Marcel-lí Antunez Roca è stato fondatore della Fura dels Baus ed è uno degli artisti più famosi di Spagna dedito da anni alla creazione di istallazioni e performance meccatroniche.
EP: La performance è qualcosa di sfuggente. Sembra ogni volta che qualcuno cerchi di definirla essa sgusci dalle mani e assuma identità sempre diverse. Comincerei quindi quest’intervista facendoti questa semplice domanda: cos’è secondo te la performance?
ML: Il problema è che la performance è come una puttana: tutti ne reclamano il possesso ma nessuno veramente la possiede. La performance secondo me è quella cosa che avviene tra te e le persone riunite intorno a te in quel momento e che fanno insieme a te un’esperienza. In secondo luogo per me la performance è una copia della vita stessa ma ne è anche un linguaggio che la integra: devi pensare a livello musicale, corporale, vocale, a livello dell’immagine e della tecnologia. Questo è il suo aspetto positivo. Altre forme di espressione sono, secondo me, riduttive. La performance invece è una forma di artistica che riesce a esprimere in tutta la sua potenza la forza della vita. Certo anche il teatro ha queste qualità, ma partendo da molto lontano, ha forse troppa struttura alle spalle. Io comunque non sono un partigiano, uno che crede solo in una forma di espressione. Quello che mi interessa è il racconto di una vita, della vita, che si sviluppa qui e ora in tempo reale. Questo è per me la performance.
Devo dire comunque che ci sono altri artisti che tendono a definire in maniera più stretta la performance. Io credo però che questa tassonomia delle arti, questo volerle definire, sia un processo riduttivo. Quello che mi interessa sarebbe mettere in questione questo voler definire l’atto creativo. Quello che mi interessa è ciò che apre, sono le azioni che tagliano e attraversano le frontiere.
EP: In tutti questi anni di ricerca ho trovato una sola definizione che mi ha veramente soddisfatto. È di Attanasio De Felice e recita così: “la performance è un terreno flessibile per testare delle idee”. Questo mi ha convinto: l’idea che ci sia un luogo aperto in cui testare delle idee senza che esse vengano rinchiuse in un recinto preciso, un luogo dove ciò che accade sfugge alle definizioni.
ML: Sì lo credo anch’io. Inoltre diciamo che il linguaggio performance a partire dagli anni ’60 a oggi ha maturato, come dire, delle formule ricorrenti: il corpo nudo, la materialità, la tecnologia. Pensa che l’anno scorso su facebook ho trovato perfino un decalogo su come si può diventare performer.
EP: Sfuggendo alla definizione, qual’è secondo te la funzione della performance?
ML: La prima funzione direi che è propria all’agire dell’artista: trovare una forma di azione che pensa il mondo, una forma di pensarlo e spiegarlo in maniera del tutto personale. Questo è comune a tutte le arti non è proprio della sola performance. Poi c’è un secondo punto di vista e questo è più specifico della performance. C’è il transfer tra ciò che fa l’artista e chi partecipa come osservatore. Tu artista puoi ascoltare quello che accade mentre agisci. Non è un atto trasferito e mediato come la letteratura o il cinema. Questa energia fisica che si trasmette tra l’artista e il suo pubblico è ciò che trovo molto interessante. E questo è interessante anche per il pubblico che è lì in quel momento e può sperimentare la sua connessione con ciò che sta avvenendo fisicamente davanti a lui. Questo può essere una rivelazione per entrambi performer e pubblico. Io ho avuto la fortuna, soprattutto all’inizio con la Fura, di sperimentare questa sorta di esperienze shock e trovo spesso gente che dopo venticinque anni mi parla di scene di alcuni spettacoli che gli sono rimaste impresse in maniera indelebile. Credo che sia difficile trovare questo in altre forme di espressione artistica.
EP: Un’ultima domanda: tu hai fatto esperienza prima con la Fura e poi ti sei dedicato alla performance. Hai frequentato entrambe le frontiere di sperimentazione. Mi incuriosisce sapere se c’è e nel caso qual è la differenza nell’uso del corpo nei due ambiti. Cambia l’utilizzo del corpo nelle due arti?
ML: Cambia certo. Ma cambia anche perché il tempo passa. Il mio corpo non è più lo stesso degli anni ’80. C’è una trasformazione graduale. E il pensiero è legato al corpo. Uno pensa con la propria corporalità. Non si pensa senza il corpo.
Poi c’è un passaggio fondamentale. L’avvento del digitale che porta il corpo ad avere una realtà aumenta da esperire e che era impossibile negli anni ’80. La tecnologia ha portato un nuovo modo di esperire il corpo e nel frattempo anche io sono cambiato, ho deciso di lavorare da solo, principalmente per una questione produttiva, da solo è più semplice. Questi due fattori, il lavorare da solo, l’avvento del digitale, delle realtà aumentate, e il mio naturale invecchiare hanno fatto sì che il mio lavorare col corpo sia naturalmente cambiato. La tecnologia porta poi un altro aspetto nell’uso del corpo. La tecnologia non ti permetta di pensare a come stai in scena, necessita di attenzione, di ascolto, di precisione nell’utilizzo. Questo è diverso che preoccuparsi solo del corpo che si muove nello spazio. È proprio una cosa completamente diversa.
Questa intervista a si è svolta il 15 dicembre 2016 durante la terza edizione della Venice International Performance Art Week di Venezia;