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Nuovo Teatro Sanità

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A MARIO GELARDI

Sesto appuntamento per Resistenze Artistiche, questa settimana con lo sguardo a Sud, verso Napoli, per incontrare Mario Gelardi, direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità, una realtà nata nel 2013 in un quartiere ricco di forti contrasti e ora punto di riferimento per i giovani del quartiere. Nuovo Teatro Sanità, la cui sede si situa in una chiesa del Settecento, si contraddistingue per una forte attenzione verso i giovani, sia nella produzione, sia nell’aspetto formativo.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche, lo ricordiamo, si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Mario Gelardi, direttore artistico Nuovo Teatro Sanità

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Ovviamente in pieno lockdown, soprattutto il primo, siamo stati completamente chiusi. Ognuno di noi aveva problemi familiari da affrontare, che venivano prima del teatro. Abbiamo pensato di fare da soli un fondo di solidarietà e dividerci tra tutti il poco che avevamo in modo da poter andare avanti.

La prima apertura per noi doveva essere un momento molto importante, ricco di collaborazioni perché le esigenze legate al numero limitato di posti rendevano comunque impossibile la riapertura. Il Teatro Stabile di Napoli ci ha prodotto uno spettacolo a cui tenevamo molto A freva – La peste al rione Sanità e a cui stavamo lavorando prima del lockdown, durante l’estate; il Museo Madre ci ha aperto le porte per progetti comuni. Altri hanno promesso molto ma poi si sono sottratti agli impegni presi.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Sicuramente c’è stato un ritorno alla scrittura, la necessità di esprimersi era tanta e scrivere è la mia forma espressiva e soprattutto una valvola di sfogo. Come teatro ci siamo fatti promotori di molte iniziative legate a giovanissimi drammaturghi, molti dei quali debutteranno in questa stagione con un loro spettacolo.

Il mio punto di riferimento è sempre stato quello di non far finta di nulla, come artista ed essere umano. Quello che era successo intorno a noi doveva diventare stimolo nel racconto del presente. Come direttore del Nuovo Teatro Sanità ho anche cercato di tener stretta la piccola comunità di artisti che si è avvicinata a noi in questi anni.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Il Comune di Napoli, come sempre ha fatto, si è contraddistinto per la sua totale assenza sia umana che professionale. Quando ci siamo resi conto che il Ministero non aveva previsto aiuti per i teatri sotto i cento posti, dopo aver fatto presente la cosa in più occasioni, abbiamo chiesto aiuto a chi aveva spazi più grandi o la possibilità di farci uscire dal nostro teatro. Penso tra tutti al Teatro Pubblico Campano che è sempre stato in ascolto e in aiuto e il Campania Teatro Festival che ci ha ospitato.

In linea di massima credo che questa esperienza abbia incattivito il mondo del teatro, portando a una sorta di cannibalismo dei grandi verso i piccoli.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Abbiamo fatto dello storytelling. Il nostro pubblico ci conosce, ci identifica, ha un rapporto diretto con noi. Abbiamo iniziato a scrivere storie insieme ai giovani drammaturghi di Dramma Lab, abbiamo inciso brevi podcast che potessero far compagnia.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Non siamo di quelli che hanno giovato di bonus durante il Covid, quindi essenzialmente non cambia niente. Le difficoltà sono tante, la volontà dell’istituzione è ancora una volta quella di fotografare il teatro del passato e di non leggere, intuire, avere la lungimiranza di dove il teatro vada. Crediamo sempre di più che la produzione di spettacoli fine a se stessa non abbia senso. Crediamo nei progetti da condividere con gli artisti, anche per tempi lunghi.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

È stato ammirevole il lavoro che hanno fatto molte associazioni di categoria, cercando di affermare delle regole che gestissero il nostro lavoro. Purtroppo mi sembra che l’ascolto non si sia trasformato in azioni operative da parte del Ministero. Sono state riconosciute molte nuove istanze, ma non basta. La fotografia della situazione del teatro contemporaneo resta a fuoco sulle grandi strutture e sfocata per le piccole realtà. Credo che per i teatri indipendenti le difficoltà aumenteranno, ma mi auguro di sbagliarmi. Vedo come sempre un balletto di nomine, che è un po’ un gioco dei quattro cantoni.

