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Paola Bianchi

PROVE DI ABBANDONO Paola Bianchi e Ivan Fantini

Abbandono. Parola complicata. Un oscillare tra positivo e negativo, entrambi bordi d’abisso. Da una parte un dare in balia, dall’altra un lasciar andare, un affidarsi completamente. E questo fluttuare è ambiguo anche nell’etimo. A bandon, vendere all’asta, all’arbitrio del miglior offerente; oppure Ab Handen, l’essere fuor di mano di un oggetto, un lasciarlo andare al suo destino, come una barchetta al destino dell’onda, un lasciarlo esistere con le sue forze senza imbrigliarlo nella funzione. Se a questo metafisico dondolio si aggiunge la parola: prova, tutto si fa ancor più complesso nel suo tendere ai confini di due estremi.

Le azioni coreografiche di Paola Bianchi e le letture di Ivan Fantini, dal suo libro educarsi all’abbandono: frammenti mutili, sono dunque agite tra l’essere lasciati e il lasciar andare. Una danza composta di gesti attivi, a volte violenti, ma subito lasciati, abbandonati. Un corpo in movimento, a scatti, frastagliato nei ritmi, schizofrenico nell’agire degli arti a diverse velocità e ritmi, nel perpetuo dondolio tra il lancio e l’abbandono a una caduta, sia essa tragica e non voluta, sia essa volontaria.

E poi il testo di Ivan Fantini. Episodi, stralci, frammenti di un agire-patire a volte in una cucina ossessionata dallo sfrigolar di carni su una griglia, che ricorda un po’ gli inferni di Emanuel Carnevali nelle cucine d’America; a volte in una campagna popolata da animali dotati della potenza dello spirito dei tempi antichi, con oggetti dotati di forza, di significati che vanno ben oltre il loro consueto. Un essere accerchiati da azioni, cose, animali che potenti oltre ogni dire, lasciano in balia, abbandonato alle proprie miserie, a pensieri vorticosi che non trovano sbocco perché avulsi da una natura che se ne frega del nostro rimuginare.

Danza e parola, corpo e suono, perché musicisti si alternano nei diversi luoghi improvvisando sonorità che si intersecano con i diversi stati e strati di abbandono. Anche i luoghi dove avvengono queste azioni è significativo: in abitazioni private, in luoghi abbandonati, oscillando tra il privato e l’assente, dove il pubblico è lì per invito, come ospite, non come a teatro dove paga ed entra a godersi l’intrattenimento. Certo, molti diranno, mica da oggi si fanno azioni artistiche, performance, in casa o in luoghi che non siano teatro, mica c’è da stupirsi. Eppure il consueto è portatore di fresche brezze di senso. Non perché abbiamo sentito mille volte il tema dell’habanera di Carmen, il senso di pericolo e di furiosi spiriti liberi e vitali vien meno, anche se viene usata per pubblicizzare un detersivo. La maestria del fare, dell’artista vero che agisce solo perché spinto da intime esigenze che profonde scuotono il suo essere, non cade mai nello scontato. Solo il mestierante e il dilettante ricadono nel circolo vizioso della consuetudine, perché incapaci di sfuggire all’attrazione del consenso, del facile, dell’ovvio. La commozione, come insegna Morandi con le sue nature morte, – sempre quelle bottiglie, sempre loro -, può abitare anche sulla tavola grezza della casa di campagna.

Foto: Alice Guarini

PAOLA BIANCHI: DA ZERO A INFINITO

:«…sento che c’è bisogno di un RITUALE, che sia ASSURDO dal punto di vista della vita, ma capace di attirare l’oggetto nella sfera dell’arte»

Tadeusz Kantor

:«C’è una cosa che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico»

Marcel Duchamp

Domani sera 24 marzo all’interno di Slavika, alle Officine Corsare alle ore 21 verrà presentato Zero di Paola Bianchi. Lo consiglio a tutti coloro che sono innamorati del Teatro e della Danza. Sì! Quelli con la maiuscola davanti.

