingua, fatta di immagini, parole, tempo, spazio, ritmo e soprattutto corpi, ecco che tutte queste rivoluzioni divampate non lascino quasi traccia in lavori denominati: creazioni contemporanee. Per trovare il teatro che parla la propria lingua e non quella di qualcun altro bisogna sfuggire al teatro, andare a vedere la danza, la performance, gli ibridi miscugli, le generazioni equivoche. Il teatro in sé ancora è ancorato a concetti quali l’interpretazione di un testo, la simulazione di una parte, l’inganno di far sembrare ciò che non è. E questo discorso nulla toglie alla bravura dell’attrice in scena, quella Licia Lanera, che è un’attrice straordinaria. E questo nulla toglie nemmeno a Pasolini. È il linguaggio del teatro che ne risulta dimezzato. Perché non agisce al suo pieno potenziale, non parla la sua lingua ma quella scritta altrove. E le parti dello spettacolo che più sono efficaci sono proprio quelle in cui la voce, che interpreta il testo, si scinde dall’attore, diventa audio e l’immagine può finalmente parlare la sua lingua senza un kapò a controllarla. Poi però ritornano i giochi delle parti, l’assegnazione dei ruoli, quel processo che rende così conforme alla norma di cosa sia o non sia teatro nella mente dei più.
Teatro è simulazione. Fare teatro, anche in Montalbano, è metter su una trappola per credere ciò che non è. Una truffa. Un imbroglio. Questo sapore di falsità è ciò che non riesco a farmi andare giù, quello che mi provoca violente reazioni di rigetto. Eppure in Italia abbiamo avuto C.B. che si è battuto come un gladiatore per far capire che era ora di finirla con queste rappresentazioni. Come se non fosse mai esistito per il teatro italiano. Si continuano a proporre rimesse in scena di testi, di drammaturgie, si premia la nuova drammaturgia, si cercano nuovi drammaturghi, come se ce ne fosse bisogno. Il teatro ha la sua lingua, parla da solo senza bisogno del gendarme, della scorta del testo, del poeta che lo fa parlare e gli dice le cose da dire. Perché se no cosa resta al teatro? Dar un’interpretazione, un nuovo taglio di luce alla parola? Un po’ come le signore che vanno una volta alla settimana dal parrucchiere per farsi un nuovo look? Eppure questo tipo di messinscena è ancora la più applaudita, la più ricercata, perché tranquillizza, ci mette di fronte a ciò che è noto, a un rito stantio di cui però si sa i confini e le procedure. Si ammira quanto è bravo l’attore che interpreta, quanto è bravo a imparare tutto quel testo a memoria e poi lo dice così bene. Nessuno si pone la questione che il teatro non ci sia, ci sia solo la rappresentazione. Un gioco di illusione, dove ci sono persone che fanno le marionette viventi di altre persone che vivono sulla carta scritta altrove. Una roba da Croce Verde, come diceva C.B. Questo è ciò che chiamiamo linguaggio contemporaneo benché sia un giochino che va avanti da svariati secoli. E intanto il miglior teatro, quello che nasce sulla scena con il linguaggio della scena emigra, lo trovi compagno alla danza, alla performance, ad artisti di varie provenienze. Lo trovi nei confini, negli interstizi, là dove le cose succedono, non dove si replica ciò che ci si aspetta, dove non c’è simulazione, ma metamorfosi, la proteica trasformazione delle immagini una nell’altra, quel dire la verità attraverso la permutazione infinita dei linguaggi, nei loro balbettii, nelle loro incertezze e cadute, la dove si frantuma il senso, e non lo si da preconfezionato per tutte le bocche.