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SPECIALE INTERPLAY: INTERVISTA A URI IVGI piccola conversazione su Object

Il 16 maggio come apertura di Interplay è andato in scena Object del duo israelo/olandese Ivgi&Greben formato da Uri Ivgi e Johan Greben, un lavoro molto intenso e molto violento che mi ha incuriosito spingendomi ad approfondirne la conoscenza. Questa intervista è avvenuta il 19 maggio con Uri Ivgi.

EP: Cos’è la danza per te?

UI: Per me la danza è qualcosa che non ha molti significati ma ha sicuramente molti aspetti e livelli. È tecnica, è emozione, è qualcosa che quasi non puoi toccare, è come una magia. È qualcosa che è costituita da moltissimi elementi e che si costruisce nel momento, e appena accade subito scompare. Per questo parlo di magia: a volte dici: wow! A volte dici: mmm…. È qualcosa che devi catturare nel momento che appare.

EP: Qual’è la funzione della danza, se pur ne ha una? Perché fare danza oggi?

UI: Questa è di certo una domanda importante. Per prima cosa ti risponderei che danziamo per le nostre anime. Chiunque danza, lo fa per la propria anima e il proprio spirito. La danza è una professione molto difficile che necessità di molta tecnica, molto allenamento, molta disciplina, è questo per me dimostra la difficoltà di mettere in contatto la nostra anima con la danza. Questo è il motivo per cui noi danziamo. Noi non danziamo per cambiare il mondo. Non penso che questo possa succedere, che dalla guerra, grazie alla danza, possa venire pace. Come danzatore professionista e come coreografo se posso toccare l’anima del mio pubblico allora credo di aver già fatto molto. Penso che il nostro lavoro possa avere un risvolto politico, che possa occuparsi di ciò che ci disturba nel mondo di oggi, ma non credo che possa cambiare nulla, che possa avere un effettivo impatto.

EP: Object è, secondo la mia opinione, un meraviglioso dispositivo sulla violenza implicita nello sguardo, nel processo del voler guardare qualcosa. Ma questa è il mio punto di vista di osservatore. Cos’è per voi Object?

UI: Per noi non riguarda solo la violenza. Proviamo a giocare anche con lo sguardo, della performer e del pubblico. Lei guarda e il pubblico guarda. È una sfida in cui spesso si scambia il ruolo tra chi guarda e chi è guardato. Come e in che modo essi si guardano. Il pubblico per esempio è coinvolto nell’imbarazzo di guardate il corpo della performer così esibito. Giochiamo con la sfida che necessariamente si crea. Cerchiamo di sondare quanto lontano ci possiamo spingere, del genere: mostrami di più, fammi vedere più sangue! È questo momento che cerchiamo di sfidare: chi si unirà di più a questo gioco? Lei o il pubblico? Questo è l’aspetto che più importante per noi, ma è ovvio che ci sono più livelli di lettura. Non parlerei però di violenza, più di abuso. Come guardiamo al corpo della donna e come abusiamo di questa immagine. Tutte queste posizioni così rudi in cui la performer avvolta nella plastica come un pezzo di carne, con la bocca tappata dal nostro adesivo, che mostra in queste pose così rudi ed evidenti la vagina. Questo è il modo in cui spesso si guarda alla donna: zitta e apri le gambe! È orribile.

È anche incredibilmente difficile danzare una danza così fisica avvolti nella plastica e potendo respirare solo dal naso. E quindi ci chiediamo anche noi come coreografi: stiamo abusando di lei? Cerchiamo di spingerla veramente al limite. Tutto questo lavoro è un abuso e sull’abuso.

EP: Com’è nato questo lavoro?

UI: L’idea di Object è iniziata cinque anni fa. In origine era un pezzo di 12 minuti che piacque molto e ci fu chiesto di estenderlo. Anche la musica era diversa così come l’interprete. Alyona che ha danzato Object a Torino è la terza danzatrice che ha partecipato al progetto. Nella prima versione la performer aveva un corpo androgino, metà uomo e metà donna. E fu molto forte confrontarsi anche con questo tipo di fisicità in cui ti domandavi ad ogni istante se fosse un uomo o una donna. Quando decidemmo di lavorare con lei prendemmo la stessa decisione di oggi: quanto lontano potevamo spingerci e potevamo spingerla. L’abuso della donna è qualcosa che ci tocca molto che attualmente stiamo sviluppando in un altro lavoro che tratta sempre di questo tipo di sessualità, di sofferenza, di abuso con un gruppo più vasto di performer e che si chiama Forgot to love.

ivgi greben

SPECIALE INTERPLAY: OBJECT di Ivgi&Greben – BOYS di Roy Assaf

Una donna. Sola. All’interno di un cerchio bianco illuminato a giorno. La bocca tappata da nastro adesivo nero. Il busto impacchettato nel cellophane trasparente, non come un vestito, più come una fetta di carne da mettere in frigo. La donna non può scappare dallo sguardo. È crocifissa, trapassata, penetrata dallo sguardo che implacabile si posa sul suo corpo reso oggetto. E così si instaura una lotta furibonda tra quello sguardo e quel corpo muto, che si ostenta, si fa guardare, in ogni posa possibile, si mostra come dichiarazione di guerra, un attacco allo sguardo. Quasi minaccia o disfida a guardare di più, a guardare oltre, quelle pose, quel corpo.

Questo è Object del duo Ivgi&Greben, danzato dalla russa Alyona Lezhava, una danza massiccia in questo cerchio da arena di sumo dove non c’è spazio per la dolcezza, al massimo per una seduzione guerriera. Un lavoro perturbante e non certo rassicurante eseguito quasi con rabbia, sicuramente con fatica (danzare con la bocca tappata, respirando solo col naso, non è cosa facile), senza sbocchi celesti né consolatori. Si guarda come rapaci, non come osservatori curiosi di comprendere il mondo, soprattutto il corpo, lo si guarda con bramosia, senza rispetto, con lo sguardo del macellaio che valuta un quarto di bue.

Una certa ferocia e brutalità è presente anche in Boys di Roy Assan. Anche in questo caso il titolo è una dichiarazione. È il maschio, la condizione mascolina a essere messa in questione. Senza però dare risposta alcuna: i gesti spesso hanno una doppia maschera a seconda di chi li esegue, in perenne variazione, dove il senso sfugge. Restano le sensazioni (l’aggressività, l’ironia, la dolcezza, etc.) e i cliché. Difficile sfuggire a questi ultimi, tutti ingabbiati e infissi come siamo nell’aurea mediocritas del senso comune, delle parti da recitare, difficile trovare abbastanza forza per sfuggire all’attrazione gravitazionale dell’ovvio.

La danza è comunque estremamente dinamica, a ritmi elevati, quasi come corsa di bersaglieri, colma di miriadi di spunti, ricca, quasi barocca. In assenza del femminile è tutto ruvido, spigoloso, aggressivo, senza accoglienza e abbandono. È un abitare la battaglia che senza requie si rinnova, si sviluppa come per proliferazione cellulare accelerata e un poco cancerosa. Non ci si riposa mai, dritti e veloci come la freccia di Apollo, senza mistica né estasi, terrena battaglia nel fango dell’esistenza, senza via di fuga alcuna se non la speranza che l’essere umano sia migliore di quello che dimostra di essere, per attivare al poetico e toccante finale: il corpo di un danzatore intrappolato, accarezzato, deposto come un cristo, crocifisso come un cristo dalle gambe degli altri quattro, mentre viene diffuso il discorso all’umanità de Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin che aggiunge un pizzico di retorica e fiducia in un’umanità che non la merita. Come detto sfuggire al maelstrom della rappresentazione è cosa rara, anche nei lavori migliori.