Anna Albertarelli

Resistenze Artistiche: intervista a Anna Albertarelli

Quinto appuntamento per Resistenze Artistiche. Questa settimana siamo a Bologna per incontrare Anna Albertarelli, un’artista di grande sensibilità e un’eccellente pedagoga. Negli anni ’90 comincia come danzatrice e performer la poliedricità dei suoi interesse la porta a esplorare aspetti sociali e antropologici del vissuto umano attraverso azioni performative/ laboratori. Le sue azioni si svolgono prevalentemente nei progetti Corpo Poetico, ricerca per altri movimenti nel campo Danza, Teatro, Disabilità, Integrazione, e Inside<>Outside corpo reale-corpo virtuale, percorso dedicato agli adolescenti.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche, lo ricordiamo, si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Corpo Poetico Incursioni Urbane

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

La mia attività si svolge prevalentemente nelle scuole e o contesti socio educativi, per cui molti progetti specialmente nel primo lockdown si sono dovuti fermare. La modalità su zoom specialmente per i laboratori/progetti con gli adolescenti non erano di aiuto, perché i ragazze/e già sazi e alienati da 8 ore di pc giustamente non mostravano interesse. Con i progetti con la disabilità molti centri diurni o associazioni a cui faccio riferimento non potevano svolgere attività. Risultato: nel caso degli adolescenti aumento degli stati depressivi e di ansia nonché demotivazione verso l’istituzione scuola. Per quanto riguarda le persone fragili con disabiltà totale: isolamento. Da parte mia ovviamente un netto abbassamento delle risorse economiche poiché erano tutti contratti a progetto. Mi piace ricordare sempre che questo è un mestiere e non un passatempo o hobby o volontariato.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Per quanto riguarda i progetti con adolescenti alla luce dei bisogni e necessità che mi dimostravano ho deciso di svolgere attività solo outdoor, e anche con neve, pioggia, vento, ci siamo sempre equipaggiati per lavorare all’aria aperta. Ho chiesto loro di raccontarsi e ne è uscita una trilogia di podcast in collaborazione con Nuvola Vandini e Radio Alta Frequenza chiamate DARE VOCE adolescenza a distanza, praticamente delle cartoline WhatsApp realizzate sempre durante camminate meditative in solitaria. Progetto totalmente autofinanziato e prodotto dal basso. L’urgenza e il malessere dei ragazzi che conoscevo bene era tale per cui non ho potuto non mettermi in ascolto per fare in modo che istituzioni o mondo adulto capissero cosa stavano passando. Non potevo aspettare IL BANDO poiché l’urgenza era li, in quel particolare spazio tempo.

Con il Collettivo Artistico Integrato Vi-Kap abbiamo realizzato una campagna social di sensibilizzazione contro il tema dell’ Handifobia. Sicuramente l’utilizzo pressante dei dispositivi tecnologici e dei social ha modificato il mio modo di fare ricerca nel bene e nel male, ibridandosi con l’aspetto umano e poetico.

Progetto Inside<>Outside di Anna Albertarelli

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Gli unici aiuti che ho ricevuto sono stati quelli di Sport e Salute poiché insegno in scuole professionalizzanti internazionali per danzatori e performer. Queste scuole sono affiliate a enti sportivi. Avevo in programma molti progetti Europei Corpo Europeo di Solidarietà con Associazione Creativi 108 con cui collaboro per il Corpo Poetico e dovevano partire nel 2020. Abbiamo dovuto posticipare tutto di un anno. Per fortuna nelle scuole elementari si potevano realizzare progetti outdoor, per cui, a intermittenza, a seconda dei lockdown sono riuscita a lavorare.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Come ho già descritto prima, da anni mi occupo di lavorare in contesti sociali e di comunità. Questo mi permette di stare a contatto con le persone e di lavorare in prima linea. So che sempre più vengono richiesti interventi per supportare un malessere generazionale e/o sociale, oppure vengono richieste metodologie educative innovative. Cerco di mettere dei semini per poter cambiare le forme pensiero della gente. Vivo il mio essere artista come un missione umanitaria.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Spero vivamente che istituzioni e chi di dovere si rendano conto che questi mutamenti dei paradigmi esistenziali non possono non toccare di conseguenza l’evoluzione e rimessa in gioco dell’arte. La cultura non è mai svincolata dalla società e viceversa. Non saprei come, troppe cose da mettere insieme politica, economia, etica, evoluzione, scienza, diritti umani.

