Ifigenia in Cardiff di Gary Owen ricostruisce il mito del sacrificio della figlia di Agamennone tra le strade uggiose della capitale gallese, e come la Ifigenia greca, immolata sugli altari affinché la flotta achea possa salpare alla volta di Troia, la figlia di Effie è sacrificata dal sistema. Povera, squattrinata, sguaiata, Effie passa da una sbronza all’altra senza ritegno. Incontra un soldato reduce dalla guerra in Afghanistan di cui rimane incinta. Scaricata e ingannata, decide di tenere la bambina, che muore nel venire alla luce perché mal curata. Effie prova a far valere i propri diritti, ma alla fine rinuncia, sacrificando la figlia. Un testo crudo, forse a volte un po’ troppo retorico, ma che denuncia un sistema che poco si occupa dei meno abbienti, e li sacrifica sugli altari dei costi.
Ma questo è il testo e il testo non è teatro. Lo diventa nel momento in cui si trasforma in immagine in movimento, si plasma sulla scena, si fa corpo vivo. E la trasformazione è assolutamente e senza appello di qualità scadente.
La regia è inesistente. Due soli movimenti a segnalare l’incedere del testo: segnare il numero dei quadri su una lavagna, dove la polvere di gesso finisce per trasformarsi in utero che racchiude un numero nove che diventa feto; il voltarsi, spalle al pubblico, dell’attrice a ogni cambio di scena, gesto peraltro eseguito con eccessiva fretta e imperizia. Null’altro. Un buio tra una scena e l’altra sarebbe stato più elegante. Discutibile la scelta di usare dialetti regionali italiani, peraltro mal eseguiti, in una storia ambientata a Cardiff. Se proprio non si resiste alla tentazione almeno ambientarla tutta in Italia, perché una Leanne che parla romano, o una nonna gallese che parla siciliano fanno venire latte alle ginocchia. Per non parlare dell’avventore milanese o l’infermiere che slitta tra siciliano e napoletano.
La recitazione di Roberta Caronia lascia poi alquanto a desiderare, costantemente gridata di gola, eccessivamente nervosa nella ricerca di interpretare una sballata ubriacona, senza riuscirci pienamente. Il tono è poi sempre il medesimo. Pochi i cambi di ritmo, in una monocorde modulazione dei toni acuti e strozzati.
Poco anche il controllo del corpo in continua oscillazione tra piede destro e piede sinistro come un metronomo per tutta la durata della piéce. L’energia del movimento che parte sempre dalle spalle senza raggiungere le estremità, senza coinvolgere il corpo tutto. Il corpo è segno, e un’immobilità può dire molto di più che simulare un finto vomito. Così come un gesto misurato e controllato, può valere decisamente più che mille inutili sbracciamenti.
Non vale la pena soffermarsi di più su un lavoro decisamente non riuscito, immerso fino al midollo nell’interpretazione e rappresentazione più ovvia, tanto che le due giovani mascherine che si trovavano nell’ombra a fianco della mia fila giocavano a indovinare cosa sarebbe seguito riuscendoci ogni volta. La migliore critica possibile erano le loro risate silenziose e trattenute a fronte di ogni eccessiva e smisurata interpretazione che appariva sulla scena. Sconcertante la mole di applausi per un lavoro di così poco valore.