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irene russolillo

FRANE di E. Chiocchini e MAP di Irene Russolilo

Sotto un diluvio memorabile ieri sera alle Lavanderie a Vapore si son visti due lavori di due giovani artiste decisamente interessanti. Da una parte la talentuosa e già affermata Irene Russolillo con Map, artista di cui abbiamo seguito l’evoluzione artistica da lungo tempo, e Eleonora Chiocchini che ha presentato Frane.

Entrambi i lavori hanno un denominatore comune: la preponderanza dell’aspetto visivo. Le immagini sono affascinanti, accattivanti, catturano lo sguardo per la loro capacità di disegnare spazi su cui l’occhio si posa volentieri.

In Frane siamo in un mondo più oscuro, ombroso, geometrico e spigoloso. La danzatrice tratteggia figure che si muovono a scatti, in una discontinuità nervosa. I veli bianchi che si lascia dietro sulla scena come la bava di una lumaca o la pelle di un serpente disegnano sul palco nero spazi geometrici che ricordano certe tele costruttiviste. Si ha comunque l’impressione di non finito, di qualcosa di mancante, soprattutto dal punto di vista drammaturgico. Se la frammentazione delle immagini è dichiarata nelle intenzioni, un franare del racconto lineare, vi è comunque un senso di incompiutezza. Probabilmente il lavoro è ancora in fase di costruzione, lo si può desumere, benché senza certezza, dalla brevità del pezzo di soli 18 minuti.

Map del duo Russolillo e Calvaresi è invece uno spettacolo più decisamente completo, finito. Da un punto proiettato nello spazio della scena e che appare, quasi solido, sul corpo della danzatrice, – evocativo e toccante l’inizio dove nell’ipnotica lentezza del movimento questo punto prende sostanza e dimensione sul corpo della Russolillo -, si sviluppa un linguaggio frammentato e frammentario che prende vita dal movimento frenetico degli arti che diventano supporto alla proiezione.

Se l’aspetto visivo è decisamente suggestivo resta la delusione che tutto sia solo superficie. La domanda che viene posta nel titolo (once you have learned to speak what will you say?) ottiene una risposta banale, che gioca su facili e sciocche battutine. Le potenzialità di un supporto tecnologico non hanno ottenuto nerbo, ossa e sangue per sostenere quello che alla fine si è dimostrato solo un gioco di visione.

Le mappe casuali disegnate con lo scotch di carta sul fondale e sul palco, le lettere proiettate ovunque da cui si formano parole a caso, la danza frenetica nel fumo illuminato da tagli di luce e dai raggi del proiettore sono sicuramente evocative, gradevoli, di una certa bellezza, ma amena, priva di sostanza come un’ombra, vuotamente gradevole. Si ha l’impressione di occasione perduta, di profondità mancate, di fascinazione del gioco tecnologico fine a se stesso.

Come se la risposta alla domanda: una volta imparato a parlare cosa dirai? La risposta fosse: semplici sciocchezze ma dette molto bene.

Da un talento come la Russolillo, una danzatrice che ha una potenza di espressione corporea rara e magnifica, ammetto di essermi aspettato di più.

Icone, imbastardimenti e strozzamenti corporali da Giovanni Testori di Gianluca Bottoni e Daniela Pagani

Sabato 5 novembre nella Cripta della chiesa di San Michele Arcangelo a Torino si è potuto vedere una performance di grande interesse a firma Daniela Pagani e Gianluca Bottoni. Un luogo sotterraneo, in cui piccole luci, tenui bagliori fendono il buio della cripta. Una voce racconta la nascita dello spazio come :”ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista”. Lo sguardo è in ciò che si incontra, e dall’incontro si crea spazio tra chi osserva e chi è osservato. Come nel mito di Ade e Persefone. La fanciulla Kore, la pupilla appunto, nell’incontrare l’occhio del dio che la rapisce, rende possibile l’evento. Se Persefone avesse guardato altrove Ade non avrebbe potuto agire, perché lo spazio d’azione sarebbe stato negato.

E così una donna, quasi insetto, cieca alla vista perché impedita, naviga lo spazio della cripta a tentoni, crea spazio muovendosi, perché il pubblico la vede e le concede il movimento. Nel penombra soffusa si crea lo spazio di visione concesso da chi è li per guardare. Ma è una concessione inconscia, derivata, promossa e cercata da chi non vede ma agisce. Il gioco è sottile, delicato, non violento.

In questo spazio che si crea con la complicità di tutti i convenuti avvengono i microeventi che costellano le parole di Testori. La tremenda potenzaa di questa poesia che racconta di reietti, peccatori senza redenzione, che cercano con la disperazione del moribondo una luce di salvezza nonostante la notte sia nell’ora più cupa. Ancora il buio dove le luci soffuse creano appena la possibilità di vedere. Il buio dell’anima oppressa che cerca disperata la luce di una salvezza soltanto sperata e non veramente creduta.