Per chi fosse interessato ad approfondire le metodologie didattiche/ artistiche e di ricerca al servizio della comunità di Anna Albertarelli può consultare il sito

www.annaalbertarelli.it

Resistenze Artistiche

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A SUSANNA MANNELLI

Per il quarto (e natalizio) appuntamento con Resistenze Artistiche andiamo al confine dell’impero, sull’isola dell’isola, a Carloforte in Sardegna per incontrare Susanna Mannelli che, insieme a Riziero Moretti, dirige l’Associazione Botti du Shcoggiu attiva non solo nella creazione di spettacoli, ma nel dirigere un piccolo festival, il Marballu’s Fest,e nell’attività di formazione ed educazione al teatro.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Dopo un primo periodo di stordimento, in cui un po’ tutti “nuotavamo a vista”, verso l’estate del 2020 era prevalente un pensiero dinamico: “Questa pandemia sarebbe stata la goccia che finalmente avrebbe fatto crollare un sistema che ormai era arrivato alla sua fine (sia nello specifico del contesto teatrale che di quello politico – economico in generale) e quindi la visione del “mai nulla sarà come prima”, ci faceva sentire l’urgenza di far crescere l’impegno creativo per un rinnovamento totale. Abbiamo portato avanti l’attività in luoghi aperti con progetti che mettessero in evidenza tale bisogno. Cassandra Venti venti è un testo che ho scritto e messo in scena stimolata da questa esigenza di ricapitolazione. Quando le restrizioni si sono fatte più opprimenti, le incongruenze amministrative palesi e la paura aveva creato nella comunità relazioni basate sul sospetto, abbiamo strategicamente scelto “l’illegalità” quella che poi è stata definita disobbedienza civile. Per cercare di dare continuità a quella scintilla creativa di rinnovamento, ci siamo assunti la responsabilità di proseguire con la nostra programmazione artistica per tutti, senza alcuna discriminazione. Abbiamo rischiato, ma la risposta da parte della comunità è stata favorevole. Anche in questo caso sentivamo di potercela fare. Gli ultimi avvenimenti, il fortificarsi del pensiero unico e il reiterato lavaggio delle menti già impaurite da parte del Gotha governativo ci ha fatto vacillare, ma non fermare. È inverno, i luoghi all’aperto non sono utilizzabili, ma abbiamo trovato comunque degli spazi alternativi, abbiamo trovato nuove collaborazioni, e questo dopo un po’ di anni che non programmavamo più la stagione invernale. Ancora non sappiamo a cosa andremo incontro ma siamo decisi a proseguire.

In tutto questo è importante ricordare che i ristori, le contribuzioni che il ministro dei beni e delle attività culturali Franceschini ha stanziato, proprio per poter tener fronte alle mancate entrate per le limitazioni delle attività, ci hanno aiutato a resistere.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Come ho già accennato, le problematicità portate da questa pessima gestione della pandemia, sono entrate come tematiche fondamentali nelle nuove produzioni e soprattutto nella progettazione dei laboratori per l’infanzia. In questi ultimi la proposta si è fondata sulla ricerca del pensiero tondo, per stimolare nei ragazzi una visione delle cose da più punti di vista, uno sguardo che si muove per poter cogliere l’intero.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Con le istituzioni locali abbiamo da subito cercato una relazione costruttiva e di dialogo che è sempre stata accolta con favore. In ogni occasione abbiamo trovato il modo di palesare le nostre difficoltà e quando è stato possibile siamo stati aiutati e sostenuti. Non è mai stato mandato un controllo come, ahimè, in altri comuni è stato fatto pesantemente. La loro fiducia nel nostro senso di responsabilità ci ha sempre permesso di realizzare i nostri progetti.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Le strategie non sono mai cambiate. La cura con cui scegliamo e realizziamo i vari progetti, la trasparenza del nostro operato e l’accoglienza con la quale invitiamo il pubblico alle nostre manifestazioni.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Noi come associazione non facciamo parte del FUS e non abbiamo contribuzione ministeriale. Non mi è chiara la visione di quel che sarà, ma come sappiamo ogni ombra ha la sua luce, luce che noi ci impegneremo a seguire.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Purtroppo questo è il vero punto dolente di questo lungo periodo. Si è caratterizzato come un tempo di divisioni e contrapposizioni. ed è venuta a mancare quasi completamente, fatta eccezioni di qualche piccolissima realtà, la capacità di incontrarsi e fortificarsi su istanze comuni. Quelle aspettative che sentivo possibili all’inizio, per ora non si sono realizzate, anzi forse si è evidenziato un ulteriore chiusura di ogni realtà in se stessa. I grandi teatri continuano ad accentrare su di sé i fondi e le attenzioni; i piccoli, sempre più piccoli, sono ancora più invisibili e per niente promossi. Credo che l’aspetto più agghiacciante di tutta questa storia, sia proprio la determinazione con cui si vogliono annichilire le diversità e la pluralità, di conseguenza la cultura. Il lessico si restringe, e quando mancano le parole per argomentare i propri pensieri, pigramente ci lasciamo guidare da quelli altrui, senza convinzione. Questo dal punto di vista del “mondo grande”. Nel microcosmo la visione è più positiva. È grande la coscienza del “giogo” che ci frena. È grande la coscienza del “gioco” che ci chiama, completamente nuovo, tutto da scoprire per rinnovare la nostra vita creativa.

