Sabato 28 maggio alle Fonderie Teatrali Limone la serata di Interplay ha visto in scena alcuni lavori che, benché vi sia diversità di poetiche e di estetiche, hanno una sorta di tema comune. Rubando il motto a Gilles Deleuze, potremmo riassumere questa sorta di tema comune in due parole: differenza e ripetizione. Il lavoro di maggior spicco è stato Drumming Solo di Daniele Albanese. Un lavoro molto severo e rigoroso nel quale un ininterrotto mosaico di piccole frasi coreografiche si intrecciava magistralmente con le ritmiche minimaliste del pezzo per percussioni di Steve Reich. La dinamiche, le microvariazioni della tessitura musicale, si abbracciavano con il movimento continuo ed intenso di Albanese. Un quadrato rosso al centro, appariva e spariva lasciando posto alla vastità della scena. Questo alternarsi della danza da un interno, a un esterno e il relativo indugiare sul confine tra i due spazi, era il controcanto alla trama di intrecci tra movimento e musica. Indagare il confine, il limite e il necessario sconfinamento da una parte, dialogo, intreccio, composizione e scomposizione dall’altro. I gesti che compongono la coreografia sono minimi, quasi quotidiani, incastonati nel fraseggio ritmico di tensione, abbandono, forza e debolezza, il tutto in un fluire inarrestabile e continuo come il fraseggio di percussioni incalzante fin quasi all’ossessione della musica di Reich.
Interessante il solo di Marco D’Agostin Everything is ok sebbene un po’ azzoppato da un finale non proprio convincente. Il danzatore avanza sulla scena fino al proscenio e incomincia un divertentissimo lavoro di voce in cui stili musicali diversi dall’Hip-Pop alla canzone latino-americana, annunci di premi inesistenti, pezzi di show si mischiano in un melting pot frutto di una sorta di zapping selvaggio. Poi una musica ipnotica, quasi per citare Brian Eno, una sorta di music for airport, accompagna una danza costruita da inserti e citazioni di stili, sport, avanspettacolo, televisione. Si vedono le Kessler, un po’ di Hether Parisi, x-factor, uno sciatore di fondo, e mille altre piccole forme provenienti per lo più dall’immaginario televisivo, come se quello che siamo fosse ciò che assorbiamo dai media e dal bombardamento di immagini che subiamo da quando siamo al mondo. Siamo la somma di tutto questo e niente altro sembra dire questa coreografia che ha il solo difetto di esser smisurata, abnorme nella durata. Il finale poi è un po’ inconcludente, non riesce a tirare le fila di tutto questo esser altro da sé per alimentazione forzata da media. D’Agostin è un interprete giovane che ha comunque dato prova di essere un coreografo e un danzatore promettente, che ha grandi margini di crescita e saprà senza dubbio emendare i difetti che ora gravano un poco su questo lavoro.
Per chiudere due parole sulla presentazione di Maps di Daniele Ninarello, lavoro frutto di un laboratorio tenuto presso Belfiore Danza. Una fila di danzatrici, ciascuna incanalata su una propria corsia, come una batteria di nuotatrici, comincia lentamente a costruire piccoli movimenti avanzando e retrocedendo. Mano a mano la frequenza di questi andirivieni si arricchisce di forme e di gesti, fino al culmine in cui tutte le danzatrici si sincronizzano e mano a mano escono di scena una per una. Al di là che il lavoro è risultato di un laboratorio devo dire che da Ninarello mi aspettavo qualcosa di più per complessità e spessore. Il lavoro mi sembra un po’ troppo basico, frutto di uno schema più che di una vera ricerca, schema che finisce per imbrigliare le diverse energie delle danzatrici partecipanti al progetto, addirittura limitandole. É stato un po’ come ammirare la quadrettatura sotto il disegno e questo pareva meno interessante dei quadretti che lo supportano. Emerge lo schema e non la danza.
foto: Andrea Macchia