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LA FAVOLA D’ORFEO di Claudio Monteverdi

Gesualdo Bufalino ne Il ritorno di Euridice lo dice senza mezzi termini: “Orfeo s’era voltato apposta”. L’eroe di cetra munito che con il suo canto dolente e accorato aveva piegato persin l’Averno, si boicotta così all’ultimo momento quando già vede la luce del mondo: “Ma mentre io canto, ahimé chi m’assicura ch’ella mi segua?”. E così Orfeo si volta e tutta la sua fatica svanisce così in un attimo, tempo giusto di veder la delusione della poverina che già si vedeva scampar dalla nera morte. Ma quel voltarsi non nascondeva forse ben altro progetto? :”L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta”. In fondo Orfeo era poeta, cantava per il pubblico e il pubblico si sa, ama gli amori tristi.

Così per burla potremmo incominciar a parlare di questa Favola d’Orfeo di Claudio Monteverdi venuta alla luce in quel torno di tempo tra le fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, a cavallo tra Rinascimento e Barocco, nella piccola e ricca Mantova del duca Vincenzo. La Mantova dei Gonzaga era fiorente fucina di sperimentazione e produzione artistica. A frequentar la corte del duca si trovavano alcuni tra i migliori ingegni dell’epoca: il Tasso appena liberato, il giovane Rubens, Leone De’ Sommi ebreo che lasciò i suoi fondamentali Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche che ancor oggi sono un piccolo capolavoro, poi ultimo e non meno importante, il compositore Claudio Monteverdi. Siamo nel periodo dove la colta e dissoluta élite intellettuale rinascimentale si riuniva in Accademie, coltivava sogni di rinascita culturale, elaborava teorie e progetti in una temperie magico/mistica ispirandosi a Platone, Ermete Trismegisto e agli Inni Orfici, inventava cultura sulla base di un passato greco/latino spesso frainteso e mitizzato.

I figli del duca, Francesco e Ferdinando frequentavano anche la Firenze Medicea con cui vantavano diritti di parentela essendo la madre Eleonora figlia del granduca di Toscana. E in Firenze in quel di Palazzo Pitti poterono forse assistere, insieme all’avvocato Alessandro Striggio, alla rappresentazione di Euridice di Jacopo Peri su testo di Rinuccini. In quel 5 ottobre del 1600 nasceva il melodramma. E se per questa prima delle prime Rinuccini e Peri si rifecero all’Orfeo di Poliziano e a le Metamorfosi di Ovidio, presto altri si rifecero proprio alla vicenda di Orfeo e Euridice per seguire le orme dei due padri del Melodramma: Caccini prima, con una nuova Euridice, e Monteverdi/Striggio con la Favola d’Orfeo.

E fu proprio in Mantova per incarico e in presenza dell’Accademia degli Invaghiti che durante il carnevale del 1607 il neonato melodramma sbocciò in tutta la sua gloriosa potenza. Ma non alla presenza di un folto pubblico, in una festa trionfale, bensì in forma privata nelle sale lunghe di Madama Margherita D’Este Gonzaga.

Non deve stupire questo eroico furore creativo. In quell’arco di tempo a cavallo tra due secoli, l’arte tutta stava sviluppando arditi miscugli di generi proprio nelle feste della nobiltà che si dilettava a gareggiare in mecenatismo. I trionfi non a caso sono stati indicati come prodromi arcaici dell’Happening, luoghi ambigui di un crossover di linguaggi artistici senza precedenti.

Quanto distante tale temperie culturale dal blando e sciagurato milieu culturale dell’italietta di oggi. Ci si accontenta di rispolverar le glorie artistiche anziché cercar di crearne di nuove facendo anche a pezzi le vecchie. In fondo che fecero quei lontani innovatori? Non presero forse Orfeo e ne elaborarono una favola dove Apollo scende dall’alto per consolar l’infelice poeta nemico di se stesso? I greci e i latini non gli riservavano forse più triste sorte smembrato dalle Menadi, con la testa spiccata dal collo che volando ancor cantava prima di scomparir tra i flutti di un tracio fiume?

E invece si rappresenta, si illustra invece d’inventar qualcosa di nuovo. Si rispolverano anche i praticabili da cui far scendere il Deus ex machina. Si fa archeologia anziché esplorazione. Per fortuna che c’è Monteverdi! Ci pensa lui vecchio di quattrocent’anni a ricordarci della modernità, con le sue polifonie aggraziate, con le sue invenzioni sonore. Perché sulla scena si vede il già visto, ci s’attarda nei gesti pomposi e abusati, e nel far tale sfoggio di triste trivialità scenica ci pensa la veste birichina a coprire il capo ottuso di quest’Orfeo da baraccone. Ma mica colpa del povero cantante. Sulle scene del teatro d’opera e invalsa la tradizione, sfatata da pochi illuminati che cercano un altrove. E ciò che in nota di regia si dice esser movimenti studiati, rituali, “una ritualità legata alla cerimonia nuziale, all’evocazione, all’apoteosi, alla magia, con riferimenti anche storici”, alla vista appare quanto di più semplice e ovvio si potesse fare. Si cerca più l’effetto visivo che il far della scena un luogo da cui si guarda come l’etimo di Teatron vorrebbe. Si intrattiene la vista in un paesaggismo che lascia un po’ a desiderare. Quello che si chiama regia d’opera in fondo non è che fare il vigile urbano a regolare il traffico di entrate e uscite, senza un’idea una, di tempo, spazio e corpo che valga la pena d’esser vista. Per fortuna che c’è Monteverdi, lui si grande sperimentatore la cui modernità sopravvive ai secoli. E dalla sperimentalismo di quelle corti rinascimentali s’avrebbe tanto da imparare! Anziché vantarsi delle glorie del passato si avrebbe da studiare le modalità che portarono a tanta ricchezza.

Ma torniamo all’Orfeo di oggi. Quello andato in scena il 5 maggio al Teatro Ponchielli è una versione che recupera il finale dell’edizione a stampa in Venezia del 1609 e 1615. Il finale con Apollo appunto che eleva al cielo il poeta sollevato dalle gioie e angustie terrene per rivolgere la sua poesia alle cose superne. Versione questa che differisce da quella andata in scena a Mantova nel 1607 dove le Menadi si lanciano all’inseguimento di Orfeo reo di plateale misoginia. Molto si è discusso sulla disparità di questi finali. Mi piace pensare sulla scorta delle tesi di Nino Pirrotta e Stefano Aresi, che a stabilire la differenza sia stata l’esigenza scenica. Le stanze che ospitarono la prima forse erano troppo poco spaziose per ospitare i macchinari per l’intervento dall’alto di Apollo e si optò per una soluzione più semplice e fattibile. Mi piace pensarla così perché sarebbe il teatro a vincere, le sue esigenze e la sua carnalità, e che la letteratura si sia dovuta piegare ad essa, lasciando perdere i progetti restando legata alla terra. Anche questa sarebbe lezione da imparare laddove in teatro si vedono e si odono troppi “pensieri” e interpretazioni registiche, nonché messaggi da far trapelare. Il teatro non è il megafono del punto di vista del regista, ma il luogo da cui si guarda, dove ogni sguardo è possibile e che il pubblico è libero di cogliere, fraintendere e perfino di non capire affatto.

romeo castellucci

Democracy in America secondo Romeo Castellucci

In origine era un trattato socio-politico del 1835, frutto di un lungo soggiorno nella patria del blues, scritto da Alexandre de Tocqueville. Affascinato dal sistema della democrazia rappresentativa repubblicana, l’autore francese indagò in due volumi come il movimento democratico statunitense influenzasse la vita politica del paese, e che tipo di influsso la democrazia esercitasse sulla società civile. Quello che appare lampante e profetico del saggio, è l’aver centrato un meccanismo subdolo e sottile – non ancora estirpato, guarito, curato: la democrazia tende a degenerare in un “dispotismo addolcito“.
Questo spettacolo non è politico“, dice Romeo Castellucci. Il quale sembra però, con la sua messinscena, affermare, affermare continuamente qualcosa che sfugge. Non vorrebbe essere politico quindi, ma parrebbe esserlo. Come l’attuale mondo politico esso è contraddittorio, confuso, ridondante (di simboli). Tanti, tantissimi sono gli input che l’attraversano. Dalle guerre contemporanee di conquista, con l’elenco di paesi insanguinati da recenti e devastanti carneficine, alla sfilza di battaglie ed emendamenti portanti nella storia statunitense; passando per la crudele vicenda di due contadini puritani.
Lo spettatore è così bombardato da messaggi ambigui, e punzecchiato da dualismi accentuati; ad esempio, quello che contrappone la presunta purezza dei nativi popoli pellerossa alla bianca società schiavista e maschilista – che affonda le sue radici in un’Europa dissoluta e coloniale. I buoni contro i cattivi? Due indiani d’America, poco prima del finale, dialogando tentano di imparare l’inglese, la lingua dei loro sterminatori, in una scena che sembra uscita da un corso per stranieri della Wall Street English.
Molte le trovate scenotecniche (bracci meccanici che si muovono in aria come fantasmi), i momenti di danza (che sembrano richiamare, a turno, i riti vodoo, il can-can, le cerimonie dionisiache). Molte le chicche stilistiche, non proprio nuove, una su tutte l’immancabile nudità e la vernice, quando rossa, quando nera, con cui l’attrice protagonista si spalma il corpo. Come spesso accade nei lavori di Castellucci, l’intellettualità regna padrona, anche se mascherata da tribalismo e immagini che esaltano i movimenti delle interpreti e delle ballerine. Ci si sforza di capire, di pensare in modo intelligente e compiuto. Considerando che il teatro è potente quando è viscerale, è spontaneo chiedersi dove porti questo peculiare sentiero registico e drammaturgico. Forse in nessun luogo, in nessuna foresta vergine da scoprire.
Articolo di Tessa Granato
Foto: Guido Mencari

 

stalker

DRAMA SOUND CITY di Stalker Teatro

Raccontare la città non è facile. È un mostro da mille facce, un organismo che si sviluppa senza progetto, dall’interazione di migliaia di vite che perseguono ognuna i propri obbiettivi, spesso contrastanti e antitetici; luogo geografico che si espande, inglobando dentro di sé luoghi preesistenti, configurazioni preesistenti, paesaggi reali e immaginari. Quando pensi di aver colto il bagliore della sua anima essa è già fuggita altrove, cantando un’altra storia, assumendo una nuova identità. Calvino nelle sue Città invisibili scriveva: «Finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città». Potremmo dire che Drama Sound City di Stalker Teatro è una sorta di applicazione di questo principio. Forme e immagini che si susseguono, accompagnate dalla musica avvolgente, calda e suggestiva di Ozmotic.

Tre performer sono distesi su pacchi di cartone, questi cartoni diventano come pezzi di puzzle che disegnano uno skyline, e il disegno viene abitato, ricostruito, in luoghi angusti dove i performer devono stendersi, accoccolarsi, rannicchiarsi per esserne inglobati e partecipare alla sua conformazione. Moduli uguali, elementi frattali che si espandono e contraggono creando infinite forme abitabili. A volte congrue, a volte no.

Poi il buio. E dal buio piccole luci ovulari, che si dispongono come costellazioni, passando da vari stadi alternati di ordine e disordine. L’occhio nell’oscurità cerca le luci e si dimentica del buio vastissimo che circonda quelle piccole uova luminose. E poi delle lunghe stecche flessibili, che mosse veloci creano onde visive che si intersecano, si sovrappongono, onde che generano frequenze e visioni mai uguali a se stesse.

Gli elementi di scena si susseguono cosi come i paesaggi: delle cornici diventano una sorta di loculi da cui emergono nuovi personaggi, le stesse cornici un condominio, e infine degli schermi su cui si proiettano ombre di figure umane, che contraendosi diventano forme astratte, perdendo le caratteristiche di soggettività, e distendendosi ridiventano umane ma con qualcosa di minaccioso.

Gli attori non rappresentano personaggi. Sono esecutori che si mettono al servizio degli oggetti. Lasciano parlare i paesaggi e le forme senza aggiungere. Un’esecuzione puntuale, precisa, come di lavoro quotidiano, di tecnici adibiti a traslochi e smontaggi. Le forme non hanno bisogno di aggiunte. Hanno una propria lingua, ed è quella lingua che racconta la città. Non disturbano i racconti in voice off che ogni tanto emergono nella trama sonora. Non sono illustrazione di niente. Dicono delle cose che possono o meno appartenere all’immagine.

Ogni paesaggio sorge dalla cooperazione degli esecutori. Non vi è data mai formazione caotica o simultanea. La città si crea tutti insieme, benché sembri che ognuno agisca per sé.

Uno spettacolo avvincente quello di Stalker. Un trip visivo convincente e appassionante, forse troppo bello, nel senso che trasudano bellezza senza che il suo contrario rientri nello schema. Non vi è quasi luogo oscuro, brutto, osceno. Eppure la città possiede anche questi aspetti. Questo spettacolo, per qualche ragione mi ricorda quelli de Il Conde de Torrefiel, come uno specchio che riflette un’immagine positiva dal negativo. Se nel caso degli spagnoli non c’è quasi spazio per una speranza, per un piccolo fiotto di luce che possa illuminare l’oscurità che ci assale, nel caso di Stalker non vi è spazio per il contrario anche se lo si avverte leggero sullo sfondo.

Se devo trovare un difetto è la struttura a numeri chiusi, lineare. A un’immagine ne sussegue un’altra, in maniera ordinata, senza sovrapposizioni e fughe. Piccoli percorsi che si chiudono in sé stessi, esaurendo la propria funzione. Ma questo è un po’ cercare il pelo nell’uovo.

de summa

Rito di passaggio con De Summa. La Cerimonia

Prima della decomposizione, della trasformazione in altro – non è dato sapere cosa -, bisogna vivere. Ci saranno incendi, terremoti, distruzione. Ma la morte arriverà solo in un secondo momento. Bisogna saperci fare, apprendere tecniche per riuscire a vivere ciò che ci sarà prima. C’è chi nasce imparato e chi ha bisogno di istruzioni; e chi si rifiuta, si arrende, non vuole fare più niente. Basta. Niente. Non andare più a scuola, non mangiare, non vedere più le amiche. Sarà davvero, solo, un problema generazionale? O universale?
Per Oscar De Summa (autore e regista della pièce) il cerchio è largo, molto largo, poi sempre più piccolo, fino a restringersi intorno all’adolescente Edi (Marina Occhionero) e i genitori (Vanessa Korn e Marco Manfredi). Ognuno infognato in una voragine diversa. Lo zio (De Summa) disegna il cerchio, la bolla, la spezza quando vuole, ne entra ed esce quando vuole. Gli occhi sono tutti puntati su di lei, la piccola, la più giovane, la promessa. Marchiata da un’indifferenza verso il tutto, un disagio sorridente e invasivo, Edi sembra aspirare alla liberazione da una prigionia senza nome, senza volto. Malessere che spesso, lo vediamo ogni giorno, prende la forma di disturbi alimentari, perversioni, cleptomania, violenza. Lei è l’orlo dove si affaccia una madre che oscilla tra l’amore inesauribile per la figlia e l’istinto di resettare. Lo stesso di Medea. In mezzo ai due poli, un tessuto di sentimenti sgargianti e sbiaditi. Sull’orlo si affaccia anche il padre, individuo distratto, pianta appassita in cerca di concime e profumi, di una pala con cui scavare a fondo. La sua scoperta della carne che ha sempre, segretamente desiderato, scatena la rottura delle acque.
Siamo lontani da vere nevrosi, ossessioni, disagi familiari torbidi e maniacali.  Lo scatto che fa emergere a pieno l’inquietudine necessaria a una Cerimonia di annientamento e rinascita, avviene in modo decisivo con i cambi musicali. Trip-hop, grunge, pop, drum&bass, sfumati uno dentro l’altro, funzionano da reattori emotivi per tramutare il litigio quotidiano in una cappa tra l’onirico e l’incubo. Ma non solo. Il testo si irradia, a maglie larghe, in momenti di immagini liriche e spietate, stati d’animo in carne e ossa, volatili. Se ogni interprete, a suo modo, riesce a far vibrare il proprio vissuto, Oscar De Summa in particolare, nel ruolo apparentemente marginale dello zio, interviene facendo risuonare tracce e scie di sé come solchi sgombri e imbrattati, un incalzare di momenti di oblio e memoria per riuscire a dare un senso a questo, tutto questo. Il respirare, mangiare, amare, odiare, sparare, muovere gli arti senza apparente dignità. E se il richiamo al mito che i nomi suggeriscono (Edi sta per Edipo), non è casuale, lui in questa ottica è Tiresia, l’indovino, tramutato in donna e poi nuovamente in uomo, esperto di reincarnazioni qui con qualche sfumatura italoamericana nella voce,
, poi fonte limpida, ancora, per rubare un po’ di forze con cui tenersi in vita.
Può succedere, a volte, di trovare una creazione drammaturgica che scuota, su pareti semplicemente bianche e un appoggio di legno dove avviene la Cerimonia di fine millennio – come ripete continuamente Edi. Siamo a fine millennio, ma questo lo abbiamo deciso noi uomini, la natura non batte ciglio, non inizia niente di nuovo allo scadere della mezzanotte. L’apatia continuerà a chiamarsi tale. La depressione anche. La separazione pure. Il rito di passaggio, per De Summa, aiuta ad accettare questo gioco pericoloso, a fregarsene delle sue regole, e iniziare a giocare. Pur con il sangue che macchia i sedili di una macchina, pur con un corpo e un’anima e una mente che non si riesce ad accettare. Sul palco egli sa sicuramente giocare dannatamente bene, tra un’ironia sottile e appuntita, e crateri di senso. E sembra porre una domanda: rivedere il concetto di famiglia, di individuo, di lavoro, di società si può, è possibile? Il modello attualmente in funzione sembra essere sempre più scassato, bisognoso di essere aggiustato. E non si sa come aggiustarlo. Opere come queste non fanno finta che tutto vada bene.
C’è tempo ancora fino al 9 aprile, al Fabbrichino di Prato, c’è tempo per prendere parte a La Cerimonia, farsene accarezzare.

Recensione di Tessa Granato

altissima povertà

ALTISSIMA POVERTÀ di Virgilio Sieni

Quattro stanze, quattro quadri. Un viaggio tra l’uno e l’altro alla scoperta del movimento e del corpo nella sua purezza, in povertà francescana, senza fronzoli né mostrine. Non si ostenta nulla, non si ha necessità di far vedere, di rappresentare. La concentrazione dei danzatori (molti lo ricordiamo non sono professionisti) è massima, come se si eseguisse una forma alta di meditazione. Ogni gesto è teso, pieno, attento e colmo di cura, nell’ascolto dell’altro, nell’ascolto dell’ambiente. Ci si trova di fronte a una sorta di silenzio cageano, scevro di intenzioni, teso a lasciar emergere e non a indirizzare. I corpi si amalgamano, si addensano, si prendono, si abbandonano, si accarezzano in un fluire di deposizioni, crocifissioni, visioni scultoree pronte all’istantanea fluidità. Le forme proteiche nella loro perenne metamorfosi tornano talvolta a dei punti di inizio: il cerchio, la linea su cui si fronteggiano due file abbracciate. Questi quadri danzati sono così intensi e coinvolgenti, che si ha l’impressione di assistere a un rito antico, a una vera e propria orazione comunitaria. Vi è anche un senso di profonda quiete, di benessere, di estatica ammirazione di questo bello frugale, semplice nella sua complessità, senza opacità seppur mai letterale. Vi è un lavoro immenso sulla presenza scenica, sulla concentrazione verso il corpo e a come esso si muove nello spazio in rapporto all’altro da sé e di fronte all’occhio che guarda. Raramente ho assistito a eventi pregni di una tale concentrazione e intensità.

Nelle quattro sale del Palazzo di Città di Torino, splendide nella loro magnificenza, si assiste con religioso raccoglimento a questo trionfo del frugale e dell’essenziale, del gesto scevro di ogni sorta di ostentazione, potente perché privo di ogni orpello, nudo, povero, perfino misero eppur magnetico e catalizzante. Una comunità di persone che condividono uno spazio, in qualche modo se ne appropriano grazie al movimento che nasce dal loro interagire, sconnesso da ogni volontà di ottenere un risultato o un bene, lontano perciò dall’utile. Contatto, connessione, disconnessione, semplicemente prendere e lasciare, unirsi e separarsi. Come la rosa di Silesius tutto è senza un perché, fiorisce perché fiorisce, non si chiede se lo si veda oppure no.

La comunità di danzatori è priva di differenze come un organismo le cui cellule non si siano specializzate, dividendosi in categorie, funzionalità, gerarchie. Tutti possono diventare fulcro e periferia, albero motore, o piccolo ingranaggio. Una comunità utopistica seppur possibile in quegli spazi, in quei momenti.

Altissima Povertà è un progetto di Virgilio Sieni insieme a La Piattaforma che da ormai un anno si sta sviluppando nella città di Torino. Lo scorso luglio era andata in scena alla Reggia di Venaria una prima versione, oggi nel contesto della Biennale Democrazia ne va in scena una versione più ridotta ma non meno intensa. Alla performance è seguito un piccolo dibattito con Virgilio Sieni e lo storico dell’arte Tomaso Montanari incentrato per buona parte sul potere eversivo del corpo e del gesto. Devo dire che non sono riuscito a scorgere intenti eversivi per quanto la presenza dei corpi sia stata potente e i gesti così intensi da far lacrimare gli occhi. Trovo che questa forma quasi di meditazione comunitaria sia come una sorta di recupero di certo neoplatonismo umanista che svolge la sua azione artistica sotto il motto di Pico della Mirandola: magnum miracolum est homo, e volto alla ricerca del vero, del bello e del giusto. Altissima povertà è una sorta di ascesi pubblica, un’azione iperurania, in cui il corpo materiale quasi trascende proprio grazie alla sua potente presenza. Il gesto eversivo e rivoluzionario è, al contrario, teso verso il futuro, si slancia verso un altrove spostato in avanti nel tempo, è tensione al raggiungimento di un sol dell’avvenire. Mi sembra invece che qui ci sia una certa nostalgia verso valori della grande tradizione, un recupero molto distante da un gesto tagliente e straziante che possa smuovere le coscienze e risvegliare una comunità, più che altro un monito verso certi bonos mores di un lontano e fulgido passato. D’altro canto, come ama ripetere Michel Huellebecq, non vi è niente oggi di meno rivoluzionario dell’arte per il suo svolgersi e consumarsi nei palazzi del potere. Forse è proprio divenuto impossibile all’arte essere eversiva e rivoluzionaria avendo perso molta massa critica negli ultimi anni proprio a causa del suo chiudersi nei luoghi istituzionali e adibiti al suo accoglimento.

Altissima povertà è anche un tentativo di recupero dei luoghi, un riportarli alla comunità. Già Agamben invocava una profana-azione, intesa come un recupero all’uso degli spazi comunitari. Questo di Sieni è un tentativo alto seppur si svolga anch’esso in luoghi non deputati alla danza, ma comunque prestigiosi e istituzionali. Forse in un mercato, o in un quartiere squallido tali azioni avrebbero più potenza d’impatto.

Quello di Sieni è dunque un gesto inattuale, quindi non propriamente contemporaneo nel senso di essere nel qui ed ora ma anche in un luogo altro spostato nel tempo. Gesti del genere sono sempre coraggiosi soprattutto per l’alta qualità che emanano e per la serietà e perizia nel costruirli e renderli possibili. Altissima povertà è un lavoro possente che fa riflettere e certamente contiene germi di discussione e dibattito che possono far solo bene all’ambiente stantio e muffito delle arti performative italiane.

Ph. G. Sottile

orchidee

ORCHIDEE di Pippo Delbono

Orchidee di Pippo Delbono si potrebbe sottotitolarlo: del vero e del falso. Come dice lo stesso regista l’orchidea è un fiore la cui bellezza non si comprende mai se sia vera o di plastica.

Artificio o verità? È un dilemma amletico entro cui il teatro si è dibattuto e si dibatte insofferente da sempre ma con particolare accanimento negli ultimi cento cinquant’anni. Nel caso di Pippo Delbono la domanda è ancor più lecita e ricordo di essermela posta già nel 1999 quando ebbi la ventura di fargli da assistente durante la Biennale di Venezia in cui mise in scena il suo Her Bijit.

Prima di incontrare Pippo mi chiedevo se dietro all’uso di barboni, ragazzi down, emarginati di ogni sorta, per razza, per sesso, per malattia, non ci fosse un certo compiacimento o, al peggio, una certa furbizia. Ero molto dubbioso sull’esperienza che stavo andando a compiere e, lo confesso, avevo non pochi pregiudizi sul metodo di Pippo, perché pensavo, e per certi versi lo penso tutt’ora, che si possa raggiungere la potenza del teatro anche e soprattutto con i professionisti della scena, perché la differenza vera la fa, come in tutte le cose, la consapevolezza del gesto e della funzione.

Pensavo che, senza la consapevolezza, ci fosse sempre la manipolazione del regista che usa i materiale e le persone al fine di creare un’opera, e che quindi, condividere la consapevolezza della creazione con i propri compagni di viaggio fosse un valore aggiunto sulla scena e non un limite.

Poi ho incontrato Pippo e con lui Bobò, Nelson, Mr Puma, Pepe Robledo, Gianluca e molti altri che presero parte allo spettacolo, i profughi, i bambini Rom. Mi ritrovai per circa un mese in un mondo eterogeneo, sofferente e nello stesso tempo gioioso, un vortice di persone ed emozioni spesso caotiche e incontrollabili, ma di una ricchezza senza pari. E il centro di questo vortice era Pippo che con la sua umanità teneva insieme tutte queste differenze, le amava, le comprendeva con una compassione commovente. Era lui l’unico che riusciva a comunicare con Bobò, che calmava gli eccessi di Mr Puma, che tranquillizzava Gianluca, o le stranezze eccentriche di Nelson. Non vi era né sfruttamento, né manipolazione, c’era infinito amore. E la capacità di Pippo di trarre immagini da quel calderone ribollente era imponente, come di chi governa la nave sull’orlo del maelstrom.

Un giorno ricordo che riaccompagnandolo a casa, in una lunga camminata per le calli, che dall’Arsenale ci riportava a Santa Maria del Giglio, gli chiesi perché avesse deciso di fare il suo teatro con queste persone e non con dei professionisti. Lo chiedevo da pischello che si affacciava alla professione, con l’intenzione di capire e carpire, non per giudicare. Lui mi rispose che non era stata una vera scelta, era stato un bisogno, quello di circondarsi di persone che soffrivano come e forse più di lui, e che solo così riusciva a trovare la forza di fare nonostante la malattia e la difficoltà del mestiere.

Qualsiasi cosa si possa dire delle opere di Pippo Delbono, e per questa la critica ha usato anche parole forti come dittatura delle emozioni, un lavoro furbo, sconnesso e sconsiderato, un raccontarsi senza costrutto, ecco io penso che in fondo ci sia sempre la verità di quella frase che mi disse tanti anni fa: il bisogno di sfuggire al dolore, alla malattia, alla sofferenza e che questo sia vero e umano e che questo sia teatro e ci sia “la” funzione del teatro dalle origini. La tragedia era lo strazio dell’assassinio, del destino avverso che l’eroe non può combattere, della solitudine dello sconfitto di fronte alla vita che scorre e lo scioglie nel suo inevitabile fluire. Certo la tragedia era meno personale dei racconti di Pippo, ma è pur sempre una tragedia raccontata con personaggi tragici e sofferenti. Ho sempre considerato Pippo Delbono uno dei miei maestri perché mi ha insegnato a trarre dal caos un filo sottile, a raccontare per immagini, a costruire percorsi non lineari e soprattutto mi insegnò l’umanità e la compassione. Per questo non smetterò di ringraziarlo e non riuscirà mai a importarmi se vedo un suo lavoro non proprio riuscito, perché sempre leggerò la grande umanità che lo tiene insieme e non riesco proprio a considerarli errori, soprattutto in un teatro italiano pieno di inutili spettacoli colmi di odiata finzione che vengono spacciati per avanguardia. Per lo meno nelle opere di Pippo si respira vero odore di umanità.

never name the shelf

NEVER NAME THE SHELF di Tiina Sööt e Dorothea Zeyringer

Uno dei romanzi più comicamente devastanti è senza ombra di dubbio Il buon soldato Svejk. Ciò che rende le pagine di Jaroslav Hasek così ferocemente divertenti è il meccanismo che si incarna nell’attitudine di Svejk a obbedire scrupolosamente a qualsiasi ordine, compito o imposizione gli venga assegnata. Nell’assolvere ai propri compiti con fedeltà e scrupolo certosini si rivela l’insensatezza del mondo. Svejk non mette in discussione la società in cui vive rivoltandosi ad essa ma obbedendo alle sue leggi benché, per la maggior parte, siano assolutamente prive di senso, e da questa sua obbedienza si scatena l’effetto comico e crudele che emana da ogni pagina del libro.

In Never Name the Shelf del duo estone/austriaco formato da Tiina Sööt e Dorothea Zeyringer andato in scena venerdì 24 e sabato 25 marzo presso le Officine Caos di Torino si instaura un dispositivo molto similare: eseguire alla lettera le istruzioni di montaggio di uno scaffale e derivare movimenti coreografici dall’applicazione di tali direttive. Due ragazze in tuta blu da lavoro entrano in scena e quasi in un canto enunciano la procedura che devono eseguire per montare lo scaffale e con movimenti essenziali alla costruzione creano una coreografia da cui scaturisce un irrefrenabile effetto comico. L’idea di base è estremamente interessante: lo slittamento di interesse dall’oggetto al movimento che lo fa venire alla luce. Non è il prodotto a essere interessante ma il processo di produzione, il lavoro che lo genera e che diventa anche produttore di senso indipendente dall’obbiettivo specifico che è il montaggio. Il ferreo dispositivo lavora – produci – crepa viene smantellato con l’ironia da soldato Svejk asservendosi completamente ad esso, assolvendo in maniera estremamente scrupolosa alle istruzioni, usando i movimenti minimi necessari per la costruzione, senza espressione, senza interpretazione, solo facendo, limitandosi a montare il mobile, e così il dispositivo di produzione collassa su se stesso rivelando altro da sé. Si potrebbe quasi dire, e il quasi è d’obbligo, che questo sia un lavoro marxista dove la critica al processo di produzione diventa manifesta proprio nel metterlo in scena così com’è, in assoluta e definitiva purezza adamantina. In fondo in scena le due performer non fanno che montare un mobile, eppure le istruzioni diventano canto, il montaggio diventa danza, l’azione diventa comica nella sua efficienza eppure senza nulla dire tutto appare nella sua evidenza lasciandoci a nostra volta senza parole ma con il sorriso sulle labbra.

woman before a glass

WOMAN BEFORE A GLASS di Laboratori Permanenti FUCSIA: DO I MATTER TO YOU? Di Anna Marocco

Non è un mistero: mi appassionano le cose ibride. Soprattutto in arte. Il definito lo trovo poco interessante, un territorio conosciuto che non porta a nessuna vera scoperta. La mappatura del territorio è già avvenuta. Nei confini, nelle zone di transito, vi è una mescolanza di fluidi interessante, un melange del possibile, del non inventariato, del non ancora pienamente formato, che mi stimola alla ricerca, all’attenzione. I territori di frontiera stimolano la visione e l’ascolto.

Officine Caos è un territorio di frontiera e non solo geograficamente e le sue proposte di programma invitano alla curiosità.

Il 24 e 25 febbraio per esempio sono andati in scena due lavori molto distanti tra loro, quasi agli antipodi espressivi, e che risaltavano forse proprio per il contrasto di trovarsi insieme. Il primo caso, Woman before a glass, è un ritratto per frammenti di ricordi di Peggy Guggenheim, la straordinaria collezionista americana che ha saputo cogliere nella frontiera del divenire ciò che oggi è universalmente osannato nell’arte. E la sua non è stata solo smania di accumulo, ma difesa strenua del valore artistico contro la barbarie dei tempi (la guerra mondiale, il nazismo) e del pensiero, di quelle opinioni dei giusti che si ergono come Gesù nel tempio distinguendo ciò che è giusto e lecito da ciò che è ambiguo e perfino degenerato. Peggy è stata una donna che ha amato l’arte in maniera tanto viscerale da sposarla ( e dico questo non solo perché effettivamente sposò due grandi artisti e ebbe relazioni intime con molti altri) ma perché considerò i suoi quadri come una famiglia, come le sue creature, difendendole e cercando loro una casa che li accogliesse dopo la sua morte. E questo matrimonio, come ogni matrimonio, non è stato senza spine, ma colmo di dramma, di solitudine, di entusiasmi, di carne e sangue, di peccati e rimorsi. Eppure mai un tradimento, per l’arte, per i mariti sì, come per gli amanti. Tutto scorreva nella vita di Peggy, restava saldo il solo amore per la sua collezione. Vi è un po’ di quella cecità selettiva che si trova nell’autodafé di Canetti, eppure mai si ha l’impressione di un patologico. Vi è sempre gioia e amore, anche nei momenti difficili. Nascose le sue sculture tra le casse di pentole per farle sfuggire ai nazisti, le pitture arrotolate tra i tappeti. E il Louvre che avrebbe dovuto difendere quelle opere disse che non c’era nulla di interessante. La cecità dell’istituzione che conserva opposta all’amore viscerale di chi opera è pietra dello scandalo oggi come allora.

Un’ottima prova d’attrice di Caterina Casini. Una recitazione naturale, fuori dall’ingessato accademismo, che per qualche istante fa dimenticare di essere nella rappresentazione, in quel teatro che Carmelo Bene diceva da Croce Verde, perché si finge di credere a chi finge di essere. Suggestive le mappature video, con i quadri che Peggy tanto amò e che formano sulla scena una ragnatela di immagini che catturano l’occhio che guarda e creano una cartografia di ricordi e di immagini. La scena certo un po’ statica con un unico oggetto di scena, un trono/poltrona, che diventa spazio abitato trasformandosi in scrivania, mobile bar, perfino gondola.

A seguire Fucsia: do I matter to you? Con la coreografia di Anna Marocco. Siamo proprio agli antipodi, come se nel cambiare sala si fosse viaggiato attraverso interi continenti espressivi. Qui la parola è assente e non solo perché siamo nel campo della danza, ma perché la scelta è di esprimere solo per immagini e corpi. Nel buio si delineano vagamente 5 flebili linee verticali, su cui avanzano i danzatori verso il pubblico. Piccoli gesti in questa camminata. Niente altro. Quasi non si vedono.

A queste linee verticali si aggiungono alcune orizzontali, che modificano il percorso, creano incroci e incontri. E via via al razionalismo iniziale ci si avvia verso una danza più espressiva, dove gli incontri diventano più passionali, quasi animali, seppur in un controllo apollineo. Un dispositivo coreografico di riconoscimento dell’umano: così nel programma di sala. Come dice Agamben il dispositivo è sempre una sorta di gioco di potere. È insita una certa volontà di manipolazione che a sua volta è manipolata. Ma i dispositivi hanno perso la loro capacità di creare un nuovo soggetto. Restano freddi e anonimi, imbrigliati nel loro razionalismo, incapaci di creare fughe verso nuovi territori perché obbligati a seguire la funzione che viene stabilita a priori. Come un romanzo a tesi tendono a voler dimostrare il loro punto di vista e questo è forse il maggior difetto che si può imputare allo spettacolo. Non ci sono vie di fuga all’immaginazione. Il dispositivo/trappola ti porta dove vuole lui per quanto cerchi di scappare.

Ulteriore difetto, secondo il mio personale modo di vedere, è una certa piattezza compositiva, in cui i quadri si equivalgono, si allineano uno di seguito all’altro, con le musiche a inseguirsi come variazioni di uno stesso tono. Non vi è sovrapposizione di linee compositive, e benché non sia di ritmo monocorde, non è che si cerchi la variazione di ritmo né frequenze che battono agli estremi della gamma. Un lavoro interessante benché imbrigliato in un eccessivo razionalismo, nel voler dimostrare una tesi. Il dispositivo/trappola imbriglia non solo chi guarda ma anche i suoi creatori.

moving bodies

MOVING BODIES FESTIVAL

Il mio primo e unico incontro con la danza Butoh fu a Venezia. Credo fosse la Biennale danza del 1999 dove fu presentata una antologia di lavori di Kazuo Ono. Aveva 93 anni. Lo dovevano portare in scena, malfermo sulle gambe, fragile come una foglia alle soglie del gelo dell’inverno. Eppure, appena iniziava a danzare una grazia graffiante si espandeva dai suoi movimenti affascinando e catturando il pubblico incredulo di fronte a tanta potenza sprigionata da un corpo così gracile e indifeso. La danza di Kazuo Ono è un ricordo potente, indissolubile. Una tale potenza espressiva nel movimento di un danzatore l’ho trovata raramente nel corso degli anni e solo di fronte ai massimi: Carolyn Carlson, Maguy Marin, Pina Bausch.

Da quel lontano 1999 il Butoh è rimasto un ricordo fino all’incontro avvenuto quest’estate con Ambra Gatto Bergamasco. Mi ha invitato al suo festival, il Moving Bodies, a presentare il primo stadio del mio lavoro: Imaginary Landscapes e nella stessa serata si esibì Ken Mai. Devo dire che rimasi sconcertato di fronte a quella danza così distante dal ricordo di quella di Kazuo Ono. Il Butoh è per me ancora un mistero. Una danza che ha dei principi adattabili a ogni forma di espressione, una danza che cerca il limite, il confine, persino l’equivoco. E così dalle sue origini, nel Giappone postatomico degli anni ’50, dove fu censurato, scandalizzò, si ispirò ai nomi neri della cultura occidentale: Artaud, Lautremont, De Sade.

Butoh è un incrocio, un crocevia dove tradizioni estranee si incontrano e dialogano. A volte un dialogo improbabile, persino indecente. Ma non lo sono forse tutte le forme di vero dialogo? Il cercare punti di contatto laddove nessuno penserebbe ci possano essere? Penso che sia questo tipo di filosofia che caratterizzi come un marchio a fuoco il Moving Bodies Festival e l’azione e direzione artistica di Ambra Gatto Bergamasco e Edegar Sterke. Il dialogo improbabile delle forme artistiche e dei loro linguaggi che spesso e volentieri si guardano con sospetto, nonostante si predichi da più parti la crossmedialità.

Nel Moving Bodies Festival esiste la ricerca sincera di uno spazio di convivenza tra i linguaggi, una forma di dialogo che avviene per prossimità. In questi giorni (dal 4 all’11 febbraio 2017) si sono ritrovati negli spazi del Teatro Espace di Torino artisti di diverse discipline che hanno condiviso la scena in senso letterale del termine.

Nella serata conclusiva il pubblico si è trovato a compiere un viaggio, una sorta di Odissea negli enormi spazi dell’Espace, che ha portato a successivi incontri e visioni con nature diverse e ibride. A partire dal duo Pagani/Bottoni, che hanno presentato un secondo stadio del loro lavoro su Testori, Riscontri. Un lavoro aggressivo, disarmante, tagliente. Laddove la poesia parla di una ragazza che si vende nei cessi pubblici, ecco la danzatrice, alla ricerca di un appoggio che la sostenga, di fronte a quello sguardo impudico del pubblico che paga per vedere. E poi tutti in fila, a nostra volta consumatori di carne, per entrare nel cesso, uno per volta, a interagire con il corpo appeso a testa in giù della danzatrice, come vacca al macello in attesa del taglio delle parti, inerme al contatto e allo sguardo, quasi cadavere, se non per i movimenti indotti da chi entra e tocca.

A seguire la piccola Clarisa Bergamasco Duggan. Una bambina che si è cimentata in una piccola ma intensa danza sgusciando fuori da una valigia, raccattando mele che vengono lanciate in un carrello da supermercato, un po’ gabbia, un po’ rifugio.

E poi ci si sposta appena tra le colonne del teatro ed ecco la danza de Les Petits Filous, duo di danzatori formato da Fulvia Romeo e Andrea Fardella. Due danzatori bendati, resi ciechi da un nastro con la scritta. Fragile. Un cercarsi nel buio, trovarsi e abbandonarsi, lottare ed amarsi, respingersi e ritrovarsi. Senza vedere, solo per contatto, tra il casuale e il voluto. Forse da rivedere la musica, un po’ troppo insistente su un medesimo tono, ma una danza d’effetto, commovente e sincera.

E ancora una altro spostamento, nello spazio e nel tempo, come attirati verso altri lidi. Ambra Gatto Bergamasco e Edegar Sterke in Kiss – Baci. Danza Butoh che ancora una volta mi sconcerta per la sua capacità di adattamento al contemporaneo. Una danza che sconfina con la performance. A volte i principi sono più validi delle regole. I principi si mischiano, si confrontano, le regole si possono solo infrangere per andare da qualche altra parte. Un uomo e una donna entrano in uno spazio racchiuso come un ring di boxe da nastri di plastica, non prima di aver esaminato alcune persone del pubblico e averle marchiate con un segno dorato. All’interno dello spazio i due si prendono le impronte dentali su fogli di carta. E poi lo fanno nuovamente al pubblico. Tra i due si scatena poi una lotta furibonda che si conclude in una prima parte con l’immergere il viso della donna a forza in una bacinella piena di frutti di bosco da cui emerge un viso rosso come sporco di sangue. E poi con lo sputarsi, rovesciarsi, inondarsi di acqua.

Sarà la stata la presenza di un uomo e una donna, ma il mio occhio mi ha portato a vedere in questa lotta un confronto violento tra maschile e femminile, oggi sempre più in contrasto tanto da non riuscire a capirsi e a sfociare nella violenza. Eppure l’ultimo gesto della performance mi ha portato improvvisamente da un’altra parte. Al pubblico viene consegnato un piccolo foglio di carta, con stampato un bacio col rossetto e una scritta inequivocabile: with love from Europe. Quel marchiare e annegarsi a vicenda parlano di tutt’altro. Ora è chiaro.

A concludere la serata la performance di Francesca Arri, che con un gruppo di performer si muove tra il pubblico zittendolo con secco Ssshh! Che viene ripetuto costante nello spazio, divenendo esperienza sonora e auditiva. Uno zittire imperioso. A cui qualche persona del pubblico risponde a sua volta, interagendo, rispondendo. Non tutti si sono zittiti. C’è speranza.

E così si conclude questa piccola odissea tra i linguaggi. Un arrivederci a giugno per tornare a sperimentare nuovi incroci sotto la filosofia del Butoh, questa danza così sconcertante fin dai suoi esordi, capace di entrare in contatto con ogni forma e in grado, come Proteo, di vivere di metamorfosi nascondendo la sua vera essenza solo per i coraggiosi che sono in grado di farsela rivelare.

CANTICO AL COLLE SOTTO L’AZZURRO FITTO DEL CIELO di Itaca Teatro FOUR WOMEN di Rachel Simone Wyley

Ieri 10 febbraio 2017, ho seguito alle Officine caos, due spettacoli che mi hanno attratto per il loro argomento: da una parte Cantico al colle sotto l’azzurro fitto del cielo di Itaca Teatro e Four women di Rachel Simone Wyley. Partiamo dal primo con una piccola premessa.

Devo essere sincero: ho sempre avuto dei problemi con il teatro dove la parola la fa da padrona rispetto all’immagine e al corpo dell’attore. Nonostante questo a volte mi sono sorpreso, ho trovato autori che mi hanno fatto riflettere e andare al di là del mio gusto personale e fatto apprezzare anche un genere che di solito non digerisco. Teatralmente parlando sono cresciuto con maestri e compagni di strada che pensavano e pensano che il teatro sia una somma di linguaggi la cui orchestrazione costituisce una sinfonia non ottenibile con altre forme artistiche. Che si parli di performance, o di danza, o di teatro questo dialogare tra linguaggi dal vivo ha come centro il corpo in movimento: è lui che parla e la parola è solo una forma che si integra in un sistema complesso.

La parola ha un potere ambiguo quando la si rende protagonista. Ha un lato oscuro. Può diventare asseverativa, impositiva, unilaterale. Vuole dire troppo, laddove un gesto e un immagine lasciano spazio alle possibilità. Bisogna essere cauti. Trattare le parole con i guanti, lasciarsi attraversare da loro, fare in modo che ci sia non solo il significato, ma anche il suono. La parola vuole spiegare e forgiare il mondo a sua immagine. Tende a forzare lo spazio e il tempo e a far vedere il mondo sotto una determinata angolazione perché ha la tendenza a voler persuadere. C’è sempre la maledetta tendenza brechtiana a voler educare, insegnare. L’immagine e il corpo hanno una libertà che la parola spesso non ha. Certo ci sono casi, come dicevo prima, in cui questo non avviene. Carmelo Bene per citare un massimo, ma anche molti altri che hanno saputo creare spazi di immaginazione con il solo uso della parola da rimanere incantati.

Quando mi sono deciso ad andare a vedere Cantico al Colle di Itaca Teatro mi sono lasciato affascinare dall’argomento. La storia dell’ospizio del Gran San Bernardo dove i pellegrini tutti, senza che venisse chiesto nome, professione, o provenienza, per quasi mille anni sono stati accolti e rifocillati. Un luogo di accoglienza totale, lassù in cima alle montagne, in un luogo ostile e meraviglioso che tutti accoglieva senza fare domande. Ecco questa idea del confine e dell’accoglienza mi è molto cara e mi interessa. Soprattutto in questi giorni in cui sembra ovvio innalzare muri, difendere confini, dichiarare identità e documenti. Purtroppo devo dire che alla prova dei fatti Cantico al Colle non parla solo di questo. La sua drammaturgia è confusa e smisurata. Perde di vista il centro. Si perde nella didascalia, nel nozionismo. Si racconta dei famosi cani, del traforo, dei Romani, dei Saraceni, del contrabbandieri, di Napoleone che non ha pagato il conto. Si parla pure di Zanna Bianca che è un lupo e la cui storia si svolge in Canada. Del luogo di confine che accoglie senza nulla chiedere si perde traccia per buona parte dello spettacolo. Una narrazione scolastica, come una ricerca, come una voce di wikipedia, senza aprire scenari evocativi o mitici. Solo uno snocciolare dati e numeri e nomi. Nessuna apertura verso orizzonti più ampi.

I video sono solo riempitivi e variazioni di una narrazione uniforme. Quelli del canonico in forma di documentario, quelli di montagna senza un reale aggancio alla narrazione, quasi un decoro. Poco comprensibili quelli legati ai bombardamenti di città in Medio Oriente e alle sfilate di soldati dell’Isis.

Uno spettacolo non riuscito. In mille anni di storia sono sicuro che con una ricerca accurata si sarebbero potuti trovare storie di accoglienza più pertinenti all’intenzione e costruire con esse una drammaturgia meno confusa.

A seguire Four Women di Rachel Simone Wyley, un omaggio di parole e musica per quattro icone della musica nera americana: Nina Simone, Billie Holiday, Hazel Scott e Lena Horne. Piccoli ritratti di donne di colore che hanno pagato le loro scelte in difesa dei diritti civili dei neri americani.

Una voce calda e sensuale accompagnata al piano da Sergio Di Gennaro che canta e racconta le vicissitudini di queste quattro donne coraggiose e incredibilmente dotate. Un racconto semplice, senza fronzoli, dove è la musica e il canto a farla da padroni. L’essenzialità di poche frasi di queste quattro donne si contrappone in maniera evidente alla prolissità dello spettacolo di Bissaca e ne rendono maggiormente evidenti i difetti.