Damiano Grassselli

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A DAMIANO GRASSELLI

Per il terzo appuntamento di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Milano a Bergamo per incontrare Damiano Grasselli, direttore, regista e attore di Teatro Caverna, spazio artistico di proprietà del comune. Teatro Caverna abita un quartiere periferico della città: in esso vengono creati progetti che costruiscano attorno all’esperienza artistica un incontro con le persone, fiducioso nella possibilità di vivere una comunità attraverso un dialogo aperto e continuo col presente.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Francesco Pennacchia in Mario e il mago Spazio Caverna

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Spazio Caverna negli ultimi due anni ha vissuto diverse fasi. Per i primi 4 mesi di pandemia nessuno (nemmeno noi) è entrato nella sala. Bergamo era talmente sommersa dall’emergenza che ci si spostava solo per evidenti casi di necessità: i teatri erano chiusi e nessuno di noi usciva di casa. Poi abbiamo pian piano riprese, una prima volta, le attività, dedicandoci ai bambini del quartiere in primis. Con la seconda chiusura ci siamo inventati diverse “possibilità” per il nostro spazio: abbiamo creato alcuni podcast radiofonici; abbiamo costruito il progetto di solidarietà e protesta, che abbiamo chiamato Pane e Poesia e che ha avuto grandi riscontri sia tra gli abitanti del quartiere che a livello mediatico nazionale; abbiamo attrezzato un piccolo studio di registrazione e diffusione video per alcune letture e dibattiti coi ragazzi delle scuole superiori. Se però devo citare una cosa particolarmente significativa del nostro dialogo con le persone dico questo: nel nostro quartiere c’è una sede della Chiesa Evangelica. Loro potevano celebrare riti in presenza, ma la loro sede era troppo piccola per contenere tutti col distanziamento. Quindi abbiamo ospitato gruppi di giovani fedeli per i loro canti e preghiere. Sono stati momenti di incontro per decine di ragazzi che altrimenti sarebbero rimasti chiusi in casa ancora una volta. Ci è sembrato necessario farlo.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Personalmente ho letto molto, cercando di approfondire i temi che più mi stanno a cuore: il suono, il silenzio, la musica, la parola, il linguaggio. Il legame che esiste tra questi concetti: in questo senso si è orientata anche l’attività di Teatro Caverna nei periodi di chiusura totale, con produzioni radiofoniche che hanno coinvolti anche attori esterni alla compagnia. Ho lavorato molto per migliorare la ricerca sonora del nostro fare teatro. Ma al tempo stesso ho scritto, ho cercato di dialogare con tutte le persone con cui riuscivo a mantenere contatti: sia in forma pubblica, scrivendo su giornali e riviste, sia in privato, ritornando a fare una cosa che non facevo da un po’, scrivere lettere. E’ stato un modo per scoprire una dimensione più umana del tempo, fatta non solo di scadenze, ma anche di silenzi e riflessioni. La vera ricerca è stata cercare un modo per costruire ponti anche laddove le strade erano deserte.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

I fondi sono ovviamente utili: avevamo una struttura da tenere viva anche se chiusa, avevamo delle incombenze. Ricevere i fondi dell’ExtraFus o del Fondo costituito dal Comune di Bergamo è stato molto positivo in quel periodo. Ma non sono mancati anche degli incontri istituzionali che ci hanno convinto a continuare malgrado tutto nel progetto che stavamo creando: per esempio nel secondo lockdown si è cominciato ad immaginare, con l’amministrazione comunale di Bergamo, la possibilità di avere un secondo spazio di lavoro, cosa che è accaduta poca settimane fa. E poi si sono create, anche su proposta di alcune istituzioni locali, reti di lavoro comune dove abbiamo potuto condividere con colleghi situazioni che affrontare da soli sarebbe stato impegnativo. Mi riferisco per esempio alla prima edizione di Lazzaretto On Stage e di Affacciati alla Finestra, due eventi che dopo la prima ondata il Comune ha proposto, le Fondazioni hanno sostenuto e gli artisti hanno programmato. Devo dire che soprattutto nell’estate 2020 e soprattutto nell’ambito cittadino si è avvertito un certo modo di agire “positivo”. In seguito la situazione è divenuta più “ombrosa per tutti”: ora bisognerà capire cosa può rimanere di quell’agire fianco a fianco. Se qualcosa rimarrà…

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Questa per noi è stata una domanda centrale, soprattutto da settembre 2020 in poi, quando abbiamo capito che tutto era ancora in divenire e saremmo stati lungamente segregati. La radio su questo mi ha aiutato molto: ho iniziato a “giocare” col mondo radiofonico molto prima che con quello teatrale, avevo solo 15 anni. E così abbiamo iniziato a raccontare storie sia attraverso radio nazionali (abbiamo prodotto Fenoglio e le Langhe: una questione privata per Radio3), con le radio locali, con i podcast da scaricare o appositamente creati per le scuole, per raccontare fiabe ai bambini. Sono arrivati molti messaggi che dicevano: grazie, ci tenete davvero compagnia. Allora a settembre abbiamo deciso di creare un progetto, che oggi prende il nome di Radio Caverna, a partire da una delle tradizioni più amate a Bergamo: la consegna dei doni da parte di Santa Lucia. Su questa tradizione abbiamo realizzato un podcast originale di 8 puntate con un gioco interattivo per le famiglie. Abbiamo raggiunto quasi 5000 ascoltatori con picchi anche di 400 contatti giornalieri, per noi un grande successo. Certo però che ci è mancato molto lo sguardo, il vedersi, il sorridere insieme: per questo ci siamo inventati anche Pane e Poesia. Il nostro è un quartiere che ha qualche difficoltà a stare al passo col costo della vita di Bergamo. Per questo abbiamo inventato una consegna di pacchi alimentari preceduta però da una lettura, faccia a faccia, di una poesia. Chi veniva a prendere la spesa (offerta gratuitamente da un gruppo di donatori) aveva la possibilità di scegliere una poesia e sentirsela leggere da un attore, in presenza. Un modo per scambiare 4 parole, raccogliere storie, vivere delle idee insieme. Anche questo ci ha avvicinato molto alle persone. Non eravamo quelli sul piedistallo che fanno cultura. Eravamo tra la gente, con gli spaghetti, il pomodoro e Majakovskij. La cioccolata, il riso e Quasimodo. Amici poeti, attori, il quartiere. Persone, tra le persone.