Due lavori di grande impatto e, per certi versi molto violenti, aprono questa nuova edizione di Interplay, un festival che ha il merito di aver dato visibilità a opere di grande levatura internazionale nonché spazio a giovani coreografi italiani. Questo non è per niente un risultato banale confrontato all’azione di molti che invece si allineano a una programmazione banale e certa. Spero che Natalia Casorati possa continuare il suo lavoro e che non le venga a mancare l’appoggio istituzionale. In caso contrario sarebbe un grave errore e una grande perdita.

DI CLICHÉ IN CLICHÉ OVVERO IMPOSSIBILE SFUGGIRE ALL’OVVIO

So di avere una posizione intransigente teatralmente parlando. Cerco eventi scenici, e mi sforzo di parlarne su questo blog, che abbiano determinate caratteristiche: lontananza da schemi di rappresentazione/comunicazione, presenza scenica che sfugga agli schemi interpretativi di alcun ruolo, ibridazioni di linguaggio, processo vs progetto. Questo mi porta spesso lontano da messinscene concepite in maniera più tradizionale, più legate all’intenzione di voler dire qualcosa anziché cercare un nulla che lasci lo spettatore libero di vedere ogni cosa. Ieri sera (14 maggio) sono stato a vedere lo spettacolo Cliché: ci spogliamo per voi di Dramelot e Proprietà Commutativa (che sarà in scena al Circolo De Amicis fino al 21 maggio prossimo). Sono andato perché conosco il lavoro di queste ragazze (Francesca Bracchino, Elisa Galvagno, Valentina Virando) e benché sia molto distante dalle mie convinzioni sceniche apprezzo la serietà e dedizione che mettono in ogni loro lavoro. E devo dire che sono rimasto sorpreso. Cliché è uno spettacolo di cui c’era bisogno, il bisogno di dire con ironia ma con fermezza a quale livello di abiezione sia giunto il lavoro dell’attore. Tre ragazze si spogliano davanti a un pubblico perché altro diventa impossibile. Non si può sfuggire al cliché di spogliarsi per carenza di altre possibilità. Nonostante gli anni di studio, le specializzazioni in ogni campo dello scibile scenico dal canto lirico al contact, da Laban a Stanislavsky, si è costretti a contesti miseri, a pagarsi Siae e Enpals (ora Inps) per portare a casa incassi meschini molto lontani dalla dignità di un lavoro d’alta specializzazione. Le tre ragazze a turno utilizzano il teatro di repertorio per inventare storie tristi di donne costrette a spogliarsi: da Romeo e Giulietta a Madre Coraggio, ma è tutta una finta svelata perché insomma, sì, siamo in questa cantina per 30 € a spogliarsi perché se avessimo fatto la neodrammaturgia canadese ci saremmo trovati qui in quattro gatti. È tutto ironico eppur serissimo perché tale condizione di soggiacenza alle circostanze, al dover accettare tutto pur di lavorare e far fruttare anni di studio, sogni e passioni, è condizione di tutti dal danzatore, all’attore, da colui che segue fedele la tradizione all’innovatore più sperimentale. Non c’è mercato dignitoso per il 95% di coloro che si occupano di spettacolo. Si vive nell’indigenza e nel misconoscimento della propria professionalità (scusa che lavoro fai? – L’attore! – Sì, ma che lavoro fai? Altro bel cliché che viene ripetuto ogni giorno come un mantra), nonché del ruolo che l’arte scenica può avere nel contesto sociale odierno. D’altra parte se il neo consulente artistico dello Stabile di Torino afferma senza mezzi termini che il teatro non fa né politica né cultura ma solo piangere o ridere, non resta nulla per sfuggire al cliché che chi percorre altre strade non sia altro che pesante, difficile, ostico, inutile. L’inno alla leggerezza che tutti cantano è il calar le braghe nei confronti del cliché che avanza: cultura=pesantezza. C’è bisogno di sorridere che la vita è già complicata: cliché; ci sono già tanti orrori nella vita quotidiana che quando vado al cinema o a teatro devo poter svagarmi: cliché; c’è un performer belga? Chissà che due palle: cliché. Non si può sfuggire, lo sentiamo dire ogni santo giorno, perché l’establishment ha, da venticinque anni a questa parte, destabilizzato ogni politica culturale seria che potesse sfuggire al cliché. Ora lo scopo della cultura si riduce a far grandi numeri, incassi certi, turismo, supplenza nel sociale. Tutto tranne che mettere in questione l’essere e a creare le condizioni per pensare qualcosa di nuovo per il mondo in cui viviamo. La ricerca negletta, e tale negligenza mascherata con la fuffa delle residenze come se uno in una settimana potesse creare un lavoro vicino alla decenza! E così si resta nel cliché, per poter lavorare non resta che adeguarsi. Lavorare poi è una parola forte. Diciamo piuttosto mirare alla sopravvivenza.

Ecco per tutti questi motivi ho apprezzato questo lavoro che con ironia garbata e discreta, ci fa sorridere di una situazione tutt’altro che rassicurante per chi il teatro lo ama, lo vive, lo pensa e ricrea ogni giorno. Un piccolo sfogo con il sorriso sulle labbra ma, ogni tanto, quanno ce vò ce vò!

castellucci

Babele silenziosa: La democrazia in America, un ulteriore sguardo su Romeo Castellucci

«Elizabeth sells her daughter Mary to buy agricultural tools and seeds, 1789».

E le streghe danzano il loro sabba a ritmo di can-can. Il patto è compiuto e nessun giuramento permette di affrancarsi dalla vacuità di uno spazio – che intrattiene a un tempo una relazione transitiva e traduttiva fra topografie geografiche e interiori – i cui confini si allontanano con la stessa velocità e ostinazione della parola che li insegue, significante vuoto e frustrato, quando convenzionale.

Questa, una possibile summa da parte dello spettatore che non abbia lasciato la sala prima della fine dello spettacolo.

È innegabile che Democrazia in America di Castellucci sia stato soggetto prima ancora della sua messa in scena a più di un fraintendimento. Complici la discendenza dal testo omonimo di Alexis de Tocqueville, l’attuale situazione internazionale, la confusione, sempre vigente a dispetto del continuo abbaiare sulla questione da parte dei presunti addetti ai lavori e non, sul rapporto fra politica e scena teatrale, fra democrazia – partendo da quella ateniese del V secolo, come da riallaccio dello stesso Castellucci in molte interviste, dunque non concettualmente limitabile alla sola contingenza storica, viziata del resto oggi come allora – e scena culturale.

«Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare». Da lì, la nascita del teatro greco.

Nello spettacolo approdato invece all’Arena del Sole di Bologna l’11 maggio la danza scandisce moltissimi momenti e gli dei, anzi, preferendo una formula singolare e artaudianamente “con la minuscola”, il dio, c’è, In absentiam, ma c’è.

Così non c’è polis ma solitudine, non c’è America ma limbo.

