Archivi tag: scena

Bruno Schulz

GENERATIO AEQUIVOCA Piccole considerazioni su Il trattato dei manichini di Bruno Schulz

Ci sono dei testi che hanno il potere di parlare di teatro anche se l’intenzione dell’autore era alquanto distante dal trattare un simile argomento. Ne parlano, per così dire, involontariamente. Con noncuranza. E forse, proprio per questo motivo, risultano essere illuminanti. Senza averne l’intenzione emanano luce in luoghi impensati e imprevisti. Il trattato dei manichini di Bruno Schulz è uno di questi testi.

Il titolo è già di per sé evocativo. Teatralmente parlando al sentir parlar di manichini, si affaccia all’orizzonte tutta una genealogia di nomi che va da Kleist a Kantor passando per Gordon Craig. Ma non è di manichini che voglio parlare, bensì di oggetti, della loro natura, del loro possibile utilizzo sulla scena e del loro ruolo di mute filosofiche interrogazioni.

Il racconto si apre col resoconto di una battaglia. Adela, la domestica, pone fine in maniera drastica e violenta alle sperimentazioni ornitologiche illecite e contro-natura del padre, “solitario eroe” che: «senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento difese la causa persa della poesia». Queste sperimentazioni avvenivano in soffitta, lontano da occhi indiscreti ma, come diceva Deleuze: “Non vi lasceranno sperimentare nel vostro cantuccio”. La sconfitta del padre, la fine delle sue clandestine generazioni equivoche, ha come unica risultanza quella di far sprofondare la vita della casa in uno stato di “sonnolenza”, di “funebre grigiore”.

Le giornate invernali si susseguono monotone. I lavori nella grande casa procedono stancamente, come per forza. Le giovani sartine Polda e Paulina, nel pomeriggio portano avanti le commesse nella grande sala. La loro presenza e le loro attività cominciano lentamente a mobilitare forze imponenti e inquietanti. Innanzitutto entra in scena il manichino:

«Portata a braccia […] faceva il suo ingresso nella stanza una signora silenziosa e immobile, una dama di pezza e di stoppa, con una palla nera di legno al posto della testa. Ma pur abbandonata in un angolo, fra la porta e la stufa, quella tacita dama diventava padrona della situazione. Dal suo cantuccio, immobile, sorvegliava in silenzio il lavoro delle ragazze. Con aria critica e sgarbata accoglieva le loro premure ed i corteggiamenti con cui le si inginocchiavano dinanzi, provando pezzi di vestito imbastiti di filo bianco. Attente e pazienti esse servivano l’idolo silenzioso che niente riusciva a soddisfare».

Questa insoddisfazione diventa generatrice di un andirivieni continuo dal manichino alle macchine da cucire e viceversa, un lavoro frenetico testimoniato dal crescere “del mucchio dei ritagli, dei brandelli e degli stracci variopinti”. E proprio in ciò che viene scartato improvvisa si intravede una verità:

«i loro cuori, la rapida magia delle loro mani non erano negli uggiosi vestiti che restavano sul tavolo, ma in quelle centinaia di scarti, in quei trucioli frivoli e leggeri…»

In poco più di una pagina Schulz, con una lucidità implacabile, scoperchia un vaso colmo di questioni esiziali per l’arte del teatro.

Per prima cosa l’ingombrante presenza dell’oggetto. Il suo essere inquietante e presente anche se ai margini dell’azione e dello spazio, quel suo essere pregno di significati, di memorie, di funzioni, vero motore degli avvenimenti pur se privo di vita e di intenzione. Ma anche il rapporto tra l’oggetto e l’attore e come l’essere in scena dell’attore debba necessariamente piegarsi all’esigenza dell’oggetto e non viceversa. Kantor, nella sua Scuola elementare del teatro aveva colto questo aspetto con la sua consueta illuminante lucidità:

«Ci deve essere un legame stretto, quasi biologico, tra l’attore e l’oggetto. Devono essere inseparabili. Nel più semplice dei casi l’attore deve fare di tutto affinché l’oggetto sia visibile, affinché esista; nel caso più radicale l’attore con l’oggetto devono costituire un unico organismo».

Per far vivere l’oggetto bisogna come riverirlo, rispettarlo, non usare violenza su di lui, lasciare che esista. François Tanguy diceva che compito dell’attore è di far passare l’aria tra le cose, in modo che possano respirare. Togliere loro l’aria significa soffocarle, farle morire, e ciò provoca questa asfissia è l’ingombrante presenza dell’attore che calca la scena senza rispetto per un ambiente che va ad abitare abusivamente

In secondo luogo Schultz mette in evidenza la tensione continua tra il progetto (il vestito finito), e i tentativi falliti, le sperimentazioni ardite, le strade sbagliate (il mucchio dei ritagli e degli scarti) pieni di verità più dell’opera perfetta e finita. Il fascino posseduto dall’oggetto scartato, rifiutato per la sua incompiutezza, perché non finito, privo di bellezza e di utilità è quello della verità che traspare sotto la coltre della civiltà che ricopre di efficacia e funzione ogni cosa, nascondendo sotto il tappeto la precarietà della vita: nel territorio dello scarto si annida lo spettro della morte. Ai confini dell’utile si apre l’abisso che inghiotte ogni cosa e persona, il regno dell’insensato, della follia, della casualità, dell’incidente, del fallimento. Il vestito finito rappresenta solo ciò che possiamo dominare ma è il mucchio degli scarti che si staglia sulla scena con la sua presenza inquietante. Non a caso l’oggetto privo di utilità ha rivestito così grande importanza nel Novecento, dai readymade di Duchamp, alla realtà dal rango più basso di Kantor, alle sedie di Kossuth, alle scarpe di Van Gogh che tanto affascinarono Heidegger per la loro semplice presenza svincolata dall’utilità. Da ciò che è abbandonato e inutile appare la verità sulla vita.