Il Tenace soldatino di stagno Regia di Damiano Grasselli

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Cerco sempre di chiedermi poco sul futuro. Certo penso a programmare: abbiamo attività in calendario fino a giugno 2024… Intendo però dire che, fissati alcuni obiettivi di base, serve anche che le cose viaggino un po’ da sole, sulla loro strada, con gli eventi che accadono. Il teatro, e lo stiamo scordando follemente, è accadere… Detto ciò è chiaro che si sta un po’ fingendo che tutto sia tornato “normale”. Le persone sono impaurite, impigrite dalle serrate, spaventate dalla situazione lavorative economica. Dire semplicemente: “abbiamo riaperto, ora tornate a teatro”, mi pare utopico e un po’ riduttivo. Forse addirittura canzonatorio. Mi aspetto che nascano progetti, idee (magari anche bandi) che riaccompagnino veramente le persone a teatro. Scriviamo sempre pagine e pagine sulla fidelizzazione del pubblico, ma raramente affrontiamo questo processo in maniera organica. È sempre tutto un po’ lasciato allo “speriamo che qualcuno venga”. Credo che adesso come non mai ci troviamo davanti ad una situazione tale per cui bisognerebbe fare qualcosa per cambiare la relazione col pubblico: non sono scatolette (vuoti ad arrendere) adagiate in platea, sono l’altra metà del nostro lavoro. L’altro è l’altro. Il che non significa andare nella direzione che la massa chiede, al contrario. Stimolare, creare, offrire diversità: YouTube e Mediaset sono molto meglio di noi nel creare intrattenimento. Smettiamo di inseguire quei modelli bulimici. Creiamo una dilatazione del tempo, che alimenti la curiosità delle persone. Nella frenesia aggressiva, il teatro offra lentezza e relazione. Chiaro che il Ministero sta chiedendo numeri e documenti. Ma forse noi non potremmo offrire idee diverse una volta tanto? Non la novità stucchevole (che poi spesso non è nuova). Idee diverse. Andare verso altro. L’altro. Il non IO. Si fa un gran parlare di individualismo: secondo me l’individuo, con la sua responsabilizzazione e la sua unicità, sta scomparendo. C’è un’affermazione cadaverica dell’Io invece: quando noi teatranti parliamo diciamo solo frasi in prima persona singolare sui nostri lavori. Ma credo che al centro del vivere attorale, citando Aldo Capitini, dovrebbe starci questa frase: La mia nascita è quando dico un tu. Non nasce alcun teatro senza il suono di un Tu. Mi aspetto che, Ministero o non Ministero, in me continui a rimanere viva questa cosa. Altrimenti possono seppellirmi anche valanghe di finanziamenti, ma sarei morto in quel caso, sepolto dalla bolsa burocrazia.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Ecco mi riallaccio a quanto ho appena scritto: non abbiamo considerato che c’è un ALTRO. Ripeto: non per seguire gusti e mode, ma per interrogare. L’altro è un punto interrogativo sulla fronte spaziosa delle nostre certezze. Se non siamo capaci di dire: voglio ascoltare altro, vivremo tombali nel nostro mausoleo, piccolo o grande che sia, sarcofago, loculo o urna per ceneri. Saremo la morte del teatro. Si è ripetuto molto questo concetto: il ministro, le istituzioni, le fondazioni… Stanno facendo quello che nessuno aveva fatto in migliaia di anni: uccidere il teatro! E gli artisti? Cosa fanno per tenerlo vivo? La nostra pratica masturbatoria è eccitante (Artaud si chiedeva se avesse senso cercare una compagna sessuale quando ci si può masturbare…). Ma è esclusiva. Non ci accorgiamo che stiamo lasciando fuori i punti di domanda. Carmelo Bene diceva di essere nel porno, e come lui lo era Kafka. Ecco forse la grande occasione persa è proprio questa: continuiamo sulla strada di un desiderio inesauribile di onanismo. Ma questo è molto distante dal creare arte. Poi certo se guardiamo alle occasioni perse dal punto di vista legislativo, possiamo scrivere dieci volumi… Ma in quanto artista tendo a guardare ciò di cui sono responsabile. E di cui mi posso fare carico. La domanda individuale che mi pongo come artista è: che cosa ho da dire realmente che riguardi la vita?

Resistenze Artistiche

RESISTENZE ARTISTICHE. INTERVISTA A FRANCESCA GAROLLA

Secondo appuntamento col il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche. Questa settimana risponde alle nostre domande Francesca Garolla, drammaturga e direttrice artistica del Teatro I di Milano, direzione che condivide con Federica Fracassi e Renzo Martinelli.

Il progetto Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Francesca Garolla Ph: @Valerio Ferrario

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Teatro I è rimato chiuso al pubblico per un anno e mezzo. Prima la chiusura forzata, poi una riapertura impossibile, perché avremmo potuto ospitare solo 20 spettatori, nel rispetto della normativa. In tutto questo tempo, soprattutto tra fine 2020 e inizio 2021, abbiamo lavorato su progetti collaterali legati alla scrittura, alla drammaturgia, allo scouting e alla valorizzazione di istanze artistiche non ancora emerse, “invisibili” già in tempi di normalità e in quel periodo del tutto impossibilitate ad esprimersi. Nel tentativo sia di mantenere, nella distanza, un contatto con un pubblico conosciuto, prossimo al progetto culturale del teatro, sia di intercettare un pubblico più estemporaneo, magari distante dal teatro, ingaggiabile grazie ad una proposta differenziata e, soprattutto, a un buon utilizzo dei mezzi a disposizione. Niente streaming, insomma, ma rinnovamento e sperimentazione.

D: Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Sulla molteplicità dei punti di vista, sull’ampliamento delle progettualità, sulla necessità di valorizzare la drammaturgia al di là della sua rappresentazione scenica inevitabilmente ridotta, sul confronto tra artisti grazie a iniziative collettive e a momenti di scambio tra pari, sull’alta formazione e la creazione di format differenti (e-book, podcast, biblioteca online, incontri online, scritture collettive).

La parte produttiva ha inevitabilmente subito un arresto, ma questo è stato compensato da un progetto culturale più ampio e variegato.

D: Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni non si sono esposte in maniera particolare a tutela del settore, a parte, appunto, i fondi elargiti e qualche estemporanea manifestazione di solidarietà o dissenso. C’è stato, questo è vero, il tentativo di “ammorbidire” la normativa, di posticipare, di venire incontro, ridefinendo i parametri che permettono di accedere ai contributi pubblici.

Non c’è stata, però, alcuna riflessione di sistema, né un reale coinvolgimento degli operatori in un dibattito che poteva essere un’occasione, in questo tempo di sospensione, di confronto e di ridefinizione di un contesto che già prima della pandemia era traballante.

Crediamo che la solidarietà sia stata soprattutto “dichiarata”, ma, in un certo senso, anch’essa istituzionalizzata, purtroppo però non è riuscita a trasformarsi in reale partecipazione.

D: Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Nell’impossibilità di presentare spettacoli, abbiamo voluto rendere visibile il processo che porta a delle scelte artistiche. In realtà non solo abbiamo voluto renderlo visibile, ma anche partecipato e condiviso, attraverso i media a disposizione.

Un esempio di questa strategia è stato la creazione di una biblioteca online dedicata alla scrittura contemporanea (www.teatroi.org/biblioteca-virtuale/). Grazie ad una call inaugurata nel dicembre del 2020 abbiamo creato uno spazio virtuale dove iniziare a scoprire la nuova drammaturgia, i testi sono stati selezionati, tra oltre 200 proposte, dapprima da un Comitato di Lettori esperti (Magdalena Barile, Federico Bellini, Claudia Di Giacomo e Valentina De Simone, Valentina Diana, Omar Elerian, Chiara Lagani, Pier Lorenzo Pisano, Michelangelo Zeno) e, in seconda istanza da un Comitato di Spettator-Lettor, coinvolti anch’essi tramite una call.

Ecco, a questo secondo step hanno partecipato più di 100 persone, a livello nazionale, confermando il fatto che è necessario “compromettere” il proprio percorso, aprirlo, metterlo in discussione, per avvicinare (oltre a mantenere) nuovo pubblico.

D: Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Crediamo che non si possa ripartire come niente fosse. I teatri, i progetti artistici, non possono rimanere fermi per più di un anno e poi riprendere dallo stesso punto in cui si sono interrotti. Ma il nuovo decreto, ci pare, mira soprattutto al ritorno ad una presupposta normalità, afferma: fate lo stesso numero di repliche, le stesse giornate lavorative, assumete, mantenete il personale, fate tournée come prima, eccetera eccetera. Non si tiene conto di quello che è successo, ed è come pensare che dopo un anno di prigione qualcuno riprenda la sua vita (e la sua libertà) come se niente fosse, con le stesse relazioni, lo stesso lavoro, la stessa faccia, gli stessi pensieri. È impossibile. Non si vuole vedere, si preferisce andare avanti, negare l’incertezza, non ammettere che nel frattempo alcuni progetti si sono esauriti e dovranno ripensarsi completamente, non ammettere che il futuro che ci aspetta risentirà di quello che è successo, comunque.

Quello che ci aspettiamo è che, presto o tardi, questa contraddizione tra ciò che si vorrebbe e ciò che è, questa visione alterata del contesto teatrale, si evidenzi sempre più, obbligandoci, in ogni caso, a una presa di coscienza e quindi ad un rinnovamento, se non delle istituzioni, dei singoli soggetti, nel bene e nel male.

Teatro I – Interno

D: Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Si è sospeso il tempo, non lo si è sfruttato per una riflessione di sistema e sul sistema. Le istanze di rinnovamento sono state diverse, ma anche frammentate, per grandezza, per categoria, per territorio. Si è evidenziata la mancanza di confronto.