Poi infine la luce. Piena, solida. Il corpo svestito, cristico della danzatrice, si abbandona a innumerevoli deposizioni casuali create con il pubblico, con quello disponibile ad accogliere la possibilità di far parte di un’immagine sacra. Da questa disponibilità si può giungere infine a una deposizione. E il corpo abbandonato sotto la colonna, ora nella solitudine e nell’abbandono, dove non può più nulla, infine lancia un’accusa feroce, domando al pubblico un flacone di lacrime artificiali. La commozione non è più permesse ai nostri occhi così abituati al massacro dei corpi, alla loro svendita, alla loro messa in mostra. Le lacrime sono negate, sono indotte come i nostri bisogni, non c’è l’innocenza che permette il pianto, l’uscire da sé che sorge dalla compassione.

Terribile finale. Lascia senza parole. Violento nella sua delicata offerta. Una carezza può diventare più dirompente di una martellata.

La delicatezza di gesti potenti in un mondo soffuso e oscuro è la cifra interessante dell’agire scenico del duo Pagani-Bottoni. L’avevamo già potuta constare nella Profana azione. Piccoli gesti, semplici, senza orpelli, senza l’ansia del voler dire a tutti i costi, semplicemente offerti, in spazi aridi e oscuri, quasi deserti, desolazioni, dove appaiono come per incanto le possibilità di redenzione e di speranza. Lievi contatti, piccoli sguardi, pallide illuminazioni.

Questa delicatezza è rara. C’è sempre sulla scena contemporanea quest’esigenza di voler dire per forza, di esprime sdegno, di esprime se stessi come se ce ne fosse bisogno, come se la scena fosse facebook dove ognuno scrive di sé anche se a volte ci sarebbe bisogno di silenzio. Questo lavoro ha invece uno spirito cageano: io non ho niente da dire ma questa è tutta la poesia che mi serve. E questo niente non è il nulla, ma quel grado zero che permette l’apparire del tutto. Quando ci si leva di mezzo, quando non si avverte quella che Carmelo Bene chiamava “la puzza del creato” allora può sorgere il miracolo dell’immagine che sorge dalle ceneri del mondo.

foto@christian baldin

Bones in pages

BONES IN PAGES di Saburo Teshigawara

Vi è qualcosa nell’estetica giapponese che colpisce per la sua grazia e perfezione. Un rigore inesorabile per la precisione del gesto e del segno, come nella cerimonia del tè o in una calligrafia. Ogni movimento, ogni gesto nella sua severa impeccabilità è colmo di bellezza profonda, ma non è solo quella che avvince. É quell’essere compresi in un flusso, quel sentire il mondo e respirare con lui, che danno una qualità inesorabile e perfetta. Ogni cosa è giusta perché così deve essere.

Ma c’è un altro aspetto importante. L’emozione è generata ma non è presente. La concentrazione, l’essere completamente assorbiti in quello che si fa, nello spazio e nel tempo, insieme a tutto il creato, è cosa priva di emozione, è un’assenza dell’io e delle sue perturbazioni. È presenza del sé, quella parte che appartiene al mondo e si fonde con esso.

Bones in Pages è un viaggio nelle gabbie della nostra mente e una fuga dalle stesse. Quelle centinaia di volumi aperti sulle pareti, e schierati sul palco come un esercito di terracotta, quelle gabbie di plexiglas, il corvo appollaiato, corvo vivo che si muove e gracchia imponderabile come il destino, sono dentro di noi e ci pongono delle domande. Mi son domandato per tutta la performance e dopo se il vedere, il mio vedere, non fosse ingabbiato dalle migliaia di pagine lette, dai mille e mille spettacoli visti, dagli artisti frequentati e conosciuti, dai maestri che ho avuto. Se il mio fosse davvero uno sguardo che possa appartenermi e non sia invece frutto di schemi e schermi. Questa è la domanda che continua a rollarmi nella testa come dadi che si rifiutano di fornire un risultato. Se dalle pagine di quei libri incollati alle pareti, si sviluppano immagini che fanno danzare sulla scena, non è forse il mio sguardo danzato dalle mie conoscenze, un vedere quello che posso vedere e non un meravigliarsi fanciullesco di fronte a ciò che vedo per la prima volta. Il rimbalzo da un’immagine all’altra nella mia memoria e nella mia anima mi permette davvero di vedere? Alcuni pensano che sia un vedere più profondo, vedere lo schema dietro la trama, un cogliere il messaggio che è racchiuso più in profondità. Altri possono pensare che sia uno sguardo intellettualistico, mediato, freddo e distaccato come quello di un medico di fronte al paziente, uno sguardo privo di emozione e compassione. Si può pensare inoltre che tutto il mio vedere sia frutto di pregiudizi dovuti al mio gusto personale e alle mie intenzioni per quello che riguarda la scena e la sua funzione. E devo dar ragione a tutte queste istanze. Ma devo anche cercare di uscire dalla mia gabbia e cercare il vedere privo di schemi, essere aperto a ciò che incontra il mio sguardo e accoglierlo al di là di tutte quelle pagine e immagini che affollano la scena della mia memoria.

Bones in pages è uno spettacolo che pone questo tipo di domande. Questioni che vanno al di là della visione, della danza a tratti netta e semplice come una scia nel cielo, a tratti nervosa, convulsa, quasi istericamente sincopata. Vuoti e pieni, attesa e risoluzione, lentezza e velocità, come una musica del gesto, si compone e scompone sulla scena, in mezzo a tutti quei libri, quelle pagine svolazzanti, e il nostro sguardo in platea cosa riesce a cogliere? Riesce a rompere le barriere trasparenti che ingabbiano gli oggetti? Riusciamo a fendere la tela che divide, quasi trasparente membrana il palco dalla platea? Il velo è si tanto sottil che il trapassar dentro è leggiero, ma v’è pur sempre, e quel velo trattiene tutte le immagini e i ricordi e le sensazioni che ci hanno attraversato fino a quel momento, e gettano un’inevitabile ombra su ciò che vediamo.

odio

ODIO Fattoria Vittadini coreografia Daniel Abreu

Una danza stupenda. Ammaliante. A volte immagini di una grazia e purezza struggenti. In certi istanti quelle donne nude velate da quelle lunghe stoffe bianche e pelose come una pelliccia, quelle donne che intrecciano ii loro corpi come serpenti, o combattono feroci come menadi, sono talmente belle da commuovere.

Odio. Questo il titolo dell’opera. Odio? Ci domanda subito dopo lo schermo dopo aver affermato il titolo. E infatti è la domanda che mi pongo all’uscita. Non dovrei provare questo fascino, questa sorta di pace che sempre mi proviene quando vedo una cosa bella. Eppure è quello che provo.

Incominciamo dal principio. Tre capitoli: il cacciatore, il nulla, successo religione e morte. In ogni capitolo si declina l’odio in tutte le sue possibili varianze. Proprio in tutte? Non credo. Sembra quasi che si voglia tralasciare gli estremi. Volutamente. Sembra che l’intenzione sia piuttosto di far trasparire la fascinazione dell’odio, soprattutto in quelle aree di confine, contigue in cui, sul filo sottile di un funambolo, un sentimento può in un istante cadere nel baratro del suo contrario. La fascinazione della caduta, l’attrazione nell lasciarsi cadere nell’abiezione, quello che Poe chiamava il demone della perversione.

E questo è molto evidente nella prima parte: il cacciatore. Il legame tra la caccia, l’assassinio e l’erotismo si potrebbe dire è la cifra del mondo greco antico. Calasso in un suo recente e stupendo libro ne mette in luce gli aspetti con la sua lucida e evocativa scrittura. Ma qui siamo più a un livello di superficie, di evidenza. C’è più sesso e lotta che vera e propria caccia. E un trapassare tra passione e violenza spesso commiste. Abbandono e forza bruta, Rapina, lascivia, sadomasochismo. L’abbandono al dolore che dà piacere ma conferisce il potere di fermare il gioco.

Nella seconda parte, il nulla, sembra più un girare in tondo al problema, mai freccia che colpisce il bersaglio, quasi un perverso e aggraziato girotondo mentre sullo schermo il catalogo delle abiezioni: stupro, violenza, intolleranza, pregiudizio e via dicendo. Non c’è perforazione solo galleggiamento. Ci si sofferma sulla superficie dello specchio affascinati dall’immagine che ne risulta. Quasi uno specchio d’Armida che soggioga la mente. L’ultima parte, quella che si richiama a successo, morte e religione, è quella più affascinante. I tre corpi delle danzatrici si intrecciano come serpi, accordi e sincronie di una trimurti nuda e splendente, in quelle luci basse e soffuse. Nessuna inquietudine, nessun fulmine a scuotere la terra. E la frase di Nietzsche: “le persone che più hanno amato l’uomo sono quelle che più gli hanno fatto danno. Hanno voluto da lui l’impossibile, come tutti gli amanti”.

Sembra un segno di resa. Come a dire che questa è la nostra natura. Odiamo perché è nel nostro DNA. Il lato oscuro della forza ci attrae e ne saremo sempre schiavi. Cioran esprime da sempre un concetto simile. Per lui l’amore e la santità sono delle aberrazioni nell’animo umano. Per raggiungerle bisogna sforzarsi e molto. L’odio è molto più affascinante nella sua semplicità. Questo mi è giunto. E mi chiedo se questo sia la sensazione che doveva arrivarmi da uno spettacolo che parla dell’odio. Non che ci sia qualcosa di giusto o di sbagliato. Anzi. Mi guardo bene dal dire che l’arte, in qualsiasi forma appaia, debba essere giusta o sbagliata o che ci sia in essa del giusto e dello sbagliato. Non è compito dell’arte dare giudizi. Majakovskij scriveva che l’arte non è lo specchio del mondo ma il martello con cui forgiarlo. Ecco in quest’opera, seppur magnifica, seppur minuziosamente cesellata come un bronzo di Donatello, mi è mancato il martello. La fascinazione, l’ammaliamento, mi lasciano distante ammiratore. Ne subisco il fascino distaccandomene subito.

Nel buddismo tibetano le immagini più orrorifiche sono entità benevole perché conducono al distacco e alla verità. Quelle più suadenti e meravigliose sono demoni che conducono alla fascinazione de e per la vita. Ecco, Odio, mi sembra proprio questo tipo di apparizione. Bella, stupenda, persino accattivante, anche quando tocca la perversione. Affascina ma non incide. È come il bacio voluttuoso di un succubo, ti ama fino a sfinirti, lasciandoti vuoto.

statolento

Statolento PERCHÉ DESERTO

Una riga di pagine strappate. Libri in frantumi a tracciare una diagonale. Un’immagine limpida di parole al vento su una scena deserta. E poi le figure. In un turbinio intorno all’uomo centrale e le pagine seguono quel vorticare. Come chicchi che si aggiungono ai chicchi in un impossibile mucchio le figure si alternano, si susseguono a raccontare un possibile Don Chischiotte. E non importa un fico il riconoscere quelle immagini, se ci sono o meno i mulini a vento, se quei quasi cavalli son proprio Ronzinante e l’asinello di Sancho. Non importa davvero cercare la chiave, il segreto del lavoro è nelle pagine strappate. Non è dai libri che sorge la folle visione del Cavaliere dalla trista figura? E non nel rogo di quelle pagine che il curato cerca la salvezza di don Chischiotte? Le pagine dei libri son la fonte di ogni nostra divina follia, rapiti dalle ninfe racchiuse nella cellulosa evochiamo ciascuno la sua chimera e partiamo per viaggi da cui non c’è ritorno. In quei frammenti c’è la storia di ogni Don Chischiotte. E questo basta. E poi questo lavoro nasce proprio dal confronto con il concetto di classico. È nelle pagine dei classici che ci formiamo,ed e da quei luoghi, dai paesaggi evocati dai grandi libri che troviamo le immagini che diventano nostre e come reti imbrigliano il mondo. Dai libri costruiamo la nostra educazione sentimentale, i nostri odi atavici. Il mondo è in quelle pagine strappate e quelle figure che danzano sulla scena in fondo vengono proprio dai quei frammenti naufraghi sulla spiaggia della scena.

Un lavoro energico e vigoroso da parte di questo giovane gruppo formato da Claudia Adragna, Francesco Di Meglio, Samuel Nicola Fuscà e Camilla Sandri. Perché deserto è una piccola opera non priva di momenti di poesia, di leggera malinconia, di fresca vivacità. Il lavoro sarà domani sera 9 ottobre al teatro Elfo Puccini di Milano nell’ambito del festival MilanOltre. Consiglio di andarlo a vedere non solo perché questi giovani meritano attenzione ma anche per constatare che, benché ostacolati in ogni modo, in questo paese ci sono ancora i coraggiosa che intraprendono una seria ricerca.

Daniel Hellmann

TRAUMBOY di Daniel Hellmann

Ho conosciuto Daniell Hellmann due anni fa durante il Performa Festival in Canton Ticino nella vicina Svizzera. E nel conoscerlo mi colpì immediatamente l’acuta intelligenza, l’amabilità della sua persona, il rigore con cui affrontava il suo lavoro. Lui presentava una piccola e strana performance Full service. In una cabina Daniel incontrava il pubblico, uno spettatore per volta, contrattava il prezzo e soddisfaceva qualsiasi desiderio gli venisse richiesto. In quella cabina Daniel si trasformava in una macchina desiderante e desiderata. Diventava merce al fine di liberare i desideri. Un gioco pericoloso, un dispositivo feroce.

In quei giorni ho avuto modo di chiacchierare molto con lui, ci siamo scambiati punti di vista, ci siamo confrontati a lungo. Quello che mi affascinava nella personalità di Daniel era l’estrema purezza con cui si assumeva il compito di essere oggetto di desiderio. Incontrava il desiderio altrui, quale esso fosse, con estrema apertura, senza filtri, accogliendolo dentro di sé, su di sé, abbracciandolo. Come una sorta di Cristo portava su di sé i desideri e i peccati del mondo. Per soldi. Questo forse potrebbe far sussultare qualcuno ma, in fondo, perché? Non siamo tutti pronti a pagare per disgregare i nostri desideri? Non siamo consumatori coatti, pronti a desiderare ciò che ci viene imposto di desiderare? E la perversione di questo sistema non sta proprio nel poter assumere ed eseercitare, pagando, il potere sull’altro e sulla cosa desiderata? Daniel mettendosi al servizio completo del pubblico pagante scatenava una furiosa ridda di domande.

Parlo di Full Service perché quella performance è il campo base da cui Daniel Hellmann è partito per costruire questo nuovo spettacolo: Traumboy, il ragazzo dei sogni. Daniel è diventato un prostituto di professione. Ha deciso di indagare sulla sua persona il mondo del desiderio a pagamento, desiderio prettamente sessuale, ma non solo. Nella prostituzione vi sono mille desideri nascosti che si attivano nella sfera sessuale o cercano di trovare sfogo nella sfera sessuale. Solitudine, compassione, compagnia, potere, comprensione, sottomissione, violenza, crudeltà, persino l’amore.

E Daniel Hellmann tutto questo l’ha sperimentato sulla propria pelle di performer e da queste esperienze ne costruisce uno spettacolo in cui i suoi racconti di prostituzione disegnano il mondo da lui esperito. Non c’è scarto tra realtà e finzione. Ciò che lui ha vissuto diventa scena. Si stacca da sé, diventa oggetto di riflessione. Non c’è rappresentazione, né interpretazione. È metamorfosi di un vissuto in una sorta di prassi filosofica. Il pubblico sa che ciò che viene raccontato è realtà. Si trovano veramente di fronte a un uomo che si dedica alla prostituzione. Solo questo fatto li mette di fronte ai propri pregiudizi e desideri più nascosti. Il giudizio che emettono dentro di sé, lo emettono per primi contro se stessi. Daniel non ha paura di confrontarsi con l’agorà perché è l’agorà stessa a dover temere il confronto con il ragazzo dei sogni. Egli incarna ciò che c’è in loro. Se non piace, se disgusta, se attira, se attrae è nel cuore di chi guarda non di chi si mostra. Tutto il dramma non si svolge sulla scena ma nel cuore del pubblico. Questa è la potenza dell’azione scenica di Daniel Hellmann. Ed è un atto estremamente coraggioso ma anche necessario.

Questa performance che andrà in scena il 6 ottobre al FIT di Lugano merita di essere vista, di essere esperita. Dobbiamo metterci a confronto con i nostri desideri più nascosti se vogliamo capire qualcosa di più di noi stessi, se non vogliamo come degli struzzi affondare la testa nella sabbia e subire il mondo e la vita. Daniel Hellmann ci mette in condizione di gettare uno sguardo limpido e sincero dentro il nostro cuore di tenebra. Lui non fa altro che mettersi a disposizione. Ascolta le nostre richieste, prende i nostri soldi, e soddisfa i nostri desideri. Se c’è qualcosa di giusto o di sbagliato in questo è più nella nostra anima che nella sua.

nicht schlafen

NICHT SCHLAFEN di Alain Platel

La prima reazione a caldo di fronte a questo lavoro di Platel è stata perplessità. Mi sono chiesto per alcuni giorni da dove derivasse questa sensazione. Mi sono dato alcune risposte. Comincerei da Kandinsky in quale scriveva: “In arte 1 più 1 da 0, non due”. Con queste parole intendeva che ribadire il concetto, dire due volte la stessa cosa, annullava il segnale. Nicht Schlafen mi sembra che ribadisca per tutta la durata dell’opera lo stesso identico messaggio: sotto la patina di civiltà di cui si ammanta l’Europa, si agitano inquietudini, incubi, incertezze che per quanto si cerchi di tenere sotto controllo increspano l’acqua limpida. Sotto la superficie si agitano correnti estremamente pericolose. E questo lo si può sentire fin da subito, dall’inizio cantato, lieve, dolce, estremamente suggestivo seguito da un lungo momento di lotta, dove i danzatori furiosi, si stracciano le vesti a vicenda. E lo si può desumere anche dal continuo utilizzo delle musiche di Mahler, il quale facendo convivere la classicità sinfonica della tradizione viennese, con le dissonanze e le rotture armoniche, esprime più di ogni altro compositore quel lento sgretolarsi della civiltà europea alla soglia della Prima Guerra. Quella dolcezza melanconica di certi movimenti, è costantemente attraversata da segnali di allarme. La musica di Mahler è come il canto di Rutilio Namaziano, il viaggiatore che attraversa l’impero in fiamme e ne canta l’inevitabile decadenza insieme allo struggimento per la sua scomparsa.

Il teatro, ma potremmo allargare il discorso a ogni arte scenica, serve a ricordarci che il cielo può caderci in testa in ogni istante. Così diceva Artaud. E in questo momento storico niente è più importante di quest’aspetto. Se le arti hanno uno scopo, è quello di mettere a nudo il mondo lasciando libero chi guarda di riflettere e prendere decisioni.

Ora però il problema è che questo messaggio resta pressoché costante per tutta la durata dell’opera. Mahler resta costante. La lotta violenta e la dolcezza della danza si alternano in un battito costante che non tocca mai gli estremi. Tribalità e classicità, movimenti di insieme e rotture dell’equilibrio, tutto si alterna come un movimento di metronomo, alla lunga ci si abitua.

Ma non solo questo mi ha creato perplessità. La scena è forte. Cavalli e un bue, riversi, morti, a ricordare la mattanza, quasi una meditazione sul cadavere. Alcune scene sono potenti per violenza. Non solo la lotta, ma anche l’amplesso con il corpo morto del cadavere, o l’infierire sul corpo cristico del danzatore da parte del gruppo. Eppure si trapassa da questo a momenti più distesi come se niente fosse. Il danzatore che si fotte il cadavere, rientra tranquillamente nel gruppo, senza che niente turbi l’insieme. Ora normalmente questo sarebbe un errore di sintassi drammaturgica. Ma è impensabile che un artista del calibro di Platel possa commetterlo. È sicuramente un segno, c’è una volontà. Come in uno zapping televisivo che trapassa dall’immagine della guerra in Siria alla telenovela sdolcinata. Ma la domanda che mi pongo: è efficace? Direi di no. Si perde immantinente l’energia e la potenza dell’immagine. Si scivola, non si trattiene nulla. E forse è questo che si voleva. Ma il tutto diventa come una scatola cinese: non è l’immagine ma il congegno, il dispositivo a essere importante, e quindi tutto diventa indiretto, mediato, estremamente intellettuale.

Questo è quanto mi lascia perplesso del lavoro di Platel: l’essere macchinoso, indiretto, cerebrale, asseverativo. É come un romanzo a tesi. C’è qualcosa da capire, questa cosa non lascia scampo al proprio atto di visione. C’è un imperativo categorico da capire, e di fronte ai messaggi univoci mi trovo sempre troppo a disagio.

LO SPIRITO DEL LAGO – MY WAY

Da quasi due decadi si svolge a Stresa sul Lago Maggiore una piccola manifestazione dedicata all’arte contemporanea. Il nome è di per sé evocativo: Lo spirito del lago.

Già nel nome c’è l’essenza di questo piccolo gioiello: una sorta di genius loci che guarda e veglia amorevole sulle cose dello spirito, sempre più neglette, sempre più bisognose di spazio. E insisto sulla parola piccolo, perché la parola non è diminutiva, ma ha l’accezione di minimo, delicato, pieno di grazia, non invadente.

E questo spirito lo ha evocato il suo curatore italiano la vera anima di questo evento (per dovere di cronaca ci sono anche due curatori tedeschi gli artisti Peter Gilles e Birgit Kahle), e prima di parlare dell’esposizione vorrei appunto parlare dell’uomo: Giampiero Zanzi. È stato sempre per me un maestro. Un uomo a cui ho guardato sempre con amore, ammirazione e rispetto. La ragione è semplice: ha fede nell’arte e questa fede non è mai stata scalfita nonostante venga spesso considerata come una eccentricità, una stranezza verso cui scuotere le spalle. Le istituzioni cittadine e locali lo supportano quel tanto che basta per lavarsi la coscienza. Nessun vero aiuto o supporto. Ma Zanzi non se ne cura, come un vecchio saggio orientale, scivola sull’indifferenza con la forza della sua fede. Ha portato negli anni grandissimi artisti a Stresa, da Spoerri, a Palavrakis, da Milo Sacchi a Ferdinando Greco, da Peter Gilles a Franco Rasma. E il tutto grazie al suo instancabile lavoro, alle sue relazioni d’amicizia con gli artisti, al suo essere capace di convincerli nella forza del suo progetto.

Quest’ultima edizione de Lo Spirito del lago è titolata My Way ed è dedicata non alla versione famosa della celebre canzone, ma a quella più distopica e dissonante cantata da Sid Vicius. C’è un intento ad andare al di là della bellezza, delle mode, del consueto. Zanzi nel comunicato stampa scrive: “desidero rivolgermi a persone che con il contemporaneo non hanno dimestichezza e auspico che la discussione caratterizzi l’evento. Gli artisti saranno scelti in relazione alle loro opere e non al nome”. In queste poche righe vi sono molte scelte scomode: non chiudere l’evento artistico nella torre d’avorio degli addetti ai lavori, desiderare il dialogo con il pubblico, aspettarsi le domande scomode, scegliere in base al valore reale dell’opera e non basarsi solo sul nome di chi la presenta. Scelte inattuali, che non fa quasi più nessuno. In un mondo dell’arte in cui conta il curriculum più che la ricerca, in un mondo dove la progettualità bancaria e istituzionale richiede risultati certi prima ancora di avviare il progetto, Giampiero Zanzi sceglie il rischio, l’incerto, il fluido lo scorrere delle idee, l’incompiuto. Questo fa di lui un’eccezione e anche forse un eretico. Ma è la sua forza, la sua grandezza. E non di poco conto è anche l’operare in una provincia oscura, di grande bellezza paesaggistica, ma povera di azione culturale. Questo senza però dimenticare l’apertura verso mondi più aperti, soprattutto la Germania, da cui ogni anno scendono galleristi e amatori per seguire il suo progetto. E paradossalmente Lo Spirito del lago è più conosciuto in Germania che in Italia.

Ma ora parliamo della mostra, intitolata, come detto, My way. La mia via. I tre curatori hanno deciso di invitare gli artisti non secondo un progetto comune, ma mettendo insieme scelte divergenti secondando il loro gusto. Questo potrebbe essere sintomo di confusione in molti casi, ma non in questo. Accostare anime diverse ma unite in qualche modo dai nessi imprevisti che nascono nell’osservatore proprio dalla contiguità. Opere forti, spesso inedite nonostante alcune siano datate. Come l’opera di Milo Sacchi, cosparsa di crocefissi, con un lungo chiodo a sporgere dalla tela, pericoloso. Un invito a non accostarsi troppo all’opera che potrebbe ferire l’occhio di chi guarda. O le teste di Franco Rasma, nere, inquietanti, decorate con becchi di gallina. Idoli terreni, che parlano di qualcosa di spaventoso, della morte che ci aspetta tutti in fondo alla strada. E poi le figure umane fatte di sangue e colore nero sulla grande tela di Peter Gilles, l’artista tedesco che dipinge con il proprio sangue. Non tutto parla di mondi oscuri. C’è anche il fallimentare tentativo di giungere sulla luna in mongolfiera di Peter C. Simon, le sculture sonore di Ale Guzzetti, e quelle matematiche in legno scuro e grezzo di Armin Göhringer.

C’è molta diversità d’azione artistica in questa piccola esposizione, quasi una galleria temporanea che torna ogni anno nonostante le difficoltà, una diversità stupefacente. Sofocle quando parla del divino usa la parola sempre con due accezioni: spledido e tremendo. Ecco questa è forse la cifra esatta de Lo Spirito del lago.

Auguro a Giampiero Zanzi di riuscire a continuare, di non stancarsi mai di credere nella potenza dei doni che l’arte può dare allo spirito: la tua via è giusta perché difficile, stretta e piena di pericoli!

foto: Giampiero Zanzi

hearing

HEARING di Amir Reza Koohestani

In Hearing ci troviamo calati in un dormitorio femminile a Teheran. La voce di un uomo è stata sentita nella camera di una ragazza. C’è stata un denuncia. É partita un’inchiesta. Questo è l’incipit. Le ragazze si alternano sul palco per essere interrogate. Chi interroga è seduto in mezzo al pubblico che si trasforma in tribunale. Le ragazze negano, chi di aver fatto la denuncia, chi di aver portato nella notte di capodanno un ragazzo in camera. Forse era solo il vivavoce. Forse qualcuno se l’è immaginato. Forse era solo la gelosia e l’invidia, o il gusto perverso della delazione. In un contesto sociale in cui le studentesse vengono barricate dentro una struttura sorvegliata da guardie, telecamere, porte, cancelli e grate, più simile a una prigione che a una residenza universitaria, e dove quando entra un uomo un altoparlante richiede che le ragazze osservino l’hijab, ossia che si nascondano alla vista, o con il velo o con il chiudersi in camera, niente è sicuro, nessuno ha veramente visto il fatto,si sono solo sentiti dei sussurri, o forse si è semplicemente immaginato, ecco in questo contesto il reale e l’immaginario si confondono e resta solo l’inquisizione, il pericolo della denuncia, della commissione di controllo.

Il racconto ci mette immediatamente in uno stato di febbrile curiosità. Qualcosa è successo, qualcuno ha denunciato qualcun altro. Presto si comprende il fatto ma non è chiaro se sia avvenuto realmente. Le ragazze negano, sono sottoposte a una fila di domande. Si chiede la verità, per scampare l’espulsione, per evitare problemi, anche se questo comporta denunciare un altra persona. Delazione, terrore, diffidenza.

Ma la storia non è solo qui ed ora. È stata anche nel passato. La ragazza che forse ha denunciato è adulta, quella che è stata denunciata, forse ingiustamente, è morta suicida. Sensi di colpa, rimorsi, richiesta di perdono.

E poi la storia ricomincia sempre uguale, sempre diversa.

Una piéce terribile Hearing per la sua ferocia chirurgica e senza orpelli. Solo le donne in scena, solo il loro racconto e gli interrogatori serrati.

Unico elemento il video, utilizzato in maniera estremamente intelligente e suggestiva. Le ragazze entrano e escono di scena convocate dalla commissione d’inchiesta. Si alternano. La camera è in soggettiva, il punto di vista è quello di chi racconta perché le ragazze se la scambiano. Il video fa vedere anche cosa succede fuori scena. Scale che si inabissano, corridoi. Spazi reali ed immaginari. Il foyer e le scale del teatro si trasformano in un collegio di Teheran, ma nello stesso tempo resta il teatro e diventa tribunale. Il video con tecnica cinematografica racconta cosa succede fuori scena. I dialoghi lontano dall’inquisitore. Gli spazi angusti dove si svolge la vicenda. I rapporti che non si possono esprimere durante l’inchiesta.

Hearing racconta una realtà di sospetto e di paura. Dove un sussurro può creare pericolo. Dove ciò che si immagina benché forse non reale, pesa sulla vita delle persone, rovina le vite di chi accusa e di chi è accusato. La verità resta nascosta. Pericolosa quanto la menzogna. Il pericolo si annida dovunque, persino in un sussurro e questa verità è tanto terribile quanto evidente.

Una grande regia e una grande drammaturgia. Uno spettacolo che fa riflettere, che non rassicura con vane lusinghe ma che analizza freddamente una realtà più vicina di quanto si creda.

Jerusaòem cast

JERUSALEM CAST LEAD HALLUCINATORY TRIP di Winter Family (FR/ISR)

Che la retorica avveleni gli animi e offuschi gli occhi è evidente prima di varcare le porte del Teatro Astra di Torino per vedere Jerusalem Cast. Un piccolo banchetto di attivisti di “Boicotta Israele” distribuiscono volantini che invitano a boicottare lo spettacolo degli artisti israeliani. Se gli avessimo dato retta avremmo perso Jerusalem Cast che è una rivolta politica contro Israele. I militanti fuori dal teatro stavano dunque cercando di boicottare un alleato delle loro idee. Se solo avessero letto di cosa parlava lo spettacolo forse si sarebbero uniti alla compagnia anziché cercare di boicottarla. Ma come avviene quasi sempre a questo mondo prima i principi e poi la conoscenza. Ma ora parliamo dello spettacolo.

Il titolo lo dice chiaramente: Jerusalem cast è un viaggio allucinato e allucinatorio. L’oggetto è l’anniversario della costituzione dello Stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme. Questo è il punto d’origine da cui si dipana il viaggio attraverso uno stato militarizzato, pronto a far leva sul suo passato straziante per giustificare e dimenticare gli orrori commessi nel presente. Propaganda che punta al sentimentale con show in cui i soldati leggono le lettere dal fronte, i familiari delle vittime di attentati vengono mostrati in ogni dove per sollecitare il sentimentalismo e l’attaccamento alla patria, canzoni che ricordano la Shoa e le persecuzioni subite per giustificare le persecuzioni attuate. Il tutto mentre una voce scandisce le infinite risoluzioni dell’ONU che condannano Israele per la sua politica di aggressione coloniale verso i territori palestinesi. Sulla scena si moltiplicano le bandiere, le pose e le marce militari, i discorsi politici di propaganda, i suoni delle sirene, i colpi d’arma da fuoco. Militarismo e sentimentalismo hanno da sempre offuscato i sensi dei popoli durante le dittature. Un atto di accusa forte da parte di questa compagnia franco-israeliana, in puro stile agit-prop, scarno, essenziale, senza commento. Quasi un incedere documentaristico, con fonti dell’ONU, filmati della TV Israeliana, documenti di parate.

Le guerre mediorientali sono un ginepraio inestricabile. La propaganda politica e religiosa avvelena entrambi i contendenti. Una pace necessaria da decenni sembra impossibile in questo contesto. La guerra avvelena gli animi ed è difficile essere oggettivi, dare uno sguardo lucido agli avvenimenti, eppure bisogna provare per cercare una soluzione. Questo lavoro è un’accusa implacabile contro Israele e la sua politica: Non c’è ironia, non c’è pausa nel puntare il dito, non c’è quasi spazio per il perdono. Jerusalem è costruito e innervato da uno spirito combattente, è militante, è fatto con rabbia e dolore. Questo è palese. Non si può nemmeno comprendere cosa significhi appartenere a un paese in guerra continua dal momento della sua costituzione. Subire l’odio, fomentare l’odio, provare l’odio. L’animo avvelenato è il frutto conseguente dell’odio e di fronte a tanto male non si può che versare lacrime su Gerusalemme città santa e città martire, ma soprattutto città senza pace.