Cos’è Zero? Zero non è niente. Zero è la massima potenzialità. Zero è il numero del Matto nei tarocchi, la carta di chi avanza verso l’abisso, lo sguardo verso l’orizzonte, la sacca e il bastone del viandante e un cane che gli morde i calcagni quasi a impedir l’andare verso un dove sconosciuto perché la carta non ha paesaggio né orizzonte.

Zero è una performance piena di questo nulla, di ciò che non ha determinazione e quindi può esser qualsiasi cosa. Il suono per esempio, questi soffi e respiri, son quelli di Kantor, i silenzi tra una parola e l’altra, mentre registrava alcune di quelle parole che hanno segnato indelebili la scena. I respiri tra le parole, quelli che nessuno calcola. È la parola ciò che importa! La parola del Maestro! E invece Paola Bianchi sceglie quei respiri tra due mondi, quei suoni che raccolgono la fatica di aver detto e preparano con nuova forza il dire che ancor non è.

Ma, come dice Paola Bianchi, Zero non è uno spettacolo su Kantor. E come si potrebbe? Ciò che Kantor faceva accadere sulla scena apparteneva solo a lui, alla sua vita, i suoi ricordi, i suoi fantasmi, i suoi oggetti provenienti da quella realtà dal rango più basso che lo affascinava. Una Generatio Aequivoca che non era rappresentazione né interpretazione. Era un prendere vita delle cose e delle persone come nei racconti di Bruno Schulz, in cui nel pieno mistero della vita che si autogenera non vista, e crea drammi cosmici, deflagranti efflorescenze incontrollate, misere, devastanti, caleidoscopio di possibilità non prese in considerazione, scartate, messe là nell’angolo perché in qualche modo non degne di attenzione. Questo in fondo è Zero di Paola Bianchi: un viaggio alla ricerca di quei corpi e di quegli oggetti abbandonati in una soffitta, oggetti e corpi che danzano e parlano senza esser visti, nel vuoto cosmico tra i granelli di polvere che lenti si depositano su di loro. Un lento deambulare di quei manichini pieni di vita, via di mezzo tra un morto vivente e uno spaventapasseri, quel camminare incerto di essere tra la vita e la morte, in quell’eterno confine tra un aldilà e un aldiqua, in quel confine pieno di spasimi, di afflati, di sussurri che dicono tutto senza dir nulla.

Zero è un’esperienza che nulla ha a che fare con l’estetica. Se qualcuno pensa di andar a vedere uno spettacolo che rappresenta un momento di svago, stia pur a casa. Zero è un dramma, di quelli veri, di quelli tosti. Il dramma dell’esserci prima di sparire. Esserci e agire, sotto una luce tenue per un momento, un istante colmo di tremule potenze che scuotono l’aria prima di ritornar nel buio. Ci si strugge a veder quel vecchio sul fondo, con il suo bastone, camminar a fatica, tra i sussurri, verso non si sa dove, forse solo a girar in tondo senza un perché, forse nel pieno di un’intenzione così forte da sfuggir alla morte e all’esser dimenticati. E quella figura che danza scomposta, come un manichino a cui si son rotte le membra o un burattino a cui si sono intrecciati i fili. E quelle cose là? Quelle abbandonate sul palco, non in una discarica dove il cumulo può almeno significar la fine di una funzione, no! Abbandonate nel vuoto nero del palco, prive di appigli, di funzioni, di assenza di funzione, nel semplice esser lì con le loro mute domande.

Zero è tutto questo. Non parla di Kantor, ma Kantor nel vederlo, magari seduto su una vecchia sedia a bordo del palco, avrebbe sorriso, scorgendo un orizzonte da lui a lungo percorso e attraversato. Poi si sarebbe alzato e senza dir nulla, come una delle sue figure, se se sarebbe andato nel buio del retropalco, senza salutare nessuno.

TRE UNO di Fabio Liberti con Elita Cannata, Davide Valrosso, Anna Jirmanova

Tre Uno, viene definito sul programma di sala come un viaggio. Definizione fatta tramite domande: verso cosa? Attraverso cosa? E cosa c’era dentro? Sono le stesse domande che si pone lo spettatore alla fine dello spettacolo. Un palco ricoperto di palloncini neri. Sul proscenio una linea bianca, netta. Poi una danzatrice che compie i primi passi in questo mare nero di palloncini. Segue l’entrata degli altri due danzatori, la linea diventa un quadrato che racchiude e da cui si evolve un paesaggio naif, con casette dal tetto a punta e comignolo fumante, albero in giardino e uccelli in volo. I palloncini scoppiano, diradano per lasciare lo spazio a questo paesaggio infantile ed elementare. Infine il buio in cui echeggia il suono dei palloncini scoppiati. Questo il viaggio. Una proposta un po’ troppo naif, ingenua, infantile, nel senso di rifarsi agli stereotipi iconografici dell’infanzia. Benché work in progress non sembra che questo lavoro possa riservare sorprese verso una complessità che doni spessore. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una visione basica, estremamente lineare, a un messaggio di banale ottimismo del tipo: la marea nera che circonda il nostro agire sarà rasserenata dall’azione creatrice e immaginatrice. Ma l’immaginazione proposta è costituita da stereotipi, da schemi ripetuti e frusti. Tra i lavori proposti fino ad ora alle Lavanderie a Vapore nella rassegna Permutazioni, progetto, lo ricordiamo, di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, Tre Uno è sicuramente il lavoro più debole e scontato. Elias Canetti diceva: “Solo ciò che tocca la collettività nel suo insieme mi pare degno di essere rappresentato”. A questo pensiero non posso che associarmi. In questa contemporaneità afflitta da innumerevoli conflitti sociali ed economici, non servono risposte semplici e banali. Serve uno sforzo per comprendere, per poter vivere e forse solo in questo risiede una possibile funzione per le arti. Non serve a niente e a nessuno una confortevole visione, serve essere crudeli, come può esserlo un medico che incide la carne per raggiungere il male.

Foto: Fabio Melotti

TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti

Paolo Agrati

CONVERSAZIONE CON PAOLO AGRATI

A volte ci sono delle serate che ti riservano delle sorprese, che nascono un po’ per caso, come quando a Torino, in san Salvario, capita che fai un aperitivo e ti trovi Paolo Agrati e ne nasce una bella conversazione.

Enrico Pastore: Paolo Agrati vorrei cominciare da una curiosità: qui a Torino si è formata una scena poetica sviluppatasi in un territorio senza grande tradizione, il Piemonte è più legato al romanzo, e forse in questo è stata più libera di scegliersi strade inconsuete. Tu invece sei brianzolo, vivi in una zona che gravita intorno a Milano, una città che è stata un centro di diffusione di grande poesia (penso a Marinetti, Antonia Pozzi, Clemente Rebora, ma non solo), ed è stata anche punto di riferimento per certa canzone poetica e ironica, e qui penso a Gaber e Jannaccci su tutti. Questa tradizione importante ti ha in qualche modo influenzato? Ha pesato sul tuo cammino poetico? Oppure non ne hai per niente tenuto conto?
Paolo Agrati: No, al contrario. È un’ottima osservazione. Guarda ti dico: mio padre faceva il regista nel teatro milanese amatoriale e ha anche lavorato con Mazzarella. Hai presente Mazzarella? Quello che faceva il barbone nel Povero ricco con Pozzetto. Lui era un attore di teatro che lavorava molto nel teatro dialettale milanese, che è un teatro grasso, anche un po’ sempliciotto, ma che se lo fai bene può essere molto bello. Io sono cresciuto con l’attaccamento al teatro in dialetto milanese. Penso anche a Walter Valdi, quello che ha scritto per Jannacci Faceva il palo, o a Pozzetto, io lì ho visti fin da bambino, Valdi, ad esempio, era di casa come Mazzarella. Vedo quest’ambiente più come un ricordo d’infanzia. Non so se mi abbia influenzato anche come poeta, credo di no. In più devo dire che io alle superiori avevo un professore, Luigi Cannillo, che è un grande poeta. È stato uno dei miei maestri, e mi ha insegnato molto, tipo la capacità di costruire immagini, o di non usare troppi verbi, che sembra una stupidaggine, però più verbi metti più l’azione si complica. Lui mi ha fornito, diciamo, gli strumentini del mestiere, quelli che uso sempre, e con lui ho girato un po’ i circoli, dove c’era Maiorino, poeta milanese, la Casa della Poesia, il Parco Trotta dove c’erano i poeti, non quelli della tradizione ma quelli che facevano poesia in quel momento. Li ho visti, ma un po’ me ne sono allontanato. Credo quindi di lavorare in modo diverso. Dopo aver gustato la parola scritta ho preso un’altra strada. Per esempio il mio primo libro Quando l’estate crepa aveva un tono molto tragico. Il secondo libro parla di distanze e lì comincio a masticare un linguaggio diverso, comincio a distaccarmi da una classicità nella poesia. Il terzo libro infine faccio proprio quello che voglio. È diviso in due parti Amore e Psicho, dove mi rivelo un po’ come Dottor Jakyill e Mister Hyde.
Però, mentre ci penso, a questa tua osservazione, mi viene da dire che in fondo più che aver subito un influenza poetica, ho vissuto un ambiente poetico. E poi devo dire che in effetti l’attività degli slam, non è a Milano, ma in Brianza o in provincia. È tutto delocalizzato. Noi a Milano facciamo fatica a portare questo tipo di poesia. Alla Casa della poesia ci sono solo le cose super ufficiali. Quindi devo dire che hai ragione da vendere a dire che qui a Torino non si ha così tanta tradizione a cui aggrapparsi, rispetto a Milano. Se la vedi da distante, Milano, sembra un po’ un punto di riferimento poetico rispetto a Torino e quindi far pensare che questa tradizione pesi o influenzi l’azione di noi che facciamo poesia.

EP: Come sei venuto a contatto con il mondo degli slam?
PA: Conosci La Scighera a Milano? È un locale di anarchici, molto bello, dove sono venuto a contatto con lo slam come lo conosco. Sono andato lì e ho vinto. Era un locale che frequentavo, mi piaceva, e così ho partecipato dure, tre, quattro volte. Ho cominciato così. Poi dopo aver pubblicato il primo libro con la Lietocolle e aver vinto un premio, mi son detto: cosa faccio? Mi metto dietro la scrivania oppure faccio qualcos’altro? E così ho cominciato a preparare una sorta di spettacolino di venti minuti. C’era un manichino che io spogliavo. E lì ho capito che era meglio far passare la poesia dal palco. Poi c’è stata l’esperienza con la Spleen Orchestra. Tutte queste situazioni hanno fatto sì che sviluppassi un rapporto con il pubblico e con il palco, che raffinassi piano piano la mia capacità di interazione con il pubblico. Tornando allo slam quel tipo di competizione poetica ti insegna molto sul comprendere il pubblico che hai di fronte e sul gestire le energie. Per esempio una volta m’è capitato di vedere Nanni Svampa. Quella sera c’era anche un altro tizio che si sbracciava sul palco, si muoveva in continuazione. Poi è arrivato Nanni Svampa, spostava solo un cavo con il piede e la gente rideva, ma non perché era ridicolo, ma perché lui era presente, era la presenza, la capacità di stare lì, gestione dei tempi, delle energie. Lo slam mi ha dato questo. Mi ha insegnato queste cose.

EP: Paolo tu sei un poeta che frequenta molto gli slam, cosa diresti a chi pensa e sostiene che questa non sia poesia?
PA: È tutta fuffa. Chi sostiene questa posizione è chi si trova spiazzato e che non riesce più a comunicare. Qual è l’artista che è testimone del suo tempo? Quello che riesce a capirlo. Lungi dal volermi paragonare, ma pensiamo a Warhol. È quella roba lì. Capisci cosa sta succedendo. E un buon poeta, senza diventare il Warhol di questo secolo, deve capire che la poesia è un mezzo di comunicazione, che compete con altri mezzi di comunicazione che sono più freschi, più dinamici. Ripeto: non c’è nessuna lotta se non quella del poeta che si trova spiazzato e non riesce più a parlare con nessuno. Non si trova nella modernità e quindi la schifa. Per quanto mi riguarda, quando avevo diciotto anni e ho vinto il primo concorso, premio che mi ha salvato all’esame di maturità, ho visto che la gente non vedeva l’ora di leggersela da solo questa poesia, guardava in giro disattenta, insomma una serata noiosissima e mi son chiesto: ma io voglio fare questa cosa qua? Poi c’è un’altra cosa che vorrei dire: c’era qualcuno, non ricordo esattamente chi, forse Picasso, che diceva: il gusto è per gli stupidi. Cosa vuol dire? Che il gusto mi porta a mettere la maionese sul tiramisù. Il problema è che bisogna capire uno sforzo creativo. Se hai anche una piccola predisposizione verso l’esterno, lo sforzo creativo lo capisci e non ti deve per forza piacere. Comprendi che c’è un equilibrio o un disequilibrio, che c’è una costruzione. È lì il punto. E poi la poesia orale non esclude quella scritta, per questo dico che non c’è lotta. Comunque diciamocelo, io sono anche un po’ stufo di quelli che mi dicono cos’è la poesia. Che poi non è neanche la domanda. È la risposta. C’è gente che vuole dare la risposta e uno lo capisce già a sedici anni che non si può dare una risposta.

EP: È molto giusto quello che dici e purtroppo c’è sempre chi vuol cercare di definire e mettere confini. Ma parliamo di poesia orale e dal vivo: è un dato di fatto che la gente legge poco eppure gli slam e i reading attirano molto pubblico. Non pensi che sia un’esigenza di condivisione, di sentire più che di leggere, di fare un’esperienza dal vivo e non relegare la cultura a un fatto privato?
PA: È vero. Anche se la poesia orale non esclude quella scritta. E bisogna dire che la poesia comunque in qualche modo chiama la pagina. Scrivere una poesia è una cosa complessa, richiede molto tempo a volte, un lavoro di cesello sulle parole per trovare quelle giuste, il giusto suono. Anche nella poesia orale esiste questo lavorio, ma serve un’esigenza diversa. Un poeta cosa prende dallo slam? La consapevolezza di avere un corpo e una voce. E una sorta di umiltà, perché metti la tua poesia nelle fauci del pubblico. Accetti il giudizio del pubblico. E se non piaci non è perché il pubblico non capisca un cazzo, perché non è questione di capire, ma di sentire, e può benissimo darsi il caso che hai sbagliato, che non hai fatto la cosa giusta. Bisogna essere umili e ascoltare. Lo slam sta creando un linguaggio nuovo, altro. Un linguaggio costruito sul corpo, che a volta non ha bisogno neanche della pagina, perché le poesie sonore, i suoni sono difficilmente riproducibili sulla carta. A volte appaiono noiosi o orribili. Nel reading invece succede un’altra cosa ancora. Il reading è un viaggio all’interno delle molte facce del poeta. Io lì doso tutti gli elementi, la parte ludica, la parte romantica, una più dura. Nello slam invece devi dare tutto in tre minuti.

EP: Quali sono i tuoi progetti attualmente?
PA: Spero di andare al Festival di Lima in Perù. Ho un libro in lavorazione in Cile con una piccola casa editrice. Anche questo da confermare. Sto anche scrivendo il prossimo libro, composta da piccole poesie sui suicidi anche se non ho nessuna intenzione di uccidermi. Sarà un libro illustrato. Infine, sto cercando di fare un disco. Diciamo che quest’anno mi dedico al multimedia.

she she pop

SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.

Virginie Brunelle

COMPLEXE DES GENRES di Virginie Brunelle

Tre corpi ibridi. Metà maschio, metà femmina. Avvinti in un amplesso danzante. Una danza classica, ironicamente parodistica con tanto di tutù, su questi corpi improbabili, di genere misto. E il requiem di Mozart a invocare un’altra congiunzione, divina e inquietante: Eros e Thanathos.
Al tema segue lo sviluppo con le sue infinite variazioni. I generi, maschile e femminile, in perpetua relazione che sia di scambio, d’amore, di comprensione o di lotta, ma sempre con la sensazione di aver perso qualcosa, di non aver raggiunto l’essenziale, in costante ricerca di una sostanza sempre sfuggente. Una danza delicata e espressiva nonostante l’audacia acrobatica delle forme, un’audacia velata sempre di profonda malinconia. Virginie Brunelle, nonostante la sua giovane età (nata nel 1982), possiede già una maturità espressiva e compositiva impressionante. Ma forse qui il problema è tutto italiano, in un paese dove un cinquantenne è una giovane promessa.
Come in un componimento di Mozart dove convivono molteplici invenzioni anche di segno opposto, in Complexe des genres, la complessità dei generi e il loro reciproco rapporto si sviluppa in figure animate da ritmi e respiri di battito differente: violenza e tenerezza, sensualità e algida frigidità, malinconia e gioia, classicità e barbarie. E infine la speranza che alla fine del percorso si trovi un modo per comunicare, per interagire senza ferirsi per infine capirsi o forse solo per convivere. Un volo di aeroplani di carta, di speranze lanciate verso l’alto nonostante la certezza della caduta. Eppur resta il tentativo, reiterato, motivato dalla fede in un’improvviso cambio di rotta che smentisca le leggi della fisica.
Virginie Brunelle tesse con abilità le forme ai linguaggi, intrecciando la musica ai corpi danzanti in un scaturire di sensazioni inaspettate. E così il neominimalismo della musica di Max Richter, nell’ossessivo ripetersi di sé richiama il continuo incepparsi della comprensione della coppia danzante che si seduce e si lascia incapaci di superare la differenza per un momento dimenticata nel flusso dell’attrazione. O come quando l’inno alla gioia è contrappuntato dalla violenza dello scontro, dalla violenza della separazione, dall’urto di uno scontro che è desiderio e repulsione. A volte invece il contrappunto diviene armonia come il notturno di Chopin vena di dolce malinconia il reciproco non capirsi. Una scrittura artistica senza incertezze che esalta l’arte antica della composizione.
Complexe des genres è uno di quei lavori che restano impressi, di quelli di cui ci si ricorda perché risuonano nell’animo per lungo tempo, perché evoca e non afferma, non dice ma contiene e rilascia, dona e non pretende nulla in cambio.

Peeping Tom

VATER (FATHER) – di Peeping Tom

Siamo in uno scantinato. Nessuna percezione del mondo esterno. Dalle finestre in alto e sul soffitto penetra una luce uniforme, sempre mortalmente uguale. Qui il tempo non passa mai. La moquette rosso vivo e le pareti azzurrognole ricordano un po’ un sogno di David Lynch. Un mondo sospeso per chi non è ancora morto, per chi è già definitivamente escluso dai vivi. Questo luogo è una scalcinata casa di riposo. Qui si sviluppa l’ultima avventura del padre. Abbandonato dal figlio vive tra i ricordi, le proiezioni dei propri desideri e le terribili consuetudini di questa clinica per vecchi, consuetudini portate all’estremo con feroce ironia, consuetudini che non paiono mai innocue.
Più passa il tempo e ci si addentra nella performance, più si comprende che il padre che si staglia sempre più al centro della scena, non è solo un padre, ma incarna Kronos, evirato perché depotenziato, non può fare ciò che vuole non può andarsene da questo Tartaro. Subisce dal figlio lo spodestamento venendo relegato sulla sedia a rotelle in balia di questi assurdi infermieri. Mantiene però suo malgrado la facoltà di ingoiare i figli, di condannarli alla sua stessa condanna, e benché questi lo escludano, lo sfidino, lo combattano, sono fatalmente destinati a subire la stessa fine: farsi cambiare i pannoloni, subire l’oltraggio di essere dipendenti da altri per fare i propri bisogni.
Quella creata da Peeping Tom è una piece di teatro danza piena di domande sospese, questioni irrisolte, di piani di esistenza problematici, di ineluttabili catastrofi affrontate con efferata ironia. In questa danza di corpi molli, schizoidi, incontrollati ci riconosciamo. Agiti come siamo dal tempo che fatalmente ci spinge verso la vecchiaia e alla decadenza del corpo che l’accompagna, avvertiamo il pericolo che si annida laggiù in fondo alla nostra esistenza: vivere di ricordi, aspettare la morte, subire le violenze dei giovani che non si curano di noi, battagliare per riuscire a fare il poco che ancora riusciamo a fare.
È una battaglia frenetica quella che si svolge sulla scena. Soprattutto contro un esercito di scope che costantemente appaiono e spazzano tutto ciò che vive sulla scena, oggetti o corpi che siano, comprese le poche tracce che lasciano. A un certo punto ne appare anche una gigante che pericolosamente minaccia il pubblico e si agita sulle sue teste. Nello spettacolo di Peeping Tom non vi è la rappresentazione della storia di un vecchio padre abbandonato da un figlio, c’è soprattutto l’evocazione di forze mitiche che minacciano la vita di tutti, perché tutti siamo condannati a divenir vecchi e a finire in quello scantinato.
Peeping Tom con ironia feroce evoca forze che vorremmo dimenticare, che si nascondono nell’ombra minacciando il nostro presente e il nostro futuro.

Ph: ©herman_sorgeloos

Pablo Fidalgo

PABLO FIDALGO HABRÁS DE IR A LA GUERRA QUE EMPIEZA HOY

Chiariamo subito una cosa: l’opera del galiziano Pablo Fidalgo non fa certo parte delle nuove tendenze. È un’opera di stampo classico, di quelle che solitamente su queste pagine castigo senza riserve. Eppure questa volta faccio un’eccezione. La faccio volentieri.
Pablo Fidalgo ricostruisce la storia di un lontano parente, Giordano Lareo, e attraverso quest’uomo si tratteggia la storia di Spagna, ma anche la storia di ogni migrante costretto dalla guerra a dover cambiare orizzonte. Giordano Lareo è una figura emblematica, un moderno Ulisse che non tornerà mai in patria. Catturato dai franchisti sfugge per miracolo all’esecuzione, esule in Argentina, traduttore, professore, tesoriere della Repubblica in esilio, patito di origami tanto che pubblicare il primo manuale argentino sull’argomento. La vicenda di Giordano Lareo ricorda per molti versi quella del nostro partigiano Johnny: non si può rimanere indifferenti, bisogna compiere una scelta, bisogna essere di quelli che costruiscono secondo una visione e non essere quelli che subiscono un mondo imposto. Giordano Lareo ce lo dice: io sono quello che sta al di là del vetro. Io ho patito, ma ho conservato la mia libertà. Io posso guardare il dittatore dritto negli occhi perché ho detto no. E voi chi siete? Di quelli che scelgono o di quelli che si voltano dall’altra parte? Bisogna avere un’idea del mondo per tenersi al di qua del cristallo.
Questa visione è ciò che mi fa compiere un’eccezione per quest’opera magistralmente scritta e superbamente interpretata da Claudio Da Silva, attore a sua volta esule dall’Angola, straniero in Africa e straniero nel suo Portogallo.
Ma vi è anche un altro motivo che mi fa apprezzare l’opera di Fidalgo. La vicenda narrata di Giordano Lareo non è chiusa in se stessa. È un paradigma, che permette di veder nella sua singolarità la vicenda di ognuno. L’aria circola tra scena, platea e interprete, tra passato e futuro, tra storia di Spagna e ogni guerra civile. Come il Partigiano Johnny è mito ed è paradigma di una scelta. Un mondo diverso si costruisce a partire da una visione del mondo, dal coraggio di brandire un’immagine e un pensiero costi quello che costi, come Giordano Bruno più volte evocato. Giordano Lareo più volte si chiede: cosa avrà pensato Giordano Bruno entrando quella mattina in Campo dei Fiori mentre lo conducevano al rogo e la folla lo insultava e lo scherniva? Molte cose probabilmente, ma soprattutto che ci sono molti modi di illuminare una piazza. Si può inondarla di luce nonostante il rogo di bruci le carni è la sua risposta. Il proprio dolore, causato dal vivere fino in fondo una scelta, è ciò che illumina il cammino di altri, è ciò che fa si che altri varchino il confine che li costringe dietro al vetro, a non essere come Tonio Kroger tra coloro che guardano dalla finestra la festa della vita, ma essere tra coloro che la vita la possono guardare in faccia, tra coloro che non subiscono, ma tra coloro che agiscono e pagano il fio delle loro visioni.
L’azione sul palco è unica: piccole colombe di carta in un mucchio che piano piano vengono disposte in lunghe file a occupare l’intero palco. Tra queste file infine la danza di Giordano Lareo/Claudio da Silva (ormai le loro storie sono indistinguibili), una danza negli intervalli, tra gli spazi vuoti, una danza di vita tra figure immaginarie.

Jan Lauwers

JAN LAUWERS & NEEDCOMPANY THE BLIND POET

Certo non si può dire che il lavoro di Jan Lauwers e di Needcompany sia minimale. Tutt’altro. Non a caso si sono rispolverati termini wagneriani: gesamtkunstwerk. L’opera d’arte totale. Jan Lauwers più semplicemente usa tutte le frecce al proprio arco per fare dell’opera teatrale un qualcosa che aggredisca il reale con forza reclamando il diritto dell’arte di incidere sulla realtà, di non essere sciocco intrattenimento né stampella del potere. In un periodo di divisioni politiche tra i popoli in cui la migrazione massiccia risveglia temi che si pensavano sepolti, polemiche sterili tra i “puri” e gli “impuri”, Needcompany costruisce sette storie in cui i performers raccontano delle proprie origini risalendo fino al tempo delle crociate. Origini costantemente spurie e non sempre edificanti. Cattolici, protestanti, ebrei e mussulmani, vichinghi, mori, frisoni e fiamminghi. Popoli in movimento da nord a sud e viceversa, accompagnati da guerre, massacri, compravendita di schiavi, avventurieri in cerca di fortuna. Un eterno ritorno dell’uguale in cui le civiltà si scambiano di posto mentre la barbarie resta generata dall’incomprensione e dall’ignoranza degli uomini. E così mentre a Cordoba nell’XI sec. il poeta cieco Wallada Bint Al Mustakfi viveva in una delle città con la più grande biblioteca del tempo, un luogo in cui le donne godevano di pari libertà e il pensiero non era oscurato da integralismi religiosi, Carlomagno era imperatore illetterato in una Europa dominata da paure, invasioni, servitù e ignoranza. Tutto scorre, tutti partecipiamo della medesima eredità, affratellati in questo mondo che respira.
Sul palco convivono tutte le origini e tutte le lingue (a livello linguistico lo spettacolo è un vero scoglio: si parla fiammingo, francese, inglese, tedesco, norvegese, arabo, spagnolo), tutti condividono lo stesso spazio grande quanto l’ampiezza del mondo raccontando le proprie storie. È un mondo possibile, che si può costruire, che si può vivere. Non ci sono utopie in The Blind Poet.
La musica di Maarten Seghers performata dal vivo dagli stessi danzatori è potente, evocativa, commovente. Le scene sono maiuscole, intense. L’uso delle luci sapiente. Uno spettacolo che tiene inchiodati per tutte le due ore e mezza di durata.
Jan Lauwers è un grande maestro del teatro che della sua arte usa tutto il possibile per farne una piattaforma che mette in discussione il mondo e la realtà. Non rifugge i temi scomodi, non rifiuta di prendere posizione e scegliere una visione del mondo.
Come nel distico del poeta cieco siriano Abu Al’ala Al Ma’arri:
Quando la mente è incerta
viene sommersa dal mondo,
come un uomo debole baciato da una puttana.
Quando la mente è ferma
il mondo diviene una donna rispettabile
perché rifiuta i suoi abbracci d’amore.
Jan Lauwers e la sua compagnia hanno uno sguardo fermo di chi sceglie di convivere e condividere il mondo. Nonostante tutto. E il palcoscenico torna a essere il luogo da cui si guarda il mondo, la scacchiera in cui si giocano tutte le possibilità.