Al contempo, pensiamo, sono diventati visibili, sempre più, i limiti di questo agire e quindi, se anche non sono stati sfruttati appieno questi due anni, potrebbero essere serviti a rendere visibile la necessità di un cambiamento. Non è successo ieri e non sta succedendo oggi, ma è un punto di partenza per domani.

www.teatroi.org

www.teatroi.org/autori-in-podcast/

www.teatroi.org/emersioni/

www.teatroi.org/testo-a-puntate/

Stalker Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A STALKER TEATRO

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città, nelle piccole cittadine di provincia o alle realtà medio-piccole che costituiscono l’ossatura del sistema spettacolo in Italia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa.

Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni con cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura non solo per ragioni geografiche ma anche di necessità.

Iniziamo questo piccolo tour per l’Italia da Torino, quartiere Vallette, sede di Stalker Teatro alle Officine Caos. Risponde Stefano Bosco, project manager della compagnia.

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Abbiamo continuato l’attività di produzione e di residenza artistica a favore di compagnie nazionali e internazionali giovani ed emergenti. Nei periodi di stretto lockdown abbiamo distribuito pacchi alimentari per le famiglie più fragili del nostro territorio, in network con Torino Solidale.

D: Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Sono aumentate le attività di servizio e accoglienza del nostro centro: dagli sportelli sociali, alle azioni di creazione di comunità, alle attività di contrasto al digital divide… Dal 2020 tutte le attività, eccetto rare occasioni, sono a ingresso gratuito.

La ricerca artistica si è ulteriormente polarizzata verso l’outdoor.

D: Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

A livello locale, regionale e nazionale, quasi tutte le istituzioni con cui abbiamo in atto una collaborazione hanno cercato soluzioni perlopiù ragionevoli e di mediazione, resta però l’anomalia tutta italiana del ritardo cronico dei pagamenti che mette in ginocchio le piccole e medie realtà.

D: Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Abbiamo, come molti altri, provato la strada del digitale, con molti dubbi e senza grandi risultati. Da quando le attività sono ripartite l’accesso alla nostra struttura è quasi sempre gratuito.

D: Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

La pandemia ha solo messo in luce difficoltà sistemiche. Nel confronto con i nostri colleghi europei il dato più significativo rimane quello sugli investimenti nel comparto culturale, con un ordine di grandezza di scarto in difetto nella comparazione con quasi tutti gli altri paesi.

D: Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

In Europa, nei diversi contesti in cui abbiamo avuto occasione di lavorare, le politiche culturali sono diffuse e pervasive, ramificate e articolate sul territorio, la visione è orizzontale e di lunga prospettiva, le parole ricorrenti sono: spazio pubblico, accessibilità, inclusione, formazione e ricerca. In Italia il paradigma della produzione culturale resta confinato nella stretta cerchia degli addetti ai lavori, nello scambio di favori, nella visione – in ultima istanza – che il fatto culturale sia, nei fatti, una questione di pochi, arroccati in posizioni di privilegio.

Chi siamo

Le officine CAOS di Torino – Officine per lo Spettacolo e l’Arte Contemporanea – sono un centro internazionale per la produzione culturale e l’innovazione sociale, uno spazio polifunzionale nella periferia nord ovest di Torino, in Piazza Montale, nel quartiere Le Vallette.

Le Vallette: un ex quartiere operaio, nato negli anni ’50 sotto la spinta della grande migrazione verso il nord Italia industrializzato.

In questo quartiere vivace e ricco di risorse, ma fortemente penalizzato dalla mancanza di strutture e servizi al cittadino, oggi ci abitano circa 12.000 persone, con un forte senso di appartenenza e una grande voglia di riscatto.

Nella pancia di una chiesa di questa periferia, in un enorme garage abbandonato per decenni, sono stati riqualificati circa 2000m2 di spazi attrezzati e polifunzionali, con un investimento estremamente contenuto e grazie a risorse pubbliche e private. A distanza di quasi vent’anni, forti di una crescente comunità di decine di migliaia di persone che ogni anno attraversano questi spazi, officine CAOS è oggi conosciuto a livello locale, nazionale e internazionale come un centro di eccellenza per la produzione culturale e l’innovazione sociale, un luogo di incontro inclusivo e accogliente, uno spazio aperto alle proposte di tutti i cittadini, un laboratorio di idee e relazioni.