Venerdì 22 Aprile al Cecchi Point di Torino sono stati presentati al pubblico due interessanti studi di due coreografi giovani e molto capaci: Il coraggio di stare di Tommaso Serratore e Luci di carni di Amina Amici.
Prima di entrare nel merito dei due lavori faccio una doverosa premessa. Nella piccola Odissea di Menelao, viene raccontato l’incontro con Proteo. Menelao deve farsi dire la verità dal dio mutaforma, ma perché la verità venga proferita, Menelao non deve farsi irretire dalle continue metamorfosi del dio. Affinché la verità possa essere ascoltata, Menelao deve inchiodare al suolo il dio e aspettare che, sfinito e vinto, assuma la forma sua più vera. Solo allora il dio dirà la verità all’eroe.
Questo mito poco conosciuto dell’Odissea omerica dice molto del lavoro artistico. La forma per poter dire a chi la guarda, deve trasformarsi, modificarsi, affermare e negare se stessa infinite volte prima di poter dire la verità. Il fluire delle forme e delle immagini prima di trovare l’Immagine, è un processo rischioso, pieno di pericoli. Ci vuole molta forza per tenere fermo un dio fluente e proteiforme. Osservare l’artista che è ancora impegnato in questa lotta, è vedere ancora lo sforzo, il dibattersi, la lotta strenua. Non c’è ancora lo splendore, c’è il percorso verso lo splendore. Bisogna intuire la strada feconda tra i mille vicoli ciechi e non è un lavoro facile né per l’artista né per il critico né tanto meno per il pubblico.
E dunque fare la critica di due studi è affare molto complicato. Per la loro natura di incompiuti, di lavori fluidi, non ancora fissati in una forma definita e definitiva, gli studi sono instabili. C’è del lavorio grezzo. C’è del finito. E tra questi due poli c’è un processo in essere che trasformerà entrambi prima che si possa dire: questa è l’immagine, questo è ciò che volevo presentare. E a causa di questo fluire, di questo tendere verso una meta, quale essa sia, anche il lavoro del critico deve essere teso a individuare delle linee, dei tratti nel disegno che sono fondamentali alla costruzione dell’immagine, cercare con le proprie parole di farle emergere affinché l’artista possa trarne stimolo. E anche nel mettere in luce quello che pare un difetto, bisogna usare delicatezza, perché nel difetto possono esserci dei semi di uno sviluppo imprevisto e fruttuoso. Non tutto nasce dritto come una linea. È un difetto di questa civiltà quello di voler raddrizzare, parola molto in uso nell’educazione edipica, la pianta che cresce torta. L’evoluzione è un percorso tortuoso, fatti di sbagli, di svolte, di salti, di tentennamenti e di balbuzie. Con questo spirito quindi mi accingo a trattare dei due studi in oggetto, sperando di armarmi della delicatezza necessaria affinché le parole che riempiranno questa pagina possano essere utili a Tommaso e Amina.
Cominciamo dal lavoro di Tommaso Serratore. Il coraggio di stare è frutto di un laboratorio di 10 incontri con 8 performers. Ma è anche prodotto di un laboratorio tenuto alla Casa Circondariale di Castrogno (TE). Si parla del viaggio e della libertà a partire da alcuni pensieri dal diario di Christopher McCandless, ritratto da Sean Penn nel film Into the Wild. Viaggio e libertà, dunque.
Ciò che è stato presentato al Cecchi Point è un susseguirsi di immagini che prendono vita una dall’altra, senza che si intraveda, e questa credo sia l’intenzione, alcun intento narrativo. Un fiorire di eventi, spesso simultanei in varie aree del palcoscenico, che si formano con ritmi e velocità diverse. Un incontro-scontro di corpi, che tendono a correre liberi nello spazio e nel farlo si limitano e vengono limitati. L’agire simultaneo è spinta e vincolo. È come viaggiare in un campo di asteroidi, a volte le rocce volano in sciame, a volte solitarie, a volte collidono e generano altre collisioni, danzando nel vuoto, leggere seppur pesanti, ordinate dalle forze di attrazione e repulsione, ma anche disordinate dall’incedere casuale del caotico vorticare. Libertà e vincolo, legge e violazione della legge. Ma in questo viaggio bisogna evitare di fermarsi in luoghi conosciuti. A costo di morire di fame, bisogna andare nelle terre selvagge e non farsi ammaliare dal miraggio di conforto di ciò che è noto, la sirena maliarda che porta a perdizione i naviganti. Uscire dallo schema. Lottare con ciò che è facile. Questo è il grezzo che ancora appare, la pietra da togliere affinché appaia la scultura. Tommaso Serratore è un giovane coreografo molto dotato e credo che saprà evitare i rischi e i pericoli. Gli auguro di riuscire a completare questa sua ricerca e lo invito a non avere fretta. Il dio deve essere inchiodato a terra fino a che sfinito non dica la verità.
Il lavoro di Amina Amici, eseguito insieme ad Alessio Maria Romano, ha un titolo intrigante: Luci di carni. E l’intrigo si fa ancor più interessante nel sottotitolo: Caravaggio. La visione dei dipinti del Caravaggio, dei corpi e della luce. Questo il materiale.
Nella visione dello studio traspare però poco della chirurgica e tagliente precisione del Merisi nel far emergere l’interno patimento tramite l’uso della luce. La danza dei corpi è avviluppata da un senso di melanconia accentuata dal terzo movimento della prima sinfonia di Mahler. Nel Caravaggio non c’è traccia di spleen, c’è un agghiacciante luminosità che scolpisce il corpo nell’attimo in cui il suo agire rivela l’intimo travaglio. Prendiamo il San Tommaso. Il dito dell’apostolo penetra nelle carni del Cristo, il cui volto è in ombra, a occhi chiusi. Il solo petto è in luce. Non la ferita però, che è in parte velata dall’ombra della mano che scosta la veste affinché l’incredulo possa trovare la verità. Tommaso ha gli occhi spalancati, come se improvviso capisse: Il corrugare della sua fronte è in piena luce, direttamente illuminato. È ciò che avviene nella sua testa che Caravaggio vuole che si guardi. La luce colpisce le fronti anche degli apostoli che assistono alla prova. Anche loro sono stati visitati dal dubbio non meno di Tommaso. Guardano e il loro è un oscuro scrutare. Invasivo, voyeuristico, addirittura malsano. La luce mette in evidenza questo momento critico. L’ombra vela invece l’immensa mestizia del Cristo costretto a questa ulteriore prova, a questo emergere della carne sullo spirito, al nuovo infierire sul corpo della pochezza degli uomini. Il dramma emerge dalla lotta di luce e ombra ed è agghiacciante. Nel lavoro di Amina vi è la percezione di uno struggimento più sentimentale, più delicato, quasi un atto d’amore. La luce non ha ancora la violenza del Caravaggio, è più discreta. Accarezza, avvolge, non taglia né ferisce. Bisogna cercare una maggiore incisività, abbandonare l’abbandono, offrirsi alla crudeltà, sfoderare le lame, incidere le carni con una luce selvaggia e implacabile. È un atto doloroso e violento, ma necessario. Ma sono sicuro che Amina e Alessio sapranno affrontare questo viaggio. Questo è il mio augurio per loro.
foto: Barbara Calì