Questa è la scena che prelude al ritorno del padre.

Dopo la sconfitta subita da Adela se ne erano perse le tracce. La famiglia quasi si è dimenticata di lui, vergognosa del tradimento perpetrato nei soui confronti per essersi compiaciuta della fine degli esperimenti ornitologici che :”gustavano sommamente, per poi declinarne con perfidia ogni responsabilità”.

L’entrata del padre è quindi improvvisa, inattesa e coglie le sartine un po’ alla sprovvista, in pausa, accaldate e un po’ discinte, quasi indifese. Non trovando in queste innocue lavoranti nessuna ostilità, ma bensì una sorta di innocente curiosità, il padre prende il controllo della situazione:

«vale la pena di notare come tutte le cose, a contatto con quell’uomo straordinario, risalissero in un certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico, tornassero per così dire all’idea primigenia per distaccarsene poi a quel punto e volgere in quelle regioni dubbie, rischiose e ambigue che chiameremo qui, brevemente, regioni della grande eresia. Il nostro eresiarca si aggira fra le cose come un magnetizzatore, contaminandole e incantandole col suo fascino pericoloso».

Ne consegue un’innocente esplorazione dei corpi “ordinari” di quelle disponibili signorinette, quasi a saggiarne le possibilità e la consistenza, per trarne dei vaticini o esoterici insegnamenti:

«Com’è affascinante e felice la forma di essere che lor signore hanno scelto! […]Se, abbandonando ogni rispetto per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei: “Meno contenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il mondo questa diminuzione di contenuto! Un po’ più di modestia nelle intenzioni, un po’ più di sobrietà nelle pretese, signori demiurghi, e il mondo sarebbe più perfetto!»

Ma a interrompere queste esplorazioni corporee e le conseguenti elucubrazioni di questo “prestigiatore metafisico” subentra Adela. Per un istante si crede che una nuova sconfitta stia per abbattersi sul capo del padre ma, inaspettatamente, la domestica si dimostra tollerante e così, dopo una piccola e folle danza, il padre può lanciarsi in una serie di improbabili ed esoteriche conferenze approfittando della condiscendenza di questo piccolo e impreparato uditorio.

Quella che il padre inizia a elaborare è una sorta di demiurgia eretica, una sorta pericolosa di nuova genesi che conduce in territori ambigui dove le potenzialità di una materia “ondeggiante di possibilità” vengono clandestinamente esplorate.

La materia è posseduta da “un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare”. Priva di vita cerca nell’uomo quel soffio che la possa animare e:

«Lascivamente arrendevole, malleabile come una donna, docile a ogni impulso, essa costituisce un territorio fuori legge, aperto a ogni genere di ciarlatanerie e dilettantismi, il regno di tutti gli abusi e di tutte le dubbie manipolazioni demiurgiche».

Ma questa disponibilità, questa arrendevolezza, contiene in sé altre temibili tentazioni: la cristallizzazione delle forme e la ricerca della perfezione:

«Non c’è nessun male a ridurre la vita a altre e nuove forme. L’assassinio non è peccato. Talvolta non è che una violenza necessaria nei confronti di forme refrattarie e cristallizzate dell’esistenza, che hanno cessato di essere interessanti».

Non è certo un invito al delitto. Dietro questa apparente bestemmia, si cela l’ossessione di Cage per la metamorfosi, al cambiamento che conduce alla scoperta di nuove forme e di nuovi linguaggi. Impedire che una forma o una lingua diventi canonica, che diventi legge inviolabile è il delitto necessario all’avvento di nuove creazioni. L’assassinio che si invoca è quello nei confronti di tutto ciò che in qualsiasi modo eserciti una forma di controllo sulla creazione che deve essere libera di esplicarsi ed esplorare tutte le strade: «perché anche se quei metodi classici della creazione si dimostrassero una volta per tutte inaccessibili, resterebbero certi metodi illegali, tutta un’infinità di metodi eretici e criminali».

Se la cristallizzazione tenta il creatore a una ripetizione ossessiva e ossequiosa della legge, tentazione inversa e e complementare ma altrettanto potente è quella della perfezione. Paralizzante perché irraggiungibile, bloccante perché impossibile, e quindi il padre, ormai potente e ieratico come un profeta veterotestamentario, invita ad abbattere l’idolo d’oro in favore di una seconda demiurgia, più sperimentale e futuristicamente sempre rinnovabile, superabile, rimpiazzabile:

«Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto l’incubo dell’irraggiungibile perfezione del Demiurgo […] troppo a lungo la perfezione della sua opera ha paralizzato il nostro slancio creativo. Non vogliamo competere con lui. Non abbiamo l’ambizione di eguagliarlo. Vogliamo essere creatori in una sfera nostra, inferiore […] Noi non teniamo a opere di lungo respiro, a esseri fatti per vivere a lungo. Le nostre creature non saranno eroi di romanzi in più volumi. La loro parte sarà breve, lapidaria, i loro caratteri a una sola dimensione. Spesso, per un solo gesto, per una sola parola, ci prenderemo la briga di chiamarli alla vita in un unico istante. Lo riconosciamo apertamente: non insisteremo né sulla durata, né sulla solidità dell’esecuzione, le nostre creazioni saranno quanto mai provvisorie, fatte per servire una volta soltanto».

Per evitare una forma di concorrenza creativa con il Demiurgo il padre ricerca una sfera propria a questa seconda e instabile demiurgia. Cerca una zona franca in cui il potere totalizzante del Demiurgo non abbia ancora irrigidito le forme in qualcosa di consolidato, sacro e inviolabile:

«Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati, perfezionati e complessi; noi daremo la preferenza alla paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale. […] Questo è il nostro amore per la materia come tale, per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita; noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro a ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso».

Non stupisce che queste pagine abbiamo ispirato Tadeusz Kantor, il creatore di spettacoli memorabili con oggetti di scarto, relitti pieni di memoria, ma ormai privi di utilità, resti di un mondo che è andato avanti e li ha abbandonati nel cassonetto dei rifiuti. Ma bisogna riconoscere che il potere del Demiurgo si è fatto più forte, ha allargato il suo potere di rendere invisibile la vera natura della materia: il dilagare dell’estetico, il proliferare dell’utile vero o presunto, il vintage, la moda dei rifiuti, quella del Kitsch, hanno reso sempre più esigue le possibilità di trovare materiali, oggetti, semplici cose che come le scarpe di van Gogh o il cesso di Duchamp, abbandonata la propria funzione, si possano stagliare con la solo propria esistenza e presenza, ponendoci domande scomode, interrogando in nostro essere nel mondo, mettendo in dubbio la realtà apparente. Se Cage agli inizi degli anni ’40 aveva possibilità di inserire nel mondo musicale rumori e silenzio, Rauschenberg poteva inserire una scopa in un quadro e Burri usare i sacchi di iuta, spostando la sfera dell’arte da una sfera più estetica a una più filosofica, oggi la sfida si fa più ardua perché questi gesti non hanno più niente di rivoluzionario ormai riassorbiti dallo sfruttamento economico del mercato. Questi gesti fanno ormai parte di ciò che è acquistabile in ogni negozio, sono perciò gesti concessi, processi legalizzati e facenti parte del “repertorio d’artista”. In ciò che è permesso non vi è nulla di scioccante ne di rivelante. Bisogna trovare nuovi territori illeciti. In una civiltà tesa a mascherare quanto più possibile la propria precarietà e inconsistenza, dove la poesia e il pensiero hanno margini sempre più ridotti d’azione, attuare questa seconda ed eretica demiurgia è sempre più difficile. Come nota tristemente Huellebecq: “ciò che cerchiamo di creare è un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca sempre più disperata del fun e del sesso, una generazione di eterni kids. Ci riusciremo, ovviamente; e in quel mondo, non ci sarà posto per te”.

La demiurgia eretica del padre ha come oggetto la creazione di manichini, che in questa seconda genesi, vengono plasmati a immagine e somiglianza dell’uomo. Ma, come c’era da aspettarsi, questa successiva creazione ha, come la prima, dei risvolti tragici. La manipolazione della materia, l’operazione di dargli nuova vita e nuova forma richiede estrema serietà. È un’azione violenta, non innocente, necessita dunque di attenzione. Chi la compie deve essere preparato e conscio di star forgiando una nuova forma che si fisserà, darà alla materia un aspetto indelebile.:

«Non capite la potenza dell’espressione, della forma, dell’apparenza, il tirannico arbitrio con cui il dolore si avventa su di un tronco indifeso e se ne impadronisce, quasi ne fosse l’anima, tirannica e dispotica? Voi date a una qualsiasi testa di pezza e di stoppa un’espressione d’ira e la lasciate con quell’ira, con quello spasimo, con quella tensione una volta per sempre, chiusa in una collera cieca che non ha sfogo».

Creare è un’azione devastante che lascia tracce terribili e va affrontata solo in circostanze particolare perché spinti da motivazioni imprescindibili. Non si crea per scherzo. In gioco c’è la sostanza dell’essere, il suo divenire. La nascita di una nuova forma avviene sempre nella spasimo di un dolore:

«La folla ride. […]Dovremmo in effetti piangere sul nostro destino, signore mie, alla vista di quella miseria della materia, della materia violentata, contro la quale è stata commessa una spaventosa illegalità».

Anche se in questi passaggi si parla per lo più di manichini, di materia fatta a immagine e somiglianza dell’uomo, il discorso si può ampliare alla creazione in generale:

«Chissà quante forme dolorose, mutile, frammentarie della vita esistono, come quella artificiosamente incollata degli armadi e dei tavoli, legni crocifissi, martiri silenziosi della crudele ingegnosità umana. Orribili trapianti di razze d’alberi estranee e avverse, incatenate le une alle altre in un’unica e infelice individualità».

Dare vita a uno spettacolo, non solo a un singolo oggetto, è un’operazione estremamente dolorosa che necessita di tempo, di preparazione, di raccoglimento. Troppe volte si vedono sulla scena opere raffazzonate, mal provate, fatte non per un’esigenza intima che spinge i creatori a dar vita a un aspetto del reale, ma date alla luce per sfruttare l’argomento del giorno, l’anniversario o la ricorrenza. E così quest’anno per la I Guerra Mondiale e o lo Sbarco in Normandia. Non è quasi più questione di urgenze se non quelle di partecipare al bando o sfruttare la disponibilità degli amministratori a concedere piccoli finanziamenti per commemorare alla buona. Si fa per fare, per campare e tirare a campare, per sopravvivere in una professione che si ama ma non si riesce ad esercitare come si deve perché tutte le circostanze lo impediscono. E il primo sacrificio lo si compie proprio sul tempo di prove, sul raccoglimento necessario per affrontare un viaggio nel profondo dell’anima e delle cose. Eppure non bisogna dimenticare che costruire uno spettacolo è un’operazione altamente rischiosa se la si fa seriamente. Tocca corde profonde e nascoste e va affrontata con delicatezza e con prudenza. Come un’operazione alchemica, se fatta male, può avvelenare.

Sono questa serietà e questa prudenza che l’Occidente, nel suo perpetuo tramontare, non vuole più affrontare. Vuole un mondo ottimista e felice di poter consumare dei beni, un mondo alla ricerca di un nuovo acquisto che doni la felicità, senza dare importanza all’abisso che è ovunque intorno a noi. La crisi è solo crisi dei consumi, non dei fondamenti su cui si costituisce una società e tutto ciò che indaga la ragioni profonde del malessere che si nasconde alle radici dell’esistenza, deve essere nascosto, impedito. Artaud chiamava questi impedimenti: affatturamenti, la magia nera che la società attua al fine di soffocare lo spirito di coloro che indagano le radici dell’essere. Affattumenti che portarono Van Gogh al suicidio e che si coagulano, nella loro nera potenza, in quel: la folla ride. Quel riso sguaiato che svilisce, abbatte, neutralizza. Un riso che suona un po’ come una maledizione: Crepino gli artisti!

L’ultima conferenza del padre è la più esoterica. L’argomento è la vita segreta delle cose, vita che si manifesta lontano dagli occhi degli uomini, nascostamente, in solitudine.

Una generazione di forme spontanea, che anima gli oggetti abbandonati ma che non ha niente a che vedere con la vita organica. È più simile a una sorta di emanazione, di comunicazione tramite immagini e ricordi. Gli oggetti abbandonati e non visti, privi di funzione e di utilità, trasmettono possibilità, parvenze, larve di immagini. L’oggetto lasciato a sé, lontano dalle intenzioni dell’uomo anela a una segreta metamorfosi, in qualche modo provocata dai ricordi delle funzioni avute in passato, prima che il mondo andasse avanti. E questa tensione a proliferare, a produrre, avviene in segrete stanze abbandonate, in vecchi appartamenti dimenticati:

«Loro sanno, signore, che nei vecchi appartamenti esistono stanze di cui ci si dimentica. Trascurate per mesi, deperiscono in totale abbandono fra le vecchie mura, e accade che si rinchiudano in se stesse e, perdute per sempre alla nostra memoria, smarriscano a poco a poco la propria esistenza. Le porte che vi conducono da un qualche pianerottolo delle scale di servizio, possono sfuggire per tanto tempo agli occhi degli inquilini da penetrare infine, entrare nella parete, che ne cancella ogni traccia nel disegno fantastico delle crepe e delle fessure».

Lontano dagli occhi, in segrete stanze, fiorisce una sorta di “falsa e soave primavera”. Una generatio aequivoca che per essere osservata richiede come di sparire, di farsi invisibili. Richiede rispetto, attesa, pazienza. In quelle segrete stanze si accede con rispetto se si vuole che si manifesti in miracolo della generazione.

Non basta quindi solamente che l’attore in scena scacci da sé le intenzioni, si metta al servizio dello spazio e delle cose, né che il regista metta in moto processi creativi che mettano in luce non il suo punto di vista ma la vera natura delle cose, o per lo meno un suo aspetto rivelatore, quello che serve è anche un pubblico che entri in punta di piedi, con il rispetto che esige la violazione di uno spazio segreto e inaccessibile, e non con la boria di chi vuole essere intrattenuto e sa già cosa aspettarsi. Lasciare esistere queste segrete stanze è compito primario di chi fa teatro, perché il teatro è la stanza dei segreti qualora assuma su di sé la funzione di scoprire il mondo e lasciare esistere le cose di una loro propria vita lontana da ogni intenzione. E richiede la pazienza di scegliersi un pubblico che sappia vedere. Percorso difficile, se non difficilissimo ma che, se si vuole preservare o reinventare una funzione a quest’arte gloriosa, bisogna affrontare. Oggi è difficile conquistarsi qualsiasi tipo di pubblico e allora, se sforzi devono essere compiuti, che si facciano per scegliere un pubblico giusto, conscio, che condivida le istanze di base del fare e vedere teatro: ossia quello di permettere al mondo di manifestarsi. In fondo teatron è il luogo da cui si guarda.

SPERIMENTAZIONI D’AUTORE: SI APRE IL PERFORMA FESTIVAL

Nell’ottobre del 2014 ho partecipato al Perfoma Festival diretto da Filippo Armati. Performa è un festival che agisce e propone interessanti progetti di sperimentazione nel campo delle Live Arts nel vicino Cantone Ticino tra Lugano, Bellinzona, Locarno e Ascona. È stata un’esperienza forte e indimenticabile, perché Performa è un festival che non solo propone un programma degno di attenzione, ma anche perché permette, a chi vi partecipa, di vivere a stretto contatto con gli artisti e i loro processi creativi. Le occasioni in cui condividere momenti non solo performativi tra pubblico e artisti non sono estemporanee ma costituiscono proprio la natura e l’ossatura del festival. Filippo Armati mi ha ospitato a casa sua nei pressi di Bellinzona, insieme alle performer svizzere Nina Williman e Paulina Alamparte. E durante la permanenza al festival non solo sono riuscito a percepire e comprendere la grande passione che anima Filippo nel voler radicare in un territorio difficile una proposta inconsueta di vivere e creare, ma anche la sua grande umanità e volontà di creare connessioni tra gli artisti e il pubblico che poi frequenta le performance. Così che da giornalista, sono stato ospite, amico, perfino performer, perché sono stato coinvolto proprio nella performance di Nina Williman, e si è sviluppata non solo la mia conoscenza di artisti innovativi che mi erano sconosciuti, ma anche amicizie, relazioni, affetti. Questo è ciò che dovrebbe essere un festival. Non una vetrina, non una passerella fatta di tappeti rossi e pubblici plaudenti, ma un luogo di scambio, di vita, di relazione tra una comunità e gli artisti che danno voce a ciò che attraversa e inquieta quella stessa comunità.

Proprio alla luce di questa mia esperienza consiglio i miei lettori a farsi un bel weekend nella vicina Svizzera e vivere un festival che può offrire molto in molti ambiti. E consiglio la partecipazione a Performa anche per un’altra ragione non meno importante: la Svizzera è un nostro vicino, un paese che ai più è noto solo per il cioccolato e le banche, oppure per essere un paese ricco e felice. Niente di più sbagliato. La Svizzera è un paese complesso, attraversato da molte problematiche e contraddizioni, ma è anche un paese molto vivace dal punto di vista culturale, e non solo perché ha molti soldi. La Svizzera ha avviato politiche culturali che andrebbero prese ad esempio, dove i giovani artisti hanno per lo meno la possibilità di giocarsi le proprie carte, usufruendo di una certa visibilità. Poi starà a loro, alle loro qualità, al loro talento, ma per lo meno possono provarsi e incontrare il pubblico. Il Cantone Ticino è a noi vicino, un paio d’ore di macchina, e vale la pena di farsi prendere dalla curiosità, varcare il confine e conoscere una realtà così vicina, anche linguisticamente, seppur molto diversa.

Performa Festival inizia domani 31 marzo e si protrarrà fino al 3 aprile vi invito dunque a visionare il programma completo del festival sul sito http://www.performa-festival.ch/ e non mi resta che augurarvi buona visione!

Intervista al direttore artistico Filippo Armati

EP: Filippo presentaci il festival di quest’anno.

FA: Il festival quest’anno presenterà performance provenienti dai più svariati ambiti e linguaggi artistici, sia arti performative sia arti visive, ma anche performance musicali, sperimentazioni video. Quest’anno abbiamo avviato una collaborazione con il CISA (Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive) di Lugano, e infine avviato una collaborazione con Radio Gwen, una radio online che tratta principalmente di cultura legata alla musica, privilegiando quei prodotti che normalmente non passano sui canali ufficiali. Possiamo quindi dire che Performa Festival privilegia la creatività che si sviluppa su diversi livelli.

EP: C’è un tema conduttore che attraversa la programmazione, un filo rosso che si dipana in questa cornucopia di offerte performative?

FA: Non credo molto all’idea di connettere i lavori presentati in una sorta di tema o argomento, perché penso che a volte questo possa distorcere più che dare ordine a una manifestazione. È un atteggiamento più da curatore che si occupa di arti visive. Io non cerco di connettere lavori o artisti verso un tema comune, piuttosto tento di offrire il più vasto ventaglio possibile di diversità.

All’interno della programmazione c’è però un progetto, Tanzfaktor, che è una piattaforma di pezzi brevi di danza creati da giovani coreografi e che promuove la cooperazione tra diversi festival sparsi su tutto il territorio nazionale svizzero. Lo scopo di questo circuito è quello di promuovere la circuitazione dei giovani artisti anche al di fuori delle proprie aree linguistiche. Sono stati selezionati dieci progetti su novantadue presentati, e cinque di questi saranno ospitati all’interno di Performa quest’anno.

EP: La scorsa edizione sono stato tuo ospite e ho seguito tutto il festival e ho potuto constatare il tuo sforzo di radicare un progetto culturale ambizioso che cerca di portare artisti dediti alla sperimentazione nel campo delle performance arts in un territorio molto chiuso e difficile. Quest’anno hai cambiato periodo passando dal principio dell’autunno all’inizio della primavera. Pensi che questo possa aiutare a incrementare l’affluenza, l’affezione del pubblico alla tua manifestazione?

FA: Quello di cui mi sto rendendo conto è che il fatto che Performa Festival esiste è importante al di là dei numeri e dell’affluenza di pubblico. Sento che nei sei anni di esistenza del festival si è comunque radicata una consapevolezza nel territorio dell’esistenza di uno spazio creativo come Performa. La gente ne parla, prende il programma, discute il programma, anche se poi magari non riescono a venire o vengono solo una volta. Questo dimostra che c’è comunque un interesse, c’è una pertinenza, e c’è una volontà del pubblico di confrontarsi con quello che noi proponiamo.

EP: Cosa consiglieresti al pubblico che volesse partecipare a Performa? E c’è un progetto cui sei particolarmente fiero di presentare?

FA: Innanzitutto consiglierei al pubblico di fare il pass abbonamento e partecipare al festival nella sua interezza per viverne non solo la proposta artistica ma anche l’atmosfera. Per quanto riguarda i progetti quest’anno presentiamo una prima un progetto di cui siamo coproduttori. É il progetto di Katia Vaghi, un’artista ticinese, che vive e lavora tra Londra e Berlino, che presenta Jukebox: danze su misura, una sorta di Jukebox in danza interattivo con il pubblico, nel senso che il pubblico potrà su una lista proposta dall’autrice potrà scegliere una combinazione di elementi che lei riprodurrà in scena. Trovo questa opzione veramente interessante e ho fortemente voluto questo progetto.

Paola Bianchi

PROVE DI ABBANDONO Paola Bianchi e Ivan Fantini

Abbandono. Parola complicata. Un oscillare tra positivo e negativo, entrambi bordi d’abisso. Da una parte un dare in balia, dall’altra un lasciar andare, un affidarsi completamente. E questo fluttuare è ambiguo anche nell’etimo. A bandon, vendere all’asta, all’arbitrio del miglior offerente; oppure Ab Handen, l’essere fuor di mano di un oggetto, un lasciarlo andare al suo destino, come una barchetta al destino dell’onda, un lasciarlo esistere con le sue forze senza imbrigliarlo nella funzione. Se a questo metafisico dondolio si aggiunge la parola: prova, tutto si fa ancor più complesso nel suo tendere ai confini di due estremi.

Le azioni coreografiche di Paola Bianchi e le letture di Ivan Fantini, dal suo libro educarsi all’abbandono: frammenti mutili, sono dunque agite tra l’essere lasciati e il lasciar andare. Una danza composta di gesti attivi, a volte violenti, ma subito lasciati, abbandonati. Un corpo in movimento, a scatti, frastagliato nei ritmi, schizofrenico nell’agire degli arti a diverse velocità e ritmi, nel perpetuo dondolio tra il lancio e l’abbandono a una caduta, sia essa tragica e non voluta, sia essa volontaria.

E poi il testo di Ivan Fantini. Episodi, stralci, frammenti di un agire-patire a volte in una cucina ossessionata dallo sfrigolar di carni su una griglia, che ricorda un po’ gli inferni di Emanuel Carnevali nelle cucine d’America; a volte in una campagna popolata da animali dotati della potenza dello spirito dei tempi antichi, con oggetti dotati di forza, di significati che vanno ben oltre il loro consueto. Un essere accerchiati da azioni, cose, animali che potenti oltre ogni dire, lasciano in balia, abbandonato alle proprie miserie, a pensieri vorticosi che non trovano sbocco perché avulsi da una natura che se ne frega del nostro rimuginare.

Danza e parola, corpo e suono, perché musicisti si alternano nei diversi luoghi improvvisando sonorità che si intersecano con i diversi stati e strati di abbandono. Anche i luoghi dove avvengono queste azioni è significativo: in abitazioni private, in luoghi abbandonati, oscillando tra il privato e l’assente, dove il pubblico è lì per invito, come ospite, non come a teatro dove paga ed entra a godersi l’intrattenimento. Certo, molti diranno, mica da oggi si fanno azioni artistiche, performance, in casa o in luoghi che non siano teatro, mica c’è da stupirsi. Eppure il consueto è portatore di fresche brezze di senso. Non perché abbiamo sentito mille volte il tema dell’habanera di Carmen, il senso di pericolo e di furiosi spiriti liberi e vitali vien meno, anche se viene usata per pubblicizzare un detersivo. La maestria del fare, dell’artista vero che agisce solo perché spinto da intime esigenze che profonde scuotono il suo essere, non cade mai nello scontato. Solo il mestierante e il dilettante ricadono nel circolo vizioso della consuetudine, perché incapaci di sfuggire all’attrazione del consenso, del facile, dell’ovvio. La commozione, come insegna Morandi con le sue nature morte, – sempre quelle bottiglie, sempre loro -, può abitare anche sulla tavola grezza della casa di campagna.

Foto: Alice Guarini

PAOLA BIANCHI: DA ZERO A INFINITO

:«…sento che c’è bisogno di un RITUALE, che sia ASSURDO dal punto di vista della vita, ma capace di attirare l’oggetto nella sfera dell’arte»

Tadeusz Kantor

:«C’è una cosa che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico»

Marcel Duchamp

Domani sera 24 marzo all’interno di Slavika, alle Officine Corsare alle ore 21 verrà presentato Zero di Paola Bianchi. Lo consiglio a tutti coloro che sono innamorati del Teatro e della Danza. Sì! Quelli con la maiuscola davanti.

Cos’è Zero? Zero non è niente. Zero è la massima potenzialità. Zero è il numero del Matto nei tarocchi, la carta di chi avanza verso l’abisso, lo sguardo verso l’orizzonte, la sacca e il bastone del viandante e un cane che gli morde i calcagni quasi a impedir l’andare verso un dove sconosciuto perché la carta non ha paesaggio né orizzonte.

Zero è una performance piena di questo nulla, di ciò che non ha determinazione e quindi può esser qualsiasi cosa. Il suono per esempio, questi soffi e respiri, son quelli di Kantor, i silenzi tra una parola e l’altra, mentre registrava alcune di quelle parole che hanno segnato indelebili la scena. I respiri tra le parole, quelli che nessuno calcola. È la parola ciò che importa! La parola del Maestro! E invece Paola Bianchi sceglie quei respiri tra due mondi, quei suoni che raccolgono la fatica di aver detto e preparano con nuova forza il dire che ancor non è.

Ma, come dice Paola Bianchi, Zero non è uno spettacolo su Kantor. E come si potrebbe? Ciò che Kantor faceva accadere sulla scena apparteneva solo a lui, alla sua vita, i suoi ricordi, i suoi fantasmi, i suoi oggetti provenienti da quella realtà dal rango più basso che lo affascinava. Una Generatio Aequivoca che non era rappresentazione né interpretazione. Era un prendere vita delle cose e delle persone come nei racconti di Bruno Schulz, in cui nel pieno mistero della vita che si autogenera non vista, e crea drammi cosmici, deflagranti efflorescenze incontrollate, misere, devastanti, caleidoscopio di possibilità non prese in considerazione, scartate, messe là nell’angolo perché in qualche modo non degne di attenzione. Questo in fondo è Zero di Paola Bianchi: un viaggio alla ricerca di quei corpi e di quegli oggetti abbandonati in una soffitta, oggetti e corpi che danzano e parlano senza esser visti, nel vuoto cosmico tra i granelli di polvere che lenti si depositano su di loro. Un lento deambulare di quei manichini pieni di vita, via di mezzo tra un morto vivente e uno spaventapasseri, quel camminare incerto di essere tra la vita e la morte, in quell’eterno confine tra un aldilà e un aldiqua, in quel confine pieno di spasimi, di afflati, di sussurri che dicono tutto senza dir nulla.

Zero è un’esperienza che nulla ha a che fare con l’estetica. Se qualcuno pensa di andar a vedere uno spettacolo che rappresenta un momento di svago, stia pur a casa. Zero è un dramma, di quelli veri, di quelli tosti. Il dramma dell’esserci prima di sparire. Esserci e agire, sotto una luce tenue per un momento, un istante colmo di tremule potenze che scuotono l’aria prima di ritornar nel buio. Ci si strugge a veder quel vecchio sul fondo, con il suo bastone, camminar a fatica, tra i sussurri, verso non si sa dove, forse solo a girar in tondo senza un perché, forse nel pieno di un’intenzione così forte da sfuggir alla morte e all’esser dimenticati. E quella figura che danza scomposta, come un manichino a cui si son rotte le membra o un burattino a cui si sono intrecciati i fili. E quelle cose là? Quelle abbandonate sul palco, non in una discarica dove il cumulo può almeno significar la fine di una funzione, no! Abbandonate nel vuoto nero del palco, prive di appigli, di funzioni, di assenza di funzione, nel semplice esser lì con le loro mute domande.

Zero è tutto questo. Non parla di Kantor, ma Kantor nel vederlo, magari seduto su una vecchia sedia a bordo del palco, avrebbe sorriso, scorgendo un orizzonte da lui a lungo percorso e attraversato. Poi si sarebbe alzato e senza dir nulla, come una delle sue figure, se se sarebbe andato nel buio del retropalco, senza salutare nessuno.

Virgilio Sieni

ALTISSIMA POVERTÀ: VIRGILIO SIENI A TORINO

Sabato mattina al Circolo dei Lettori è stato presentato il progetto Altissima Povertà di Virgilio Sieni. Il grande coreografo fiorentino porta in città un lavoro corale diffuso sul suolo cittadino che idealmente continua le sperimentazioni già attuate in altre città, come Venezia, dove da direttore artistico della Biennale Danza ha dato forma al Teatro alle Tese al Vangelo secondo Matteo in cui 163 interpreti non professionisti hanno dato vita a 27 quadri dall’entrata di Gesù in Gerusalemme alla Passione. Ma non solo Venezia anche Marsiglia, Livorno, Brescia, progetti nati con l’intenzione di diffondere azioni coreografiche che coinvolgano un intero territorio e un intera comunità, cercando di riproporre un’agorà ideale che unisca gli abitanti attraverso l’azione del corpo danzante. Una rivalutazione dell’umano al di là del convenzionale unendoli nel gesto e nell’esserci, nella collaborazione, nella vicinanza al di là delle differenze lavorando con e sulle differenze.

A Torino, grazie allo sforzo di due Associazioni molto attive nel campo della danza, in particolare quella di comunità, Virgilio Sieni porterà a Torino, Altissima povertà, un progetto di azioni coreografiche da costruire insieme a diversi gruppi e comunità e da realizzarsi in città in un processo a partire dal prossimo 5 aprile per concludersi i primi di luglio 2016. Il titolo del progetto si ispira al libro del filosofo Giorgio Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita proseguendo una collaborazione nata nel 2008.

Il lavoro porterà alla creazione di diversi gruppi composti da persone tra i 20 e i 40 anni con esperienze di danza, giovani, adulti e anziani di qualsiasi età senza esperienza di danza, e infine coppie di madri con figli.

Per chi volesse partecipare, e io invito caldamente chi potesse a non perdere l’occasione di vivere da vicino l’azione e l’insegnamento di un grandissimo artista e coreografo, può rivolgersi direttamente a Maria Chiara Raviola scrivendo a danzateatrocomunità@lapiattaforma.eu o consultando il sito www.lapiattaforma.eu

TRE UNO di Fabio Liberti con Elita Cannata, Davide Valrosso, Anna Jirmanova

Tre Uno, viene definito sul programma di sala come un viaggio. Definizione fatta tramite domande: verso cosa? Attraverso cosa? E cosa c’era dentro? Sono le stesse domande che si pone lo spettatore alla fine dello spettacolo. Un palco ricoperto di palloncini neri. Sul proscenio una linea bianca, netta. Poi una danzatrice che compie i primi passi in questo mare nero di palloncini. Segue l’entrata degli altri due danzatori, la linea diventa un quadrato che racchiude e da cui si evolve un paesaggio naif, con casette dal tetto a punta e comignolo fumante, albero in giardino e uccelli in volo. I palloncini scoppiano, diradano per lasciare lo spazio a questo paesaggio infantile ed elementare. Infine il buio in cui echeggia il suono dei palloncini scoppiati. Questo il viaggio. Una proposta un po’ troppo naif, ingenua, infantile, nel senso di rifarsi agli stereotipi iconografici dell’infanzia. Benché work in progress non sembra che questo lavoro possa riservare sorprese verso una complessità che doni spessore. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una visione basica, estremamente lineare, a un messaggio di banale ottimismo del tipo: la marea nera che circonda il nostro agire sarà rasserenata dall’azione creatrice e immaginatrice. Ma l’immaginazione proposta è costituita da stereotipi, da schemi ripetuti e frusti. Tra i lavori proposti fino ad ora alle Lavanderie a Vapore nella rassegna Permutazioni, progetto, lo ricordiamo, di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, Tre Uno è sicuramente il lavoro più debole e scontato. Elias Canetti diceva: “Solo ciò che tocca la collettività nel suo insieme mi pare degno di essere rappresentato”. A questo pensiero non posso che associarmi. In questa contemporaneità afflitta da innumerevoli conflitti sociali ed economici, non servono risposte semplici e banali. Serve uno sforzo per comprendere, per poter vivere e forse solo in questo risiede una possibile funzione per le arti. Non serve a niente e a nessuno una confortevole visione, serve essere crudeli, come può esserlo un medico che incide la carne per raggiungere il male.

Foto: Fabio Melotti

TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti

Paolo Agrati

CONVERSAZIONE CON PAOLO AGRATI

A volte ci sono delle serate che ti riservano delle sorprese, che nascono un po’ per caso, come quando a Torino, in san Salvario, capita che fai un aperitivo e ti trovi Paolo Agrati e ne nasce una bella conversazione.

Enrico Pastore: Paolo Agrati vorrei cominciare da una curiosità: qui a Torino si è formata una scena poetica sviluppatasi in un territorio senza grande tradizione, il Piemonte è più legato al romanzo, e forse in questo è stata più libera di scegliersi strade inconsuete. Tu invece sei brianzolo, vivi in una zona che gravita intorno a Milano, una città che è stata un centro di diffusione di grande poesia (penso a Marinetti, Antonia Pozzi, Clemente Rebora, ma non solo), ed è stata anche punto di riferimento per certa canzone poetica e ironica, e qui penso a Gaber e Jannaccci su tutti. Questa tradizione importante ti ha in qualche modo influenzato? Ha pesato sul tuo cammino poetico? Oppure non ne hai per niente tenuto conto?
Paolo Agrati: No, al contrario. È un’ottima osservazione. Guarda ti dico: mio padre faceva il regista nel teatro milanese amatoriale e ha anche lavorato con Mazzarella. Hai presente Mazzarella? Quello che faceva il barbone nel Povero ricco con Pozzetto. Lui era un attore di teatro che lavorava molto nel teatro dialettale milanese, che è un teatro grasso, anche un po’ sempliciotto, ma che se lo fai bene può essere molto bello. Io sono cresciuto con l’attaccamento al teatro in dialetto milanese. Penso anche a Walter Valdi, quello che ha scritto per Jannacci Faceva il palo, o a Pozzetto, io lì ho visti fin da bambino, Valdi, ad esempio, era di casa come Mazzarella. Vedo quest’ambiente più come un ricordo d’infanzia. Non so se mi abbia influenzato anche come poeta, credo di no. In più devo dire che io alle superiori avevo un professore, Luigi Cannillo, che è un grande poeta. È stato uno dei miei maestri, e mi ha insegnato molto, tipo la capacità di costruire immagini, o di non usare troppi verbi, che sembra una stupidaggine, però più verbi metti più l’azione si complica. Lui mi ha fornito, diciamo, gli strumentini del mestiere, quelli che uso sempre, e con lui ho girato un po’ i circoli, dove c’era Maiorino, poeta milanese, la Casa della Poesia, il Parco Trotta dove c’erano i poeti, non quelli della tradizione ma quelli che facevano poesia in quel momento. Li ho visti, ma un po’ me ne sono allontanato. Credo quindi di lavorare in modo diverso. Dopo aver gustato la parola scritta ho preso un’altra strada. Per esempio il mio primo libro Quando l’estate crepa aveva un tono molto tragico. Il secondo libro parla di distanze e lì comincio a masticare un linguaggio diverso, comincio a distaccarmi da una classicità nella poesia. Il terzo libro infine faccio proprio quello che voglio. È diviso in due parti Amore e Psicho, dove mi rivelo un po’ come Dottor Jakyill e Mister Hyde.
Però, mentre ci penso, a questa tua osservazione, mi viene da dire che in fondo più che aver subito un influenza poetica, ho vissuto un ambiente poetico. E poi devo dire che in effetti l’attività degli slam, non è a Milano, ma in Brianza o in provincia. È tutto delocalizzato. Noi a Milano facciamo fatica a portare questo tipo di poesia. Alla Casa della poesia ci sono solo le cose super ufficiali. Quindi devo dire che hai ragione da vendere a dire che qui a Torino non si ha così tanta tradizione a cui aggrapparsi, rispetto a Milano. Se la vedi da distante, Milano, sembra un po’ un punto di riferimento poetico rispetto a Torino e quindi far pensare che questa tradizione pesi o influenzi l’azione di noi che facciamo poesia.

EP: Come sei venuto a contatto con il mondo degli slam?
PA: Conosci La Scighera a Milano? È un locale di anarchici, molto bello, dove sono venuto a contatto con lo slam come lo conosco. Sono andato lì e ho vinto. Era un locale che frequentavo, mi piaceva, e così ho partecipato dure, tre, quattro volte. Ho cominciato così. Poi dopo aver pubblicato il primo libro con la Lietocolle e aver vinto un premio, mi son detto: cosa faccio? Mi metto dietro la scrivania oppure faccio qualcos’altro? E così ho cominciato a preparare una sorta di spettacolino di venti minuti. C’era un manichino che io spogliavo. E lì ho capito che era meglio far passare la poesia dal palco. Poi c’è stata l’esperienza con la Spleen Orchestra. Tutte queste situazioni hanno fatto sì che sviluppassi un rapporto con il pubblico e con il palco, che raffinassi piano piano la mia capacità di interazione con il pubblico. Tornando allo slam quel tipo di competizione poetica ti insegna molto sul comprendere il pubblico che hai di fronte e sul gestire le energie. Per esempio una volta m’è capitato di vedere Nanni Svampa. Quella sera c’era anche un altro tizio che si sbracciava sul palco, si muