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Maria Grazia Cipriani

PINOCCHIO di Maria Grazia Cipriani

Secondo capitolo della rassegna dedicata a Maria Grazia Cipriani, Pinocchio (2006) è uno spettacolo perfetto che segna con decisione un passaggio rispetto a Biancaneve, pur mantenendo vivo l’incontro tra poesia e crudeltà, tra sogno e realtà già presenti nell’opera manifesto del 1983.

Il palco del Pinocchio di Maria Grazia Cipriani è un’arena semicircolare delimitata da quinte armate in cui si aprono porte e finestre che collegano il mondo di fuori con il mondo di dentro, con l’inconscio di Pinocchio, con i suoi desideri e le sue paure. È una plaza de toros polverosa, sporca, intrisa di sangue e sudore. Il domatore fa schioccare la frusta più e più volte, con fragore e violenza, mentre Pinocchio riprende a correre e a saltare disegnando sulla scena il cerchio immaginario dell’eterna ripetizione, che è anche la meravigliosa condanna del teatro. È un Pinocchio che non ha bisogno di maschere quello di Giandomenico Cupaiolo, salvo il naso posticcio che gli viene gettato addosso quasi con spregio. Dalla porta centrale una masnada di maschere irrompe sulla scena come una danza macabra: ci sono il gatto e la volpe, ci sono due coniglietti, la lumachina e la fatina, avanzano con i movimenti di marionette guidate dal fato, non c’è bisogno di fili nè di un demiurgo. La morte è già di scena senza bisogno di presentazioni. In pochi passaggi siamo dentro la storia, meglio ancora, nella mente di Pinocchio che è già ventre della balena, e come fa percepire il suono amplificato del gocciolio di un rubinetto chiuso male, siamo nel bel mezzo di un incubo: quello del Gran Teatro di Mangiafuoco. A questa situazione iniziale si tornerà nel prefinale a chiudere il cerchio, mentre a livello sonoro (magistralmente curato da Hubert Westkemper) quel gocciolio di un rubinetto avrà a tutto tondo le dimensioni sensoriali del ventre della balena.

Se tutto accade nella mente di Pinocchio, l’unico dialogo possibile è quello con la fatina dai capelli turchini, che però a sua volta scaturisce dall’inconscio ed è condannata a morire e rinascere in eterno nella mente del burattino (“Rivivisci” singhiozza Pinocchio inginocchiato su una lapide fatta solo di polvere). Tutte le altre relazioni non sfociano mai in un confronto verbale, compresa quella con il gatto e la volpe nell’episodio degli zecchini d’oro che diventa un esilarante gioco dei mimi, dove Pinocchio interpreta a suo discapito la pantomima e appare come solo artefice dell’inganno, vittima dei propri incubi e delle proprie tentazioni, per diventare davanti al guidice l’unico colpevole. Anche l’incontro con Lucignolo, che lo spinge a deviare il cammino dalla retta via per seguire il miraggio del Paese dei Balocchi, è un monologo in cui Pinocchio si lascia pian piano convincere dalla tentazione fino al totale autoconvincimento (l’esito è però già preannunciato dal rimbalzo ripetuto di una pallina in funzione di memento mori e dall’apparizione di un Mangiafuoco trionfante alle sue spalle). Una giacca vecchia e logora è invece l’unico segno della presenza di Geppetto, metafora del bisogno e del senso di colpa. Siamo dentro al sogno dall’inizio alla fine, non c’è spazio per un genitore in carne ed ossa.

Nella visione di Maria Grazia Cipriani è un destino segnato fin dall’inizio quello di Pinocchio, già scritto in quel desiderio di Geppetto di fabbricare un burattino di legno che “deve ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali”, scritto nella polvere dell’arena del circo da cui non può uscire, in cui è condannato a ripetere e a ripetersi, a rappresentarsi all’infinito. Così il viaggio nella favola di Pinocchio diventa metafora del teatro e il finale in cui Pinocchio riconquista il proprio corpo, mentre il suo doppio Lucignolo con la testa di asino esala l’ultimo respiro, non è una vera liberazione dalla prigione del circo di Mangiafuoco, è un’uscita di scena provvisoria da una circolarità senza la reale possibilità di una via di fuga.

Pinocchio di Maria Grazia Cipriani è un autentico capolavoro di drammaturgia, frutto del lavoro di una compagnia (il Teatro del Carretto di Lucca) che alla povertà di risorse risponde con abilità tecnica, sapienza artigianale, qualità attorica e un lavoro di ricerca che scava letteralmente nelle profondità dell’animo umano.

Nicola Candreva

Ph: Filippo Brancoli Pantera

Maria Grazia Cipriani

BIANCANEVE di Maria Grazia Cipriani

Il viaggio ripercorso dalla Biennale Teatro nel mondo favolistico di Maria Grazia Cipriani e del suo Teatro del Carretto, nato dal sodalizio con lo scenografo e costumista Graziano Gregori, inizia con la Biancaneve del 1983, anno di nascita della compagnia e prima tappa di questo trittico di opere che attraversa tre decenni e che comprende Pinocchio e Le mille e una notte.

Biancaneve di Maria Grazia Cipriani è uno spettacolo che da più di trent’anni affascina il pubblico di tutto il mondo al punto che sembra di tornar bambini. Ci si emoziona davanti al teatro di burattini che apre le ante agli artifici delle sue macchine, tra quinte mobili, sipari in miniatura, effetti sonori e illuminotecnici e una profondità di campo che si addentra fin nel cuore del bosco, rivelando alle spalle di un microscopico burattino curato in ogni aspetto, dalle proporzioni al costume, la macroscopica presenza sullo sfondo di un lupo affamato che avanza seguendo le tracce della preda, mentre aleggia nella sala l’aria pucciniana “Sola… perduta e abbandonata” che prelude alla morte nel deserto della Louisiana di Manon Lescaut. L’incombere della morte si respira come un leitmotiv.

Il gioco delle proporzioni inserito in un contesto di cura maniacale dei dettagli regala sorprese anche dove sembrerebbe impossibile, data la conoscenza universale della favola dei fratelli Grimm (sebbene la versione Disney, ben più nota, ne abbia edulcorato gli aspetti più inquietanti). E così, mentre nella scatola scenica Biancaneve si addormenta in uno dei sette lettini, dopo aver mangiato e bevuto da una tavola in miniatura perfettamente imbandita, l’ingresso dei nani avviene, da una quinta del palcoscenico, su un trenino di monocicli legati tra loro e sono sette nani di cartapesta a grandezza naturale che, guidati da tiranti, entrano nel teatrino per riapparire poco dopo come minuscoli burattini. O ancora, la perfida matrigna si interroga su chi sia la più bella del reame in una scatola di specchi che moltiplica la sua piccola immagine, ma la sua ira è di carne e ossa e le dimensioni sono quelle della bravissima Maria Teresa Elena, unica attrice in scena, che appare gigantesca quando esce dal teatrino con l’espressività immobile di una maschera solo dipinta, con gli occhi di bambola spalancati, senza un battito di ciglia. Ecco che la regina cattiva appare più macchina dell’intero ingranaggio che si anima alle sue spalle, con una gestualità codificata come in una danza rituale di sapore orientale e alla seconda uscita ha già perso la sua carica orrorifica strappando sorrisi. Poi quando si arma di una maschera, questa volta di cartapesta, per diventare la buona vecchietta che porta i doni a Biancaneve (e sono doni minuscoli che porge alla marionetta all’interno del teatrino) il gioco è fatto, il personaggio ti ha conquistato e diventa la tua guida nei vari passaggi della favola, attraverso il suo travestimento e le sue azioni sempre identiche. La regina è però una guida cattiva e interferendo nella vita idilliaca di Biancaneve, che fa le pulizie domestiche in attesa dei sette nani di ritorno dal lavoro, si pone in mezzo tra il pubblico e la scena indossando le vesti, tanto care alla sensibiltà del romanticismo tedesco nei confronti dell’inanimato, di un autentico automa. Quello che accade all’interno del teatrino, grazie agli effetti scenici e all’abilità tecnica dei manovratori (Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani e Andrea Jonathan Bertolai), è invece di segno opposto: il mondo dentro la fiaba si colora di un realismo più autentico del vero, come la grotta dei minatori ricostruita con tutte le attività che vi si svolgono, con micoscopici picconi, scale e carriole. Un piccolo cinematografo in presa diretta che regala un mondo di sogno, popolato di angeli, come i nani, e demoni, come la marionetta della strega quando, su un piatto di grandezza sproporzionata a sottolineare l’importanza dell’oggetto, divora le interiora rosso sangue del capretto pensando di mangiare quelle di Biancaneve.

Tutto è doppio, ma la confusione tra vero e falso è tenuta sotto controllo da uno sguardo sempre ironico che limita la forza dirompente dell’incubo, così come la voce narrante (off) è la voce calma e rassicurante di una mamma che racconta una storia ai bambini per farli addormentare, non senza aver lasciato un segno.

Un utilizzo di grande effetto di scelte musicali che spaziano dalla sinfonica alla lirica, e mai a caso, regala perle come il ballo tra il principe e Biancaneve sotto le note di Madama Butterfly, che riesce a instillare un senso di precarietà anche al necessario lieto fine della favola.

Una macchina scenica perfetta questa Biancaneve di Maria Grazia Cipriani che dopo oltre trent’anni non ha perso smalto e non smette di far sognare.

Nicola Candreva

ph. @Tommaso Le Pera