Titans. Gli dei primordiali e selvaggi. Senza legge, senza regole. Eccessivi, abnormi, osceni, fuori scala, condannati al Tartaro dall’azione regolatrice di Zeus. Scellerati, brutali, delittuosi, estremamente ribelli, ma capaci di eccessi d’amore come quelli di Prometeo, i Titani sono i Vinti, sono gli dei senza culto, mitici e arcaici, ma nell’essere vicini all’Arké essi partecipano della natura originaria delle cose. Nei loro eccessi vi è qualcosa di profondamente contemporaneo, atomi e molecole primitive che si sviluppano nella nostra linea temporale. Questo furore creativo e distruttivo, gli scontri tettonici tra masse opposte, questa dirompente energia vitale che continuiamo a seppellire nel profondo del Tartaro, nel buio del boschetto delle nostre fantasie e perversioni, imprigionata dalla catene potenti delle leggi di Zeus.
In Titans di Euripides Laskaridis queste forze camminano latenti sulla scena, eppur presenti nella loro ingombrante deformità e mostruosità non priva di grazia. Corpi deformi e oscuri, sessualmente non definiti in continua oscillazione tipica delle nature ambigue, costruzione e distruzione, controllo e sfrenato eccesso. Non c’è niente di definito, non siamo nel manicheo separare bene e male, luce e ombra. È continua metamorfosi che oscilla tra estremi e partecipa di tutte le nature. Ogni tanto un aspetto diventa enormemente prepotente, si sfoga, fuoriesce come fuga di gas, per tornare ad essere riassorbito, dopo aver tirato la volata ad altro che prontamente eccede e sostituisce.
In Titans siamo nel caos magmatico di una terra non ancora formata, nessun paesaggio è stabile, nessuna forma di vita è sicura di una duratura evoluzione. Tutto cambia e permuta, ma in ogni variazione di questo straordinario caleidoscopio, appare un frammento di noi, della nostra vita, delle forze pulsanti che la attraversano e che tentiamo di relegare alle catene nel buio delle profondità.
Titans è anche un trionfo della scena e delle sue immense possibilità espressive. L’azione che si sviluppa nello spazio è portatrice di suono e di luce, come nelle sante icone di Grecia. La luce non si posa sull’azione, è quest’ultima a scaturire dal movimento, dall’operare di corpi e oggetti. Promana dall’evento che si genera abnorme, misterioso, non privo di grazia e passione. E così il suono, mai articolato in parola di senso compiuto, sempre balbettio, vocalizzo infantile, senza senso eppur partecipe di ogni senso. Ogni azione genera suono, che diventa voce in questa sinfonia dell’essere in movimento.
Non serve cercare di interpretare le azioni che si svolgono. Dar loro un senso sarebbe privarle di altri innumerevoli significati. Ognuno può nuotare nel mare di significazioni che esplodono dalla scena. Bisogna rifuggire dalla tentazione del simbolico che cerca a tutti i costi di essere svelato, rivelato. Non c’è identità, non c’è punto di vista, tutto si scuote, tutto diviene, tutto è possibile. Quella donna/uomo deforme, eppur sensuale, che sulla scena agisce,- insieme all’ombra oscura che lavora di soppiatto quasi invisibile eppur visibile -, porta luce e confusione, non ha identità alcuna, è molteplice, è legione.
Euripides Laskaridis è artista potente e sopraffino, dotato della rara, se non rarissima, abilità di esser padrone di ogni potenziale linguaggio scenico che sfrutta in ogni registro possibile. Sacro e profano, rituale e prosaico, divino e infero. Non conosce paura di affrontare il grottesco, il deforme, l’abnorme, l’osceno, donando a questi registri connotazioni di sublime grazia ed eleganze equivoche. Altissima la qualità del suo lavoro che sfugge a ogni inquadramento e a ogni qualificazione. Non è teatro, non è danza, non è performance, ma partecipa di ogni natura. È genere al di là dei generi e questo agire nel limine del definito e definibile, è azione politica di grande impatto. In questi giorni in cui noi tutti abbiamo come l’ossessione di essere qualcuno o qualcosa, di appartenere a questa o quella tribù sessuale, politica, lavorativa, sociale, questo non essere definibili, questo sfuggire all’identificazione, ci indica una strada verso una natura che pur ci apparteneva: una natura equivoca e polivalente, un essere plurimo e non diviso, un essere pieno e includente.
photograph-by-Julian-Mommert