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Profana azione

LA PROFANA AZIONE DI Gianluca Bottoni

Profana azione. Nel buio si sentono delle voci. Stralci di eventi. Si parla di onde sonore al di là dell’udibile generate dall’Etna in eruzione, di Camus, di altre cose. E poi suoni di persone in movimento. Si ascolta al buio. Seduti a terra o su delle sedie. Si sentono anche i rumori della sala. Di chi è presente attorno a te e di un corpo in movimento. Sempre nel buio. Ogni tanto un taglio di luce e una donna che danza. Movimenti difficili non perché acrobatici, o complicati, ma perché in qualche modo il corpo in movimento trova difficile uscire da uno stato di impedimento. Poi torna il buio. Ma nel buio il corpo danzante ti tocca, interagisce, cerca un dialogo che a volte avviene altre volte no. Infine tutto finisce. Al centro della sala c’è un intrico di sedie aggrovigliate, incasinate di brutto. È un po’ come siamo in questo momento, in questa società italiana, incasinati di brutto, nel buio, e quando, per un istante siamo in flebile luce, siamo anche impietriti e un po’ disfunzionali. Persino a un piccolo tocco non sappiamo come reagire. Tutti raggelati nel buio.

Poi c’è la questione politica, del rumore dei corpi negli spazi culturali occupati. Di questi luoghi restituiti all’uso, o con la volontà di restituirli all’uso. Il suono prodotto da uno spazio per lungo tempo inutilizzato. Potrei parlare di questo ma ho deciso di far parlare Gianluca Bottoni, di far spiegare a lui questo aspetto.

Io vorrei parlare della sensazione, di cosa si prova a stare in quel buio, tra quei frammenti di cose esistite, di corpi che si spostano in un altro tempo e in un altro luogo, e di quel corpo che passa tra il pubblico, di quelle rare luci, di quella fatica. Questo sfugge all’intenzione. È una selva oscura che tant’è amara che poco è più morte. La luce non mena dritto per alcuna calle. Si arriva solo all’intrico. È agghiacciante. E poco rassicurante come dovrebbe essere un evento performativo. Non siamo mica lì per raccontarci favole, ma per dare uno sguardo lucido sul mondo con la consapevolezza che il cielo potrebbe caderci addosso da un momento all’altro. E questo succede con la Profana Azione, anche se non so se questa è proprio l’intenzione degli autori. Un’opera deve sfuggire alle intenzioni. Deve essere viva, come un figlio. E non sempre un figlio fa quello che vogliono i padri.

INTERVISTA A GIANLUCA BOTTONI

EP: ci racconti la genesi di Profana Azione?

GB: questo lavoro è iniziato circa tre anni fa, in un periodo in cui stavano prendendo piede, sull’onda del Teatro Valle, diverse occupazioni di luoghi dello spettacolo e che venivano restituiti all’uso per dirla con Agamben. Io avevo frequentato il clima della prima ora del Valle, in quella sorta di primavera in cui sembrava che in un luogo dove non succedeva niente o succedeva poco stesse nascendo una grande spinta di energia. La necessità che ho sentito subito è stata quella di vedere come questa ventata di restituzione all’uso si riverberasse sul corpo degli attori, dei danzatori, dei performers. Io, facente parte di questi corpi, mi interessai a come reagivano relativamente agli spazi. E ce n’erano parecchi: il Teatro Mediterraneo a Palermo, il Teatro Rossi di Pisa dove è nato realmente il nostro lavoro sulla profanazione, La Cavallerizza a Torino. Cercavo quindi di ascoltare come i corpi risuonassero, con un gesto, secondo me, politico risuonassero dentro questi spazi. Io a quel tempo giravo proprio con un microfono e cercavo di registrare il suono dei corpi negli spazi, anche perché, per esempio nel Teatro Rossi di Pisa, che era un teatro chiuso da tantissimo tempo, quindi un corpo che si riscaldava, che faceva training, o che si muoveva sulle quelle assi lì, che erano vecchie produceva suoni che erano completamente diversi di quelli che si possono sentire in un teatro usato. Diciamo quindi che la Profana azione è nata da una suggestione sonora. Mi piaceva ascoltare l’insieme delle mura e dei corpi in quel momento. La suggestione sonora poi è stata montata in una sorta di narra-sensazione, come mi piace chiamarla, è diventato un progetto che è stato per la prima volta udito con le cuffie nei Radio Days del Festival di Sant’Arcangelo. La Profana Azione ha quindi visto la luce in quel contesto in una forma esclusivamente sonora. In seguito ho avvertito come una sorta di paradosso, io che avevo sentito come un’esigenza corporale, che nel progetto del corpo si avvertisse solo il suono. Ho sentito l’esigenza di rivedere il corpo e così ho deciso di reinserire un corpo che suona di nuovo, in una sorta di orchestrazione più ampia nel panorama acusmatico che avevo registrato. La performance ha quindi assunto la sua forma attuale per suoni e corpo.

EP: Come mai questo titolo: Profana azione?

GB: Il titolo è ispirato dal titolo del libro L’elogio della profanazione di Agamben. Che fu appunto, al Teatro Rossi di Pisa, l’oggetto di studi quando nacque questo lavoro. Facemmo un laboratorio su questo testo di Agamben. Perché questo testo? Agamben, che è filosofo sempre attento a questa sorta di restituzione all’uso in questi tempi di crisi e di povertà che viviamo noi, e dice appunto che ci possiamo reinventare, tornare all’uso che è una cosa che ci siamo dimenticati. Quindi il ritorno all’uso degli spazi che non diventino musei, contro quindi la museificazione. Ma anche con i corpi corriamo un rischio: quello dell’impietrimento. Questa parola mi ha colpito molto, che al di là della questione dell’occupazione dei teatri, sentivo proprio come un pericolo personale, perché in tempi difficili il rischio è proprio di bloccarsi. Quindi impietrimento e restituzione all’uso, queste le parole che mi hanno colpito. Agamben, tempi non sospetti, diceva già che gli spazi devono risuonare della vita di chi li abita e di chi li fruisce e che quelli chiusi devono essere restituiti all’uso.

Questo è comunque il punto di partenza del mio lavoro e non quello di arrivo perché comunque in tre anni di cose ne sono successe tante. Alcuni progetti di occupazione sono calati, son tramontati, e questi percorsi, non tutti, si sono quasi quasi inariditi. E quindi il lavoro è anche un voler mettere in crisi noi oggi, con noi parlo ovviamente della nostra latitudine, come noi, questo corpo, questa moltitudine performativa che continuo a vedere, ci poniamo relativamente alle responsabilità dentro uno spazio. Perché è vero che si occupano teatri, si occupano spazi, ma poi i percorsi sono molto difficili.

EP: Ti faccio una domanda provocatoria: tanta parte del miglior pensiero teatrale, ma non solo, che ha attraversato il Novecento ha cercato, come avvertisse un’esigenza intima, in un tentativo quasi costante di uscire dal luogo Teatro, per non incancrenirsi nelle pratiche, nei punti di vista, nelle ritualità che il luogo produceva, nel fare il gioco delle parti tra artista e pubblico, io faccio-tu mi guardi. Una fuga da un luogo che desse un imprinting preciso, in cui ci si aspettasse qualcosa di preciso, e quindi uscire, andare ad incontrare la comunità in luoghi altri, in un altrove non ben definito. Ecco partendo da questo tentativo di fuga e dal tentativo di questi anni di rioccupare i teatri, non si rischia, rioccupando, di riportarsi a compiere gli stessi errori, evitando di trovare soluzioni alternative? Non si rischia di riportare il teatro nel luogo da dove voleva scappare?

GB: Ti dico molto chiaramente: le prime cose che ho sempre sentito dire nelle occupazioni è: non facciamo teatro, non torniamo su un percorso che rischia poi di rilegarci e relegarci. Poi però succede, perché infine tra gli operatori dello spettacoli ci sono anche quelli che fanno teatro. Il corpo grida la sua voglia di fare, e poi ci sono i tanti che non possono fare in altri spazi perché sono preclusi. Quindi quando si libera uno spazio cercano di liberarsi che è la cosa secondo me più importanti. Questa parola – liberarsi – la metterei sopra tutte. È vero che il rischio teatrale, diciamo a livello gnomico, c’è, sono d’accordo su quello che dici. Il rischio però è anche un altro: che si ricrei nell’occupazione dello spazio una dinamica anche negativa legata alla politica e ai giochi di potere.

EP: Con la parola teatro però intendevo proprio l’arte performativa in genere, tutte quelle che oggi si chiamano Live Arts. Quindi intendevo la ripetizione della modalità per cui un’azione performativa avviene in un luogo prestabilito e funzionalizzato alla ripetizioni di ritualità e aspettative note. Modalità queste che prepara il pubblico e la comunità a vedere le cose in un certo modo, secondo prestabilite procedure.

GB: Stai dicendo una cosa importantissima anche rispetto al nostro lavoro. Io cerco di farlo in spazi differenti. Da Stalker eravamo ospiti di una struttura teatrale ma non è stato eseguito in una sala propriamente teatrale. L’abbiamo fatto a Bologna in una fabbrica, di archeologia industriale con una storia operaia. Solo al Teatro Argot in effetti abbiamo eseguito il lavoro in uno spazio puramente teatrale. A Sant’Arcangelo era nato addirittura in una scatola nera. Sarebbe bellissimo che la gente, al di là dello spazio teatrale, che abitua, che incanala, che già predispone, che questi schemi architettonici, logistici e artistici venissero abbandonati. E quindi nel nostro lavoro, questa scelta del buio, è un modo per allargare gli spazi, per farli scomparire, far diventare il luogo in cui avviene la performance un non-luogo. Questo lasciarsi andare, questo abbandono in senso heideggeriano, è difficile. Quindi non è solo l’edificio teatro che incanala, ma è anche l’edificio mente, che ci blocca e ci impietrisce. Questo stare nel buio durante il lavoro è anche un modo per vedere se riusciamo ad aprire una sensazione, un terreno di libertà.

foto:  Christian Baldin

SLAVIKA: UNO SGUARDO D’AMORE SULLA CULTURA SLAVA Intervista al direttore artistico Alessandro Ressa

Parte oggi Slavika. Un evento interessante e particolare che getta uno sguardo attento e prezioso sui fenomeni culturali in atto nei paesi slavi. Un programma variegato che coglie i fermenti in atto nella letteratura, nel cinema, nel folklore, nella musica e nelle arti sceniche, in quell’Europa dell’Est che tanta parte ha e ha avuto nei fermenti culturali della civiltà europea e che troppo spesso vengono considerati marginali o esotici. L’Europa dell’Est, la cultura dei paesi slavi, è una colonna portante di questo nostro continente sempre più attraversato da conflitti e contraddizioni, e gettare uno sguardo in questo affascinante calderone è, non solo un’azione meritoria, ma anche fondamentale per capire cosa avviene oggi. Per questi motivi invito tutti coloro che sono interessati a frequentare questi giorni questo piccolo ma interessante festival. Per il programma completo rimando al sito del Polsky Kot, https://polskikot.wordpress.com/festivalslavika/, per invece comprendere qualcosa in più delle linee e delle intenzioni di questa manifestazione ho intervistato Alessandro Ressa, anima e direttore di Slavika.

EP: Ci fai una piccola presentazione di questa ricca seconda edizione di Slavika?

AR: Rispetto al primo anni in cui il festival è nato un po’ come un progetto esplorativo di quello che potevano esserne le potenzialità, siamo cresciuti soprattutto a livello di luoghi e di frequentazioni. Quest’anno infatti il festival non si svolgerà solo al Polsky Kot (circolo culturale nato con lo scopo di promuovere la cultura polacca e slava e sito in via Massena a Torino ndr.), ma anche in altre prestigiose sedi della cultura torinese. Al di là della presentazione con il concerto che si è tenuto all’Hiroshima, andiamo anche al Circolo dei Lettori, al CineTeatro Baretti, al Cinema Massimo e alle Officine Corsare. Questa mi sembra la crescita più importante dal punto di vista delle frequentazioni. C’è anche una crescita importante dal punto di vista del programma, particolarmente ambizioso quest’anno, che mette insieme, come al solito, vari aspetti della cultura slava, passando per il cinema, la letteratura, lo sport, il folklore, il teatro ma con appuntamenti interessanti che vantano partecipazioni prestigiose, a partire proprio dall’appuntamento di chiusura con la partecipazione di Dario Fo, ma anche l’incontro con il regista polacco Grzegorz Jaroszuk al Polsky Kot martedì 22 marzo a cui seguirà la proiezione al CineTeatro Baretti del suo film Kebab i Horoskop, oppure Zero la performance di danza di Paola Bianchi che nasce come un omaggio e una riflessione sull’opera di T. Kantor, giovedì 24 marzo alle 21 alle Officine Corsare.. E questo per citarne solo alcuni.

EP: Può essere una domanda banale: perché i paesi slavi?

AR: Slavika è nato come prolungamento delle attività del Polsky Kot, che a propria volta nasce come vetrina della cultura polacca, ma non solo. Il Polsky Kot è lagato a doppio filo a quello che è il mio percorso personale di vita e di studio che mi ha portato a passare svariati anni in Polonia a studiare il polacco e ad amare la letteratura e la società di quel paese. Questo amore mi ha portato in seguito ad ampliare i miei orizzonti verso altri paesi slavi, soprattutto verso i paesi della Ex Jugoslavia, ma anche Russia e Ucraina. Polsky Kot è nato con questa ambizione, di importare qui in Torino quelle che sono le peculiarità culturali dei paesi slavi: Slavika è il tentativo di gettare uno sguardo curioso, nell’arco di una settimana, su quelle che sono le specifiche attività del Polsky Kot durante tutto l’anno.

EP: La domanda nasceva da una considerazione, che i paesi slavi, alcuni dei quali sono addirittura confinanti con il nostro paese, hanno sempre un’aurea di esotico, attraggono e respingono come se fossero paesi lontani nello spazio e nella fantasia,nonostante di fatto, soprattutto nel Novecento sono stati fondamentali per la cultura europea.

AR: Ma io credo che quest’aspetto sia proprio la forza della cultura slava, del fascino che ha su di noi. Come dici tu sembra sia una cosa esotica, appartenente a paesi lontanissimi pur essendo vicina. Questo a volta è un limite, il percepire la distanza, altre volte si trasforma in forza quando ci attrae e ci porta ad approfondirne la conoscenza. E proprio il fatto che le si percepisca come culture lontane questo viaggio di approfondimento si percepisce sempre un po’ come un’avventura esotica, che ci porta a scoprire che poi basta solo mettere un passo fuori Trieste, ed eccoci qua: ci si trova immersi nelle culture slave. Ma questo probabilmente è dovuto anche all’effetto degli anni della Cortina di Ferro, che ha dilatato le distanze malgrado le distanze non ci fossero

EP: Nonostante le difficoltà di questo periodo economico, soprattutto per effetti che questo riflette sulla vita culturale, Slavika è uno dei pochi festival che anziché comprimere la sua attività, cresce e si allarga. Qual è il vostro segreto?

AR: La nostra fortuna, o sfortuna, mettila come vuoi, è che non abbiamo fondi pubblici italiana, e questo fa sì che uno possa essere indipendente e impermeabile a quelli che sono gli accadimenti tendenzialmente negativi rispetto alla cultura italiana di questi giorni. Vediamo ovviamente che intorno a noi le cose non vanno benissimo, ma essendo indipendenti dai fondi culturali italiani, questa cosa non dico che non ci tocca, ma non ci colpisce. Noi ci basiamo molto su fondi esteri, e siamo sostenuti per la maggior parte dal Consolato Generale di Polonia di Milano, ma intervengono anche alcune piccole realtà private. Quest’anno per esempio, ci è venuta incontro una piccola realtà che si chiama Casa Polonia che si occupa di prodotti polacchi.

Noi non abbiamo entrature derivate dal Governo Italiano e dalle sue istituzioni, quindi rimanendo distanti, ahimè, da una parte, e per fortuna, dall’altra, possiamo tentare una crescita benché la direzione di marcia sia al contrario.

EP: Da una parte quello che dici è confortante ed è di stimolo, nel senso che è possibile trovare strade alternative agli schemi soliti di funding, ma dall’altra mette anche un po’ tristezza, nel senso che uno per sopravvivere, quasi è costretto a guardare ad altri paesi e ad altre istituzioni.

AR: Questo è vero, ma bisogna anche cercare di essere pragmatici. Il sistema dei soldi pubblici diventa spesso un grosso limite, perché oltre a deluderti dal punto di vista umano, sono un ostacolo dal punto di vista pratico perché, A) non sai quanti soldi avrai, e B) non sai quando li prenderai, di cosa stiamo parlando? Che tipo di investimento puoi fare in queste condizioni? E poi la complicazione di certi bandi, perché in Italia la burocrazia può diventare un ostacolo veramente insormontabile. A volte quindi si sta meglio mettendola da parte e dandola per persa. Nel nostro caso poi c’è la realtà quotidiana delle nostre attività che si svolgono in collaborazione continua con altri stati, e quindi non lo trovo così incredibile o strano prendere dei fondi dall’estero, che di fatto sono anche un riconoscimento alla bontà del lavoro svolto.

EP: Certo. Possiamo anche dire che la prassi in Europa è quella di cercare fondi alla cultura in collaborazione tra paesi diversi, è un vizio italiano quello di limitarsi a guardare esclusivamente nell’orticello di casa.

AR: Sì, però bisogna anche dire che il dissesto nell’indotto culturale non sia limitato ai nostri confini, Bisogna riconoscere ad onor del vero che viviamo in un periodo in cui i valori culturali non sono messi al primo posto, e nemmeno al secondo, non solo da noi. La cultura viene spesso vissuta come un peso piuttosto che come una risorsa. Quando l’approccio è quello, di zavorra, comunque è difficile sopravvivere, qui in Italia, come altrove.

roberto mercadini

INTERVISTA A ROBERTO MERCADINI

Roberto Mercadini è poeta, è scrittore, autore di teatro, performer. È molte cose insieme e come dice lui stesso, gli piacciono molto le cose che sono molte e insieme. L’abbiamo incontrato per questa breve intervista venerdì 19 febbraio al Polsky Kot di Torino prima di un suo reading.

Enrico Pastore: C’è una cosa che mi affascina e mi stupisce del tuo lavoro: sei un autore di teatro che non scrive per il teatro, i testi non li scrivi affatto o, per lo meno, non lo fai in maniera tradizionale, scrivi tutto in testa, provando e riprovando a voce. La parola nasce dalla scena e non da un testo che poi deve ritrovare la scena. Mi racconti come costruisci i tuoi monologhi?
Roberto Mercadini: Io scrivo per la scena e quindi il testo è formato, si forma, dall’oralità. Io comincio a studiare un argomento, perché io spesso non conosco l’argomento di cui parlo prima di cominciare a lavorare a un monologo. Quando incontro una cosa che mi affascina provo a dirlo, a raccontarmi perché mi affascina, gli aspetti paradossali ironici. Ovviamente il discorso non è completamente formato e, allora, lo ripeto, togliendo le cose che sono da togliere, aggiungendo dove manca e poi ancora, e ancora, e ancora finché non sento che va bene. Questo comunque vuol dire ripetere e ripetere per decine di volte. L’altra cosa che faccio è che dispongo le cose in una sequenzialità, nel senso che, se una cosa è facile per me da raccontare è facile anche per lo spettatore ascoltarla. Io non scrivo per questo motivo, scrivo recitando le cose e quando l’ho finito di scrivere, scrivere per modo di dire, tra virgolette, è perché a furia di dirlo ha assunto una forma e a forza di dirlo l’ho anche imparato a memoria.
La cosa paradossale è che adesso un editore mi ha chiesto di pubblicare alcuni dei miei testi teatrali e io li dovrò scrivere appositamente e il libro si intitolerà proprio Io non scrivo mai niente.

EP: Sei poeta, sei scrittore di teatro, sei performer. Potremmo, secondo te, racchiudere tutte queste abilità in una parola antica, ossia dire che sei un cantastorie? Ti riconosci in questa parola?
RM: Cantastorie è una definizione che mi piace abbastanza perché richiama un approccio un po’ arcaico con l’arte. Sì, io vedo un po’ come i miei parenti i cantastorie, i trovatori medievali, i griaux africani. È una dimensione che riunisce l’orale e il popolare. Io ci tengo molto a queste due dimensioni, tanto che anche quando parlo di argomenti alti, per esempio la Bibbia o la filosofia greca, cerco sempre di mantenere un registro popolare, comprensibile a tutti. Io cerco di fare delle cose che siano così: se uno ha voglia di ascoltare, anche se è la persona più umile del mondo, o non ha nessuna preparazione intellettuale, non viene mortificato dall’incomprensione e, allo stesso tempo, anche se uno è un intellettualone, uno che ha tre lauree non s’annoia perché non dico delle banalità. Per esempio nel momento che io racconto la Bibbia a partire dall’ebraico antico, o spiego l’ultima frase di Socrate, doniamo un gallo ad Asclepio, quindi faccio dell’ermeneutica a partire da queste cose qui, penso non sia banale nemmeno per chi è supercolto. In quello che faccio tendo a toccare questi due estremi.

EP: Un’altra cosa che mi affascina molto del tuo agire sulla scena è che sei completamente un autodidatta. Uno che impara perché sa di non sapere. E mi affascina perché nella cultura italiana c’è questa supponenza un po’ scolastica nel diffidare di ciò che nasce da solo, spontaneamente. La cultura italiana si spaventa da ciò che sorge inaspettato da ambiti non proprio ben definiti. Tu sei un ingegnere se non mi sbaglio, quindi come sei arrivato al teatro?
RM: sì, lo confesso, sono un ingegnere e tutto quello che so del teatro, lo so perché l’ho fatto, non perché me l’abbia mai insegnato nessuno. Lo so per esperienza data dalle ore e ore davanti a un pubblico a sentire gli umori del pubblico, le risate, gli applausi, ma anche i silenzi. Sai quando si creano quei silenzi tesi, di un’attenzione un po’ superiore? Ecco quello è una cosa che per me fa più rumore degli applausi. E così che ho imparato quello che so: avendo guardato e ascoltato molto .
Io poi sono partito veramente dal niente. Prima recitando le mie cose davanti allo specchio, in bagno a casa mia, e poi a feste abusive, in spiaggia, in luoghi che uno non direbbe mai, che non avevano nessuna ufficialità. Poi gradualmente sono approdato al teatro, alle rassegne teatrali, quelle su un palco con gli spettatori paganti.

EP: Ma come è nata questa tensione verso la scena, quest’esigenza a raccontare?
RM: ci sono due origini una colta e una popolare. L’origine popolare deriva dal fatto che io vengo da un piccola paese di campagna che si chiama Sala di Cesenatico, dove è sopravvissuto, fino a tempi recentissimi, il teatro fatto dai paesani. Quando io ero bambino mio padre mi portava alla commedia, quella fatta nel teatro parrocchiale e fatta, scritta e diretta da gente del posto. Nel mio paese il benzinaio, l’impiegato di banca, tutti, anche quelli più insospettabili, hanno calcato un palco. Questo vuol dire che già da quando ero bambino avevo familiarità con il palcoscenico. Io non ho mai pensato che fare il teatro fosse una cosa riservata a chi fa un percorso specifico, ufficiale. L’ho sempre vista come una cosa naturale.
La seconda origine è il fatto che io, quando avevo sedici anni, ero innamorato de La nuvola in pantaloni di Majakovskij. La leggevo tutti i giorni più volte al giorno. Finché qualcuno non mi ha prestato una cosa che mi ha cambiato la vita.; un vinile con l’incisione de La nuvola in pantaloni recitata da Carmelo Bene. Quella cosa lì mi ha fatto impazzire. Ho questo ricordo vivido di me che ascoltavo Carmelo Bene e, alla fine era così sovreccitato, talmente scosso, che per calmarmi ho preso il motorino e sono andato a Cesenatico, così, per calmarmi e quando sono tornato a casa ho ascoltato il disco ancora e poi sono andato a farmi un altro giro in motorino. Da quel momento in poi ho pensato che la poesia è una cosa che va recitata.

EP: E poi era proprio lui che diceva che lo scritto è il morto orale…
RM: Infatti. E quella cosa lì mi è rimasta dentro. Prima visceralmente. Da quel momento non ho più letto La nuvola in pantaloni di Majakovskij. Non ho più aperto il libro perché mi dicevo che non aveva più senso. È come se tu avessi una persona viva, lì, davanti a te e ti acconti di guardare una sua fotografia. Poi la cosa mi è arrivata intellettualmente, mi sono messo a studiare Carmelo Bene e così ho trovato anche la teoria: lo scritto è il morto orale. È una cosa che condivido e che mi tocca.

EP: Qual è l’origine del tuo successo, e quello di molti altri tuoi colleghi, che portano le poesie in scena? Perché secondo te il pubblico è attratto dalla poesia recitata e molto meno dal libro di poesia?
RM: Secondo me la mia poesia , non solo nasce dal dire per il dire, ma quello che dico e il modo in cui lo dico è fatto per stare in mezzo alla gente. Ed è anche plasmato dalla gente, nel senso che io, quando avevo vent’anni, non avevo in teatro per recitare le poesie e avevo una voglia smisurata di recitare le poesie, e quindi dovevo recitare nei posti che c’erano, nei bar, sulla spiaggia, dove c’era la gente che beveva, fumava e si divertiva e dove il livello di attenzione era minimo. Dovevo dire cose e dirle in un modo per cattura, strappare, l’attenzione a questi. Quindi il mio modo di recitare e di scrivere, e penso anche quello di mie colleghi che hanno fatto un percorso simile, penso a Guido Catalano, è stato plasmato da questa esperienza e da questa tensione. Quando mi trovo a festival di poesia dove magari ci sono poeti più ufficiale, io mi accorgo che le loro cose sono scritte per l’editore, per i colleghi poeti, e non arriva al pubblico. Non è stata concepita per arrivare al pubblico. La differenza sostanziale è dovuta a come nascono le cose.

EP: Anch’io penso questo. Penso che il pubblico di teatro sia il pubblico più facile. A teatro, diceva Carmelo Bene, un applauso non si nega a nessuno. Non è la stessa cosa in luoghi dove non ci si aspetta che avvenga una performance, lì ti devi strappare l’attenzione dal nulla.
RM: E così quando queste cose nate in quei contesti arrivano davanti a un pubblico normale di teatro diventano dirompenti perché si son fatte le ossa nelle palestre più dure.

EP: vorrei parlare un po’ dei tuoi racconti sulla Bibbia. Mi piace molto che tu metti in evidenza il comico contenuto nel sacro. Questa è una cosa che ho visto fare solo tra i Tibetani. Nelle danze sacre buddhiste, nel momento più alto, ecco che arrivano i comici, che fanno sbagliare i passi di danza ai monaci, e la gente ride. Un po’ come se da noi, all’elevazione, entrasse uno dal fondo della chiesa e fa un bel pernacchione. Il senso è che non bisogna attaccarsi a nulla, nemmeno a ciò che è più sacro, che bisogna sempre andare oltre. E penso che l’ironia ebraica sia molto in questo senso. Quindi vorrei che mi raccontassi come è nata questa passione di raccontare la Bibbia tanto da indurti a imparare l’ebraico antico, che non è mica roba da tutti i giorni.
RM: Io sono ateo, ma sono anche una persona che ama mettersi in difficoltà. E così nella mia bolla di ateismo consolidato mi son detto: voglio vedere il mondo a testa in giù, voglio vedere com’è la situazione dal punto di vista di uno che crede. Quindi mi son messo a studiare la religione e quindi anche la Bibbia. L’altro fattore fondamentale è più letterario. Io mi son messo a leggere la Bibbia intorno al 2000, e forse perché c’era il giubileo, uscivano un sacco di traduzioni ed edizioni diverse della Bibbia. Fra queste traduzioni c’è quella di Erri De Luca,, che è una traduzione strana perché ricalca l’ebraico antico, la grammatica quindi è tutta scombinata e così invece di dire:” Dio disse a Giona”, vien fuori una cosa tipo: “Fu parola di Dio a Giona per dire”. E questa traduzione mi ha affascinato il maniera tale che io non ho più potuto disinteressarmi alla cosa. E ho cominciato a studiare l’ebraico antico. Ed ero così ingenuo che ho cominciato a studiare l’ebraico antico da solo. Per esempio trovavo una parola, e poi dopo una settimana la trovavo al plurale e quindi mi scrivevo sul quaderno:” Forse al plurale questa parola si dice così”. Questo quaderno lo chiamavo il libro dei forse. Finché ho scoperto una cosa che potevo scoprire anche prima, ossia che a pochi chilometri da casa mia c’era un corso di ebraico antico vero. E così ho studiato per quattro anni l’ebraico antico.

EP: Mi hanno detto che sta per uscire un libro nuovo per Miraggi Edizioni. Mi puoi anticipare qualcosa? Ne vuoi parlare?
RM: È vero! È un libro composito formato sia da poesie che da pezzi diciamo da stand up. Ci sta che il libro sia composito in quanto io sono un artista composito: sono un poeta ma sono anche un performer. La metafora che uso nel libro è quella della vista, che noi vediamo il mondo come se fosse offuscato perché siamo miopi e le pagine degli scrittori sono lo strumento sofisticato che ci permette di avere una visione del mondo messa a fuoco. Sono lenti magiche che ci fanno vedere le cose più lontane o più immensamente piccole, ma anche i caleidoscopi, le lanterne magiche, gli specchi deformanti, tutto ciò che ci fa vedere il mondo nella sua interezza, un interezza che senza questi strumenti non emergerebbe.
EP: E quale sarà il titolo?
RM: Il titolo sarà: sull’origine della luce è buio pesto. È questa una frase che uso in un mio monologo che parla della filosofia greca. Il libro uscirà a breve, fine febbraio o inizio marzo.