Nella cornice che racchiude il vuoto rappresentato dal fallimento delle aspettative di rinnovamento e rinascita dei puritani sei e settecenteschi alla conquista della Terra Promessa, Castellucci è anche capace di una sottile, anche se a tratti, e in special modo nel finale, un po’ didascalica, forma di ironia, un ammiccamento amaro all’indirizzo del linguaggio, delle parole che giocano con se stesse ma non conoscono più loro stesse. Se rimandano a qualcosa, sempre che questo qualcosa fuori di sé ci sia, è una profezia di sangue, conflitto. Nel mezzo, due figure che non condividono più il linguaggio del dio né quello degli uomini, non costruiscono relazione fra loro e la comunità, fra loro e lo spazio. Corpi rifiutati, in effetti. Rimane un caos babelico e glossolalico che li trascina ancora più fuori dal consorzio sociale di sanzioni, statuti e guerre che lo spettatore intuisce già attorno, ma soprattutto dentro, i virtuali protagonisti dell’azione scenica. «Non sanno proprio cosa sia il silenzio» finiranno col constatare i due indiani del finale. Una confusione voluta, un intersecarsi voluto, fra voci, musiche e dati storici, i quali tuttavia se non perdono la forza dell’idea, a volte però rischiano di non arrivare a un livello di potenza tale da illuminare davvero la scena. Nell’intensità naturalistica di un’azione che sfocia suo malgrado in un focus ravvicinato, le immagini che prendono vita sulla scena, di pure intensa e variegata spiritualità, fra lo sciamanico, il tribale, lo stregonesco, rischiano di non accompagnare l’occhio dello spettatore al di là di una prospettiva di semplice commento. Mai accessorio, ma chissà in che grado necessario.

Al di fuori delle didascalie che compaiono proiettate sul velo che divide lo spazio del palcoscenico dalla platea, di politica ne rimane solo l’ombra. E giustamente: non si può parlare di polis, in effetti, quando la comunità è assente, respinge, resta pura parola, ma proprio quella che ha smesso di rivestire importanza. Come da volontà del regista, infatti, rimane la polemica, verso l’indirizzo della politica. Ed è una polemica di spirito e di linguaggio che, nella sua ripetizione ossessiva, nell’intrecciarsi volutamente non lineare (e non sono certo una linearità o una falsa idea di comprensibilità le componenti di cui si ha bisogno in teatro, anzi) delle differenti tematiche, raggiunge paradossalmente quello che, cercando di non fermarsi a una lettura frettolosa di questo spettacolo, sembra invece il vero proposito di Castellucci: creare, nel vuoto e nella solitudine assoluti, una glossolalia al contrario, che si avvicini all’essenza dello spirito solo per bestemmiarne quell’insindacabile e puritano non discutibile tratto di esistenza; «Io-sono. Abbiamo sbagliato il nome. Dovevamo pregare io-sono». Dietro quell’io-sono, non c’è nulla. E qui Castellucci vince la sfida con Tocqueville. Con lo spettatore, invece, non del tutto.

Articolo di Maria D’Ugo

foto: Gian Marco Bresadola

orfeo

LA FAVOLA D’ORFEO di Claudio Monteverdi

Gesualdo Bufalino ne Il ritorno di Euridice lo dice senza mezzi termini: “Orfeo s’era voltato apposta”. L’eroe di cetra munito che con il suo canto dolente e accorato aveva piegato persin l’Averno, si boicotta così all’ultimo momento quando già vede la luce del mondo: “Ma mentre io canto, ahimé chi m’assicura ch’ella mi segua?”. E così Orfeo si volta e tutta la sua fatica svanisce così in un attimo, tempo giusto di veder la delusione della poverina che già si vedeva scampar dalla nera morte. Ma quel voltarsi non nascondeva forse ben altro progetto? :”L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta”. In fondo Orfeo era poeta, cantava per il pubblico e il pubblico si sa, ama gli amori tristi.

Così per burla potremmo incominciar a parlare di questa Favola d’Orfeo di Claudio Monteverdi venuta alla luce in quel torno di tempo tra le fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, a cavallo tra Rinascimento e Barocco, nella piccola e ricca Mantova del duca Vincenzo. La Mantova dei Gonzaga era fiorente fucina di sperimentazione e produzione artistica. A frequentar la corte del duca si trovavano alcuni tra i migliori ingegni dell’epoca: il Tasso appena liberato, il giovane Rubens, Leone De’ Sommi ebreo che lasciò i suoi fondamentali Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche che ancor oggi sono un piccolo capolavoro, poi ultimo e non meno importante, il compositore Claudio Monteverdi. Siamo nel periodo dove la colta e dissoluta élite intellettuale rinascimentale si riuniva in Accademie, coltivava sogni di rinascita culturale, elaborava teorie e progetti in una temperie magico/mistica ispirandosi a Platone, Ermete Trismegisto e agli Inni Orfici, inventava cultura sulla base di un passato greco/latino spesso frainteso e mitizzato.

I figli del duca, Francesco e Ferdinando frequentavano anche la Firenze Medicea con cui vantavano diritti di parentela essendo la madre Eleonora figlia del granduca di Toscana. E in Firenze in quel di Palazzo Pitti poterono forse assistere, insieme all’avvocato Alessandro Striggio, alla rappresentazione di Euridice di Jacopo Peri su testo di Rinuccini. In quel 5 ottobre del 1600 nasceva il melodramma. E se per questa prima delle prime Rinuccini e Peri si rifecero all’Orfeo di Poliziano e a le Metamorfosi di Ovidio, presto altri si rifecero proprio alla vicenda di Orfeo e Euridice per seguire le orme dei due padri del Melodramma: Caccini prima, con una nuova Euridice, e Monteverdi/Striggio con la Favola d’Orfeo.

E fu proprio in Mantova per incarico e in presenza dell’Accademia degli Invaghiti che durante il carnevale del 1607 il neonato melodramma sbocciò in tutta la sua gloriosa potenza. Ma non alla presenza di un folto pubblico, in una festa trionfale, bensì in forma privata nelle sale lunghe di Madama Margherita D’Este Gonzaga.

Non deve stupire questo eroico furore creativo. In quell’arco di tempo a cavallo tra due secoli, l’arte tutta stava sviluppando arditi miscugli di generi proprio nelle feste della nobiltà che si dilettava a gareggiare in mecenatismo. I trionfi non a caso sono stati indicati come prodromi arcaici dell’Happening, luoghi ambigui di un crossover di linguaggi artistici senza precedenti.

Quanto distante tale temperie culturale dal blando e sciagurato milieu culturale dell’italietta di oggi. Ci si accontenta di rispolverar le glorie artistiche anziché cercar di crearne di nuove facendo anche a pezzi le vecchie. In fondo che fecero quei lontani innovatori? Non presero forse Orfeo e ne elaborarono una favola dove Apollo scende dall’alto per consolar l’infelice poeta nemico di se stesso? I greci e i latini non gli riservavano forse più triste sorte smembrato dalle Menadi, con la testa spiccata dal collo che volando ancor cantava prima di scomparir tra i flutti di un tracio fiume?

E invece si rappresenta, si illustra invece d’inventar qualcosa di nuovo. Si rispolverano anche i praticabili da cui far scendere il Deus ex machina. Si fa archeologia anziché esplorazione. Per fortuna che c’è Monteverdi! Ci pensa lui vecchio di quattrocent’anni a ricordarci della modernità, con le sue polifonie aggraziate, con le sue invenzioni sonore. Perché sulla scena si vede il già visto, ci s’attarda nei gesti pomposi e abusati, e nel far tale sfoggio di triste trivialità scenica ci pensa la veste birichina a coprire il capo ottuso di quest’Orfeo da baraccone. Ma mica colpa del povero cantante. Sulle scene del teatro d’opera e invalsa la tradizione, sfatata da pochi illuminati che cercano un altrove. E ciò che in nota di regia si dice esser movimenti studiati, rituali, “una ritualità legata alla cerimonia nuziale, all’evocazione, all’apoteosi, alla magia, con riferimenti anche storici”, alla vista appare quanto di più semplice e ovvio si potesse fare. Si cerca più l’effetto visivo che il far della scena un luogo da cui si guarda come l’etimo di Teatron vorrebbe. Si intrattiene la vista in un paesaggismo che lascia un po’ a desiderare. Quello che si chiama regia d’opera in fondo non è che fare il vigile urbano a regolare il traffico di entrate e uscite, senza un’idea una, di tempo, spazio e corpo che valga la pena d’esser vista. Per fortuna che c’è Monteverdi, lui si grande sperimentatore la cui modernità sopravvive ai secoli. E dalla sperimentalismo di quelle corti rinascimentali s’avrebbe tanto da imparare! Anziché vantarsi delle glorie del passato si avrebbe da studiare le modalità che portarono a tanta ricchezza.

Ma torniamo all’Orfeo di oggi. Quello andato in scena il 5 maggio al Teatro Ponchielli è una versione che recupera il finale dell’edizione a stampa in Venezia del 1609 e 1615. Il finale con Apollo appunto che eleva al cielo il poeta sollevato dalle gioie e angustie terrene per rivolgere la sua poesia alle cose superne. Versione questa che differisce da quella andata in scena a Mantova nel 1607 dove le Menadi si lanciano all’inseguimento di Orfeo reo di plateale misoginia. Molto si è discusso sulla disparità di questi finali. Mi piace pensare sulla scorta delle tesi di Nino Pirrotta e Stefano Aresi, che a stabilire la differenza sia stata l’esigenza scenica. Le stanze che ospitarono la prima forse erano troppo poco spaziose per ospitare i macchinari per l’intervento dall’alto di Apollo e si optò per una soluzione più semplice e fattibile. Mi piace pensarla così perché sarebbe il teatro a vincere, le sue esigenze e la sua carnalità, e che la letteratura si sia dovuta piegare ad essa, lasciando perdere i progetti restando legata alla terra. Anche questa sarebbe lezione da imparare laddove in teatro si vedono e si odono troppi “pensieri” e interpretazioni registiche, nonché messaggi da far trapelare. Il teatro non è il megafono del punto di vista del regista, ma il luogo da cui si guarda, dove ogni sguardo è possibile e che il pubblico è libero di cogliere, fraintendere e perfino di non capire affatto.

woman before a glass

WOMAN BEFORE A GLASS di Laboratori Permanenti FUCSIA: DO I MATTER TO YOU? Di Anna Marocco

Non è un mistero: mi appassionano le cose ibride. Soprattutto in arte. Il definito lo trovo poco interessante, un territorio conosciuto che non porta a nessuna vera scoperta. La mappatura del territorio è già avvenuta. Nei confini, nelle zone di transito, vi è una mescolanza di fluidi interessante, un melange del possibile, del non inventariato, del non ancora pienamente formato, che mi stimola alla ricerca, all’attenzione. I territori di frontiera stimolano la visione e l’ascolto.

Officine Caos è un territorio di frontiera e non solo geograficamente e le sue proposte di programma invitano alla curiosità.

Il 24 e 25 febbraio per esempio sono andati in scena due lavori molto distanti tra loro, quasi agli antipodi espressivi, e che risaltavano forse proprio per il contrasto di trovarsi insieme. Il primo caso, Woman before a glass, è un ritratto per frammenti di ricordi di Peggy Guggenheim, la straordinaria collezionista americana che ha saputo cogliere nella frontiera del divenire ciò che oggi è universalmente osannato nell’arte. E la sua non è stata solo smania di accumulo, ma difesa strenua del valore artistico contro la barbarie dei tempi (la guerra mondiale, il nazismo) e del pensiero, di quelle opinioni dei giusti che si ergono come Gesù nel tempio distinguendo ciò che è giusto e lecito da ciò che è ambiguo e perfino degenerato. Peggy è stata una donna che ha amato l’arte in maniera tanto viscerale da sposarla ( e dico questo non solo perché effettivamente sposò due grandi artisti e ebbe relazioni intime con molti altri) ma perché considerò i suoi quadri come una famiglia, come le sue creature, difendendole e cercando loro una casa che li accogliesse dopo la sua morte. E questo matrimonio, come ogni matrimonio, non è stato senza spine, ma colmo di dramma, di solitudine, di entusiasmi, di carne e sangue, di peccati e rimorsi. Eppure mai un tradimento, per l’arte, per i mariti sì, come per gli amanti. Tutto scorreva nella vita di Peggy, restava saldo il solo amore per la sua collezione. Vi è un po’ di quella cecità selettiva che si trova nell’autodafé di Canetti, eppure mai si ha l’impressione di un patologico. Vi è sempre gioia e amore, anche nei momenti difficili. Nascose le sue sculture tra le casse di pentole per farle sfuggire ai nazisti, le pitture arrotolate tra i tappeti. E il Louvre che avrebbe dovuto difendere quelle opere disse che non c’era nulla di interessante. La cecità dell’istituzione che conserva opposta all’amore viscerale di chi opera è pietra dello scandalo oggi come allora.

Un’ottima prova d’attrice di Caterina Casini. Una recitazione naturale, fuori dall’ingessato accademismo, che per qualche istante fa dimenticare di essere nella rappresentazione, in quel teatro che Carmelo Bene diceva da Croce Verde, perché si finge di credere a chi finge di essere. Suggestive le mappature video, con i quadri che Peggy tanto amò e che formano sulla scena una ragnatela di immagini che catturano l’occhio che guarda e creano una cartografia di ricordi e di immagini. La scena certo un po’ statica con un unico oggetto di scena, un trono/poltrona, che diventa spazio abitato trasformandosi in scrivania, mobile bar, perfino gondola.

A seguire Fucsia: do I matter to you? Con la coreografia di Anna Marocco. Siamo proprio agli antipodi, come se nel cambiare sala si fosse viaggiato attraverso interi continenti espressivi. Qui la parola è assente e non solo perché siamo nel campo della danza, ma perché la scelta è di esprimere solo per immagini e corpi. Nel buio si delineano vagamente 5 flebili linee verticali, su cui avanzano i danzatori verso il pubblico. Piccoli gesti in questa camminata. Niente altro. Quasi non si vedono.

A queste linee verticali si aggiungono alcune orizzontali, che modificano il percorso, creano incroci e incontri. E via via al razionalismo iniziale ci si avvia verso una danza più espressiva, dove gli incontri diventano più passionali, quasi animali, seppur in un controllo apollineo. Un dispositivo coreografico di riconoscimento dell’umano: così nel programma di sala. Come dice Agamben il dispositivo è sempre una sorta di gioco di potere. È insita una certa volontà di manipolazione che a sua volta è manipolata. Ma i dispositivi hanno perso la loro capacità di creare un nuovo soggetto. Restano freddi e anonimi, imbrigliati nel loro razionalismo, incapaci di creare fughe verso nuovi territori perché obbligati a seguire la funzione che viene stabilita a priori. Come un romanzo a tesi tendono a voler dimostrare il loro punto di vista e questo è forse il maggior difetto che si può imputare allo spettacolo. Non ci sono vie di fuga all’immaginazione. Il dispositivo/trappola ti porta dove vuole lui per quanto cerchi di scappare.

Ulteriore difetto, secondo il mio personale modo di vedere, è una certa piattezza compositiva, in cui i quadri si equivalgono, si allineano uno di seguito all’altro, con le musiche a inseguirsi come variazioni di uno stesso tono. Non vi è sovrapposizione di linee compositive, e benché non sia di ritmo monocorde, non è che si cerchi la variazione di ritmo né frequenze che battono agli estremi della gamma. Un lavoro interessante benché imbrigliato in un eccessivo razionalismo, nel voler dimostrare una tesi. Il dispositivo/trappola imbriglia non solo chi guarda ma anche i suoi creatori.

moving bodies

MOVING BODIES FESTIVAL

Il mio primo e unico incontro con la danza Butoh fu a Venezia. Credo fosse la Biennale danza del 1999 dove fu presentata una antologia di lavori di Kazuo Ono. Aveva 93 anni. Lo dovevano portare in scena, malfermo sulle gambe, fragile come una foglia alle soglie del gelo dell’inverno. Eppure, appena iniziava a danzare una grazia graffiante si espandeva dai suoi movimenti affascinando e catturando il pubblico incredulo di fronte a tanta potenza sprigionata da un corpo così gracile e indifeso. La danza di Kazuo Ono è un ricordo potente, indissolubile. Una tale potenza espressiva nel movimento di un danzatore l’ho trovata raramente nel corso degli anni e solo di fronte ai massimi: Carolyn Carlson, Maguy Marin, Pina Bausch.

Da quel lontano 1999 il Butoh è rimasto un ricordo fino all’incontro avvenuto quest’estate con Ambra Gatto Bergamasco. Mi ha invitato al suo festival, il Moving Bodies, a presentare il primo stadio del mio lavoro: Imaginary Landscapes e nella stessa serata si esibì Ken Mai. Devo dire che rimasi sconcertato di fronte a quella danza così distante dal ricordo di quella di Kazuo Ono. Il Butoh è per me ancora un mistero. Una danza che ha dei principi adattabili a ogni forma di espressione, una danza che cerca il limite, il confine, persino l’equivoco. E così dalle sue origini, nel Giappone postatomico degli anni ’50, dove fu censurato, scandalizzò, si ispirò ai nomi neri della cultura occidentale: Artaud, Lautremont, De Sade.

Butoh è un incrocio, un crocevia dove tradizioni estranee si incontrano e dialogano. A volte un dialogo improbabile, persino indecente. Ma non lo sono forse tutte le forme di vero dialogo? Il cercare punti di contatto laddove nessuno penserebbe ci possano essere? Penso che sia questo tipo di filosofia che caratterizzi come un marchio a fuoco il Moving Bodies Festival e l’azione e direzione artistica di Ambra Gatto Bergamasco e Edegar Sterke. Il dialogo improbabile delle forme artistiche e dei loro linguaggi che spesso e volentieri si guardano con sospetto, nonostante si predichi da più parti la crossmedialità.

Nel Moving Bodies Festival esiste la ricerca sincera di uno spazio di convivenza tra i linguaggi, una forma di dialogo che avviene per prossimità. In questi giorni (dal 4 all’11 febbraio 2017) si sono ritrovati negli spazi del Teatro Espace di Torino artisti di diverse discipline che hanno condiviso la scena in senso letterale del termine.

Nella serata conclusiva il pubblico si è trovato a compiere un viaggio, una sorta di Odissea negli enormi spazi dell’Espace, che ha portato a successivi incontri e visioni con nature diverse e ibride. A partire dal duo Pagani/Bottoni, che hanno presentato un secondo stadio del loro lavoro su Testori, Riscontri. Un lavoro aggressivo, disarmante, tagliente. Laddove la poesia parla di una ragazza che si vende nei cessi pubblici, ecco la danzatrice, alla ricerca di un appoggio che la sostenga, di fronte a quello sguardo impudico del pubblico che paga per vedere. E poi tutti in fila, a nostra volta consumatori di carne, per entrare nel cesso, uno per volta, a interagire con il corpo appeso a testa in giù della danzatrice, come vacca al macello in attesa del taglio delle parti, inerme al contatto e allo sguardo, quasi cadavere, se non per i movimenti indotti da chi entra e tocca.

A seguire la piccola Clarisa Bergamasco Duggan. Una bambina che si è cimentata in una piccola ma intensa danza sgusciando fuori da una valigia, raccattando mele che vengono lanciate in un carrello da supermercato, un po’ gabbia, un po’ rifugio.

E poi ci si sposta appena tra le colonne del teatro ed ecco la danza de Les Petits Filous, duo di danzatori formato da Fulvia Romeo e Andrea Fardella. Due danzatori bendati, resi ciechi da un nastro con la scritta. Fragile. Un cercarsi nel buio, trovarsi e abbandonarsi, lottare ed amarsi, respingersi e ritrovarsi. Senza vedere, solo per contatto, tra il casuale e il voluto. Forse da rivedere la musica, un po’ troppo insistente su un medesimo tono, ma una danza d’effetto, commovente e sincera.

E ancora una altro spostamento, nello spazio e nel tempo, come attirati verso altri lidi. Ambra Gatto Bergamasco e Edegar Sterke in Kiss – Baci. Danza Butoh che ancora una volta mi sconcerta per la sua capacità di adattamento al contemporaneo. Una danza che sconfina con la performance. A volte i principi sono più validi delle regole. I principi si mischiano, si confrontano, le regole si possono solo infrangere per andare da qualche altra parte. Un uomo e una donna entrano in uno spazio racchiuso come un ring di boxe da nastri di plastica, non prima di aver esaminato alcune persone del pubblico e averle marchiate con un segno dorato. All’interno dello spazio i due si prendono le impronte dentali su fogli di carta. E poi lo fanno nuovamente al pubblico. Tra i due si scatena poi una lotta furibonda che si conclude in una prima parte con l’immergere il viso della donna a forza in una bacinella piena di frutti di bosco da cui emerge un viso rosso come sporco di sangue. E poi con lo sputarsi, rovesciarsi, inondarsi di acqua.

Sarà la stata la presenza di un uomo e una donna, ma il mio occhio mi ha portato a vedere in questa lotta un confronto violento tra maschile e femminile, oggi sempre più in contrasto tanto da non riuscire a capirsi e a sfociare nella violenza. Eppure l’ultimo gesto della performance mi ha portato improvvisamente da un’altra parte. Al pubblico viene consegnato un piccolo foglio di carta, con stampato un bacio col rossetto e una scritta inequivocabile: with love from Europe. Quel marchiare e annegarsi a vicenda parlano di tutt’altro. Ora è chiaro.

A concludere la serata la performance di Francesca Arri, che con un gruppo di performer si muove tra il pubblico zittendolo con secco Ssshh! Che viene ripetuto costante nello spazio, divenendo esperienza sonora e auditiva. Uno zittire imperioso. A cui qualche persona del pubblico risponde a sua volta, interagendo, rispondendo. Non tutti si sono zittiti. C’è speranza.

E così si conclude questa piccola odissea tra i linguaggi. Un arrivederci a giugno per tornare a sperimentare nuovi incroci sotto la filosofia del Butoh, questa danza così sconcertante fin dai suoi esordi, capace di entrare in contatto con ogni forma e in grado, come Proteo, di vivere di metamorfosi nascondendo la sua vera essenza solo per i coraggiosi che sono in grado di farsela rivelare.

Marcel-Lì Antunez Roca

Marcel-Lì Antunez Roca: intervista

Marcel-lí Antunez Roca è stato fondatore della Fura dels Baus ed è uno degli artisti più famosi di Spagna dedito da anni alla creazione di istallazioni e performance meccatroniche.

EP: La performance è qualcosa di sfuggente. Sembra ogni volta che qualcuno cerchi di definirla essa sgusci dalle mani e assuma identità sempre diverse. Comincerei quindi quest’intervista facendoti questa semplice domanda: cos’è secondo te la performance?

ML: Il problema è che la performance è come una puttana: tutti ne reclamano il possesso ma nessuno veramente la possiede. La performance secondo me è quella cosa che avviene tra te e le persone riunite intorno a te in quel momento e che fanno insieme a te un’esperienza. In secondo luogo per me la performance è una copia della vita stessa ma ne è anche un linguaggio che la integra: devi pensare a livello musicale, corporale, vocale, a livello dell’immagine e della tecnologia. Questo è il suo aspetto positivo. Altre forme di espressione sono, secondo me, riduttive. La performance invece è una forma di artistica che riesce a esprimere in tutta la sua potenza la forza della vita. Certo anche il teatro ha queste qualità, ma partendo da molto lontano, ha forse troppa struttura alle spalle. Io comunque non sono un partigiano, uno che crede solo in una forma di espressione. Quello che mi interessa è il racconto di una vita, della vita, che si sviluppa qui e ora in tempo reale. Questo è per me la performance.

Devo dire comunque che ci sono altri artisti che tendono a definire in maniera più stretta la performance. Io credo però che questa tassonomia delle arti, questo volerle definire, sia un processo riduttivo. Quello che mi interessa sarebbe mettere in questione questo voler definire l’atto creativo. Quello che mi interessa è ciò che apre, sono le azioni che tagliano e attraversano le frontiere.

EP: In tutti questi anni di ricerca ho trovato una sola definizione che mi ha veramente soddisfatto. È di Attanasio De Felice e recita così: “la performance è un terreno flessibile per testare delle idee”. Questo mi ha convinto: l’idea che ci sia un luogo aperto in cui testare delle idee senza che esse vengano rinchiuse in un recinto preciso, un luogo dove ciò che accade sfugge alle definizioni.

ML: Sì lo credo anch’io. Inoltre diciamo che il linguaggio performance a partire dagli anni ’60 a oggi ha maturato, come dire, delle formule ricorrenti: il corpo nudo, la materialità, la tecnologia. Pensa che l’anno scorso su facebook ho trovato perfino un decalogo su come si può diventare performer.

EP: Sfuggendo alla definizione, qual’è secondo te la funzione della performance?

ML: La prima funzione direi che è propria all’agire dell’artista: trovare una forma di azione che pensa il mondo, una forma di pensarlo e spiegarlo in maniera del tutto personale. Questo è comune a tutte le arti non è proprio della sola performance. Poi c’è un secondo punto di vista e questo è più specifico della performance. C’è il transfer tra ciò che fa l’artista e chi partecipa come osservatore. Tu artista puoi ascoltare quello che accade mentre agisci. Non è un atto trasferito e mediato come la letteratura o il cinema. Questa energia fisica che si trasmette tra l’artista e il suo pubblico è ciò che trovo molto interessante. E questo è interessante anche per il pubblico che è lì in quel momento e può sperimentare la sua connessione con ciò che sta avvenendo fisicamente davanti a lui. Questo può essere una rivelazione per entrambi performer e pubblico. Io ho avuto la fortuna, soprattutto all’inizio con la Fura, di sperimentare questa sorta di esperienze shock e trovo spesso gente che dopo venticinque anni mi parla di scene di alcuni spettacoli che gli sono rimaste impresse in maniera indelebile. Credo che sia difficile trovare questo in altre forme di espressione artistica.

EP: Un’ultima domanda: tu hai fatto esperienza prima con la Fura e poi ti sei dedicato alla performance. Hai frequentato entrambe le frontiere di sperimentazione. Mi incuriosisce sapere se c’è e nel caso qual è la differenza nell’uso del corpo nei due ambiti. Cambia l’utilizzo del corpo nelle due arti?

ML: Cambia certo. Ma cambia anche perché il tempo passa. Il mio corpo non è più lo stesso degli anni ’80. C’è una trasformazione graduale. E il pensiero è legato al corpo. Uno pensa con la propria corporalità. Non si pensa senza il corpo.

Poi c’è un passaggio fondamentale. L’avvento del digitale che porta il corpo ad avere una realtà aumenta da esperire e che era impossibile negli anni ’80. La tecnologia ha portato un nuovo modo di esperire il corpo e nel frattempo anche io sono cambiato, ho deciso di lavorare da solo, principalmente per una questione produttiva, da solo è più semplice. Questi due fattori, il lavorare da solo, l’avvento del digitale, delle realtà aumentate, e il mio naturale invecchiare hanno fatto sì che il mio lavorare col corpo sia naturalmente cambiato. La tecnologia porta poi un altro aspetto nell’uso del corpo. La tecnologia non ti permetta di pensare a come stai in scena, necessita di attenzione, di ascolto, di precisione nell’utilizzo. Questo è diverso che preoccuparsi solo del corpo che si muove nello spazio. È proprio una cosa completamente diversa.

Questa intervista a si è svolta il 15 dicembre 2016 durante la terza edizione della Venice International Performance Art Week di Venezia;

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INTERVISTA A STELARC: Speciale Venice International Performance Art Week:

Questa intervista a Stelarc, uno dei maestri della Performance art, è stata da me effettuata per Passparnous durante la terza edizione della Venice International Performance Art Week di Venezia a Palazzo Mora il 15 dicembre 2016

EP: Qual è, seppur ve n’è una, la funzione della performance? Qual è la sua natura?

S: Il significato della performance art consiste nel non rapportarsi con il metaforico e con un immaginario simbolico. Si concretizza fisicamente le proprie idee. Il corpo non è solo uno strumento di espressione ma un modo di fare esperienza e, conseguentemente, deve fare i conti con le conseguenze fisiche delle tue proprie idee. Se hai l’idea di sospendere il tuo corpo con degli ami da squalo, o se decidi di inserire una scultura all’interno del tuo corpo, come nel caso di ear on arm, devi comprendere che possono esserci problemi medici, di rigetto, di infezione. Questo credo che sia il significato della performance e la differenza con la danza o il teatro: non solo espressione di sé ma corpo come veicolo di esperienza.

EP: L’approccio non rappresentativo, simbolico o metaforico è però comune anche a molto teatro, danza o alle performance di musica contemporanea. L’idea di un processo esperienziale contro un processo rappresentativo/espressivo appartiene anche alle tradizionali arti che si esprimono con il corpo dal vivo. Non c’è forse quindi un terreno comune dove incontrarsi?

S: Quello che dici è giusto, ma credo che vi sia un’ulteriore differenza. La danza o il teatro richiedono comunque la presenza di un pubblico. La performance non necessariamente, Per farti un esempio la maggior parte delle mie suspension performances non richiedono la presenza del pubblico e se a volte questo succede è casuale e non preparato o previsto. Spesso queste performance avvengono in luoghi privati o remoti e le uniche persone che assistono sono coloro che mi assistono. Nelle cities suspension certo c’è un pubblico perché siamo in posti facilmente accessibili ma non è a loro che è rivolta la performance. Per questo tipo di artisti, i performer, e io per primo non progetto una performance per un pubblico. Non c’è quindi nessun dispositivo teatrale. Non c’è questo rapporto che si instaura tra la performance e il pubblico. Nella performance si parla di installazioni corporee che non hanno lo scopo di intrattenere un pubblico.

EP: Quello che dici però è comune anche alle migliori ricerche in ambito teatrale o della danza contemporanea, dove non si ricerca l’intrattenimento o la rappresentazione narrativa di una storia o di un immaginario simbolico, ma un luogo di esperienza che amplifichi la conoscenza del mondo. Più parliamo insieme su questo argomento e più mi convinco che vi siano molti più terreni in comune che differenze.

S: In effetti quando ho iniziato questo tipo di eventi mi sono trovato molto a disagio con il termine: performance è una categoria che si riferisce molto a un modo di agire prettamente americano.

EP: Ed è in effetti un termine molto ambiguo.

S: Performance si riferisce, e contiene in sé, sempre una sorta di riferimento a un costrutto teatrale. Io preferisco usare i termini evento o azione.

EP: anche John Cage chiamò il primo cosiddetto happening Al Black Mountain College Untitiled Event

S: Si questo era molto in voga nei primi anni Sessanta. Io però credo molto nel potere delle parole e evento è una di quelle che contiene un’enorme apertura che me lo fa preferire a performance. Anche se nel mondo dell’arte contemporanea si continua ad usare in larga misura il termine performance.

EP: Perché usare il corpo come campo di sperimentazione?

S: In primo luogo questo mio corpo è convenientemente un corpo accessibile che mi garantisce di poter attuare le mie idee. Sarebbe estremamente complesso e difficoltoso se decidessi di creare una scultura con l’interno del tuo stomaco. Ci sarebbero una quantità di problemi medici che ti consentano una completa sicurezza. Vi sarebbero quindi tutta una serie di problemi e inconvenienti in più. Quindi questo mio corpo è il campo preferibile per attuare e concretizzare le mie idee. Io personalmente ho cominciato a usare il corpo perché non ero assolutamente portato per la pittura quando facevo la scuola d’arte. Tutti gli altri miei compagni di corso erano assolutamente più bravi di me nella pittura. Mi stava venendo una sorta di vero complesso esistenziale (ride). In modo meno frivolo sono sempre stato interessato alla complessa architettura del corpo. È assolutamente vero che non ero bravo nella pittura e che ho cominciato a intraprendere la via della performance per questo, ma è anche vero che quello che mi ha spinto in profondità era l’interesse per l’evoluzione dell’architettura corporea, come poteva relazionarsi con il mondo e se potesse essere un campo di azione per rendere fisiche alcune idee.

EP: Carmelo bene diceva: “il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”.

S: (Ride) Fantastico! Io faccio quello che posso, è vero, ma sfortunatamente non sono un genio! (Ride). Ottima citazione!

EP: Cosa è cambiato nel mondo della performance da quando hai mosso i primi passi? Quali sono le tue possibili direzioni di ricerca? Quali le possibili nuove frontiere, se possiamo chiamarle così.

S: Domanda interessante. Domani sera (16 dic. 2017) presenterò una conferenza sui miei lavori che sono suddivisi in maniera logica: performance fisiche, tecnologiche e quelle implicate con la realtà virtuale. Eppure nonostante questa divisione nella mia esperienza esse si sono mischiate senza alcuna logica. Le sospensioni vengono dopo molte ricerche con la tecnologia, anzi potremmo tranquillamente dire che la tecnologia viene prima di tutto. Fin dai primi anni ’70 le mie sperimentazioni sono state fortemente caratterizzate dalla tecnologia. Non mi sono quindi mai orientato in maniera precisa e costante verso un unico mezzo o media in particolare. A volte le mie performance sono puramente fisiche, in altri casi la tecnologia o la virtualità sono assolutamente preponderanti. Non mi sono mai sentito particolarmente costretto a seguire un approccio specifico alla performance.

EP: La realtà sfugge sempre alle costrizioni e alle definizioni.

S: Sì! Esatto. Quello che dici è molto giusto. Tutto quello che ho fatto è stata sempre una fuga da ogni forma di definizione. Quando ho mosso i miei primi passi nel mondo della performance, negli ultimi anni ’60, credo di essere stato l’unico a implementare la sua ricerca con le nuove tecnologie. Quasi tutti gli altri artisti, tipo Vito Acconci per esempio, erano più interessati a a ciò che coinvolgeva la psiche, il fisico, ciò che era personale. Persino oggi molti performance artist sono coinvolti con ciò che riguarda la loro propria storia personale. Io non sono interessato a questo mio corpo particolare e specifico, né nella mia particolare persona. Questo corpo è solamente conveniente perché a disposizione. Ma non mi interessa perché è mio, non c’è io in quello che faccio. Non vi è nessuna catarsi personale, né alcuna forma di self-expression. Non è il mio corpo che è sospeso, è qualsiasi corpo sospeso. Ho sempre parlato del corpo come di un oggetto. E non come oggetto di desiderio ma come oggetto che è possibile ridisegnare, perché siamo inadeguati e assolutamente inadeguati.

EP: Pensi che l’arte possa in qualche modo influenzare la società? Mi spiego meglio: negli anni ’60 e ’70 c’erano figure di artisti che avevano un impatto largo sulla società anche verso quelle fascie di popolazione che non erano interessate propriamente all’arte: potrei dire John Cage o Carmelo Bene. Pensi che questo sia ancora possibile oppure oggi l’arte si può rivolgere solo a settori specializzati e interessati?

S: Difficile rispondere. È vero che quando ho cominciato l’intento politico nelle performing arts era preponderante. Si pensava che la’gire artistico potesse influenzare la società e la politica. Io non sono mai stato interessato a questo. Anche oggi ci sono artisti che hanno, direttamente o indirettamente, questo modo di agire. Penso a Ai Wei Wei anche se penso che il suo agire si possa definire politico più per la reazione del governo cinese e per le posizioni che assume la sua opera in Occidente. Io credo che si possa comprendere se l’arte o la filosofia siano effettivamente efficaci possa essere compreso e misurato solo sul lungo periodo. Fra cinquant’anni o venti o trenta. L’arte e la filosofia non sono mai comprensibili nel momento presente in cui agiscono se sono veramente efficaci.

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FRAGILE BODY – MATERIAL BODY: VENICE INTERNATIONAL PERFORMANCE ART WEEK

Dal 10 al 17 dicembre 2016 a Venezia tra Palazzo Mora e Palazzo Michiel si è svolta la terza edizione della Venice International Performance Art Week. Dopo le prime due edizioni – quella del 2012 dedicata al corpo ibrido e al corpo poetico, quella del 2014 al corpo rituale e al corpo politico -, quest’anno la manifestazione era dedicata al corpo fragile e al corpo materico o materiale.

Come sempre a grandi nomi come Stelarc, Orlan, Franko B e Marcel Li Aruňez Roca, si affiancavano artisti giovani e meno noti in un confronto generazionale sul tema proposto. Alle performance vere e proprie anche una serie di performance lectures e incontri, oltre alla tradizionale esposizione colma di materiale storico interessante e notevole. Una manifestazione ricca per avvicinarsi a un mondo senz’altro difficile e per certi versi scioccante, così come un’occasione per chi, appassionato, critico o conoscitore, volesse approfondire studi e conoscenze.

Avendo partecipato come performer con il mio progetto Imaginary landscapes: tale on invisible cities, mi asterrò da effettuare una critica in merito ai lavori presentati. Per il programma e le schede degli artisti presenti rimando al sito della VIPAW http://www.veniceperformanceart.org . In questo mio scritto vorrei fare una riflessione sul corpo nella performance e sulla natura ibrida e indefinibile propria del genere, se di genere si può parlare.

In verità, sarò onesto, in più di vent’anni di carriera nel mondo delle arti, non ho ancora ben capito cosa distingue la performance in sé e per sé dalle altre live arts. Definire è racchiudere e rinchiudere. Non è quello che cerco. Quello che mi interessa è comprendere le motivazioni e gli obbiettivi di un processo affascinante e sconvolgente insieme. E non è per niente facile.

Innanzitutto la performance contiene in sé innumerevoli germi e geni propri di altre arti, dal teatro sperimentale, alla danza, al rito: agire di fronte a un pubblico, proporre un processo di gesti, suoni, immagini non rappresentative (il miglior teatro e la migliore danza a partire dal primo Novecento hanno avuto la stessa tensione ad andare contro la rappresentazione e a quelli mi riferisco), superamento del concetto di estetica e intrattenimento, ricerca di una processualità esperienziale più che di un risultato oggettivo e stabile. Tutto questo è nella performance ma non solo.

Si potrebbe dire che la performance non ricerca la ripetibilità o la riproducibilità come apparentemente fanno la danza o il teatro, non ci sono spesso prove, tutto avviene live in diretta. E anche questi parametri, seppur più specifici e legati ad un agire performativo, non sono esclusivi.

Inoltre a creare “confusione” ci si mette anche l’origine dell’happening prima e della performance poi. Se tralasciamo i prodromi avanguardisti di inizio Novecento, e prendiamo come immaginario punto di origine il primo Happening senza titolo del 1952 al Black Mountain College promosso da John Cage vediamo che la confusione citata prima diventa evidente: musicisti, danzatori, poeti, pittori. Arti diverse che si riuniscono in un unico spazio tempo. Nient’altro. Poi la prima onda dell’Happening così come l’esperienza successiva di Fluxus, sempre a Cage si riferisce e anche in questo caso, la polemica tra il “maestro” e gli allievi Kaprow Higgins, Nam June Paik;, Maciunas (solo per fare qualche nome illustre) verteva su questioni filosofiche e di intenti più che di pratica. Cage contestava l’intenzionalità e la “violenza” rispetto al pubblico. Notoria è la querelle con Nam June Paik nel famoso happening in cui Paik tagliò la cravatta a Cage e gli fece lo shampoo. Cage stesso rispose a questi suoi allievi con numerose performance tra cui quella capitale è Theatre Piece creata appunto come risposta all’happening.

Quindi nemmeno nell’origine possiamo trovare una risposta chiara. Alla vista risultavano spesso indistinguibili, ciò che faceva la differenza spesso era l’intenzione e la poetica.

Negli anni successivi fino ad arrivare alle pratiche attuali credo che di aver individuato due temi che mi sembra possano distinguere nettamente la performance dalle altre pratiche artistiche live. Ovviamente tali distinzioni non sono assolute, vi è sempre una certa dose di ibridazione e commistione, anche se, mi pare, nella performance risultano statisticamente più evidenti.

Proverò a condividere le mie riflessioni.

Ciò che appare scioccante, per chi come me viene dal teatro sperimentale, teatro che ho sempre ibridato con la musica prima e con la danza poi, è la “messa in pericolo” del corpo del performer. Spesso in una performance, il corpo che agisce, è totalmente inerme di fronte al dispositivo pensato dall’artista per mettere in atto il suo lavoro. In alcuni casi le ferite, gli impianti, le modalità sono non solo invasive, ma segnano il corpo in maniera perpetua. A volte mettono il performer in vero e proprio pericolo di vita. Faccio alcuni esempi eclatanti presenti alla VIPAW: Stelarc quando si impianta l’orecchio nel braccio rischia di perderlo e per sei mesi è a stretto controllo medico per problemi di rigetto e di infezioni; ogni intervento di Orlan sul suo corpo lo modifica in maniera permanente e a volte devastante. Un attore o un danzatore per quanto spericolato ed estremo difficilmente metterebbe a rischio il suo corpo in maniera tanto pericolosa. Il corpo per attore o danzatore è strumento fragile da rispettare, allenare, curare. Non si rischierebbe mai un menisco per fare una performance. Questo è il corpo fragile e il corpo materico del titolo. Essere inermi di fronte al dispositivo creativo, rischiare tutto, mettere il corpo come materiale artistico, scolpirlo, modellarlo, menomarlo, renderlo oggetto e oggettivo. Questo mi sembra ciò che veramente distingue la performance. E mi affascina e spaventa insieme. Mi inquieta questo essere in balia di ciò che può accadere. L’incidente, e quindi l’evidenza della morte, è nella performance qualcosa di tangibile e inquietante. Il corpo è fragile, può cedere da un momento all’altro, e in questa fragilità si trova l’estrema potenza del genere performance.

Nel teatro e nella danza questo è ottenuto tramite altre modalità espressive, più mediate e meno dirette. L’immagine crea la forza, non l’essere materialmente inermi di fronte alla propria creazione.

Il corpo del performer è quasi un cadavere da scuola di anatomia, si fa dissezionare, si ostenta, si ferisce, si mostra quasi osceno attraverso il dispositivo artistico. È vivo ma nello stesso tempo è oggetto freddo, quasi morto, materiale nel senso di essere paragonabile al colore o al marmo.

Un secondo fattore che mi sembra caratterizzare il genere è il suo aspetto fortemente mentale, razionale, filosofico. Non che le altre arti non possano essere prassi filosofiche in atto sulla scena, ma nella performance questo aspetto è come estremizzato. Il processo mentale, le motivazioni artistico-filosofiche sono fondamentali per capire ciò che sta avvenendo. In molti casi la performance non è immediata, benché certo anche a un primo sguardo o a uno sguardo scevro di conoscenze possa comunque avere un forte impatto comunicativo. L’opacità della performance è difficilmente scalfibile. È necessario sapere il perché Stelarc si impianta un orecchio nel braccio perché senza quel passaggio manca qualcosa. L’interpretazione del singolo è spesso sviante, non comprensiva di una complessità, fosse anche un grande critico a farla. A palazzo Mora, nell’ampio salone centrale, vi era l’istallazione di Franko B dove su un’enorme altalena dorata, si alternavano uomini e donne nudi che si limitavano a oscillare seduti come bambini al parco giochi. Certo ognuno può avere le sue idee, impressioni, emozioni, di fronte a questo, ma sapere la motivazione che ha spinto l’artista a concepire questo dispositivo diventa discriminante.

Qualcuno potrebbe obbiettare che anche nel teatro e nella danza spesso è così e io risponderei di no con decisione. Per quanto l’intenzione dell’autore sia precisa, danza e teatro, lasciano e prevedono ampi margini di interpretazione e fruizioni. Si rivolgono a un’immediatezza emotiva che la performance spesso non ha. Il compito non è scioccare o sorprendere bensì far esperire un processo e un concetto preciso.

Certo tutto questo andrebbe approfondito e non ho la pretese di essere stato esaustivo in questo breve articolo. Il mio intento era quello di cercare di trovare delle linee di demarcazione, per quanto fragili, che possano generare una riflessione e perfino un dibattito. La performance è un mondo che mi affascina e mi inquieta, mi attrae e respinge e i motivi suddetti sono le mie motivazioni per questi sentimenti ambigui che provo di fronte ad essa. E avendo per una volta partecipato da performer in un contesto a me estraneo, ho potuto esperire queste sensazioni in maniera ancora più forte e sconvolgente. Ringrazio quindi Andrea Pagnes e Verena Stenke, direttori e promotori di questa importante manifestazione, per l’onore che mi hanno fatto nel ritenermi degno di partecipare non solo come critico ma anche come performer portatore di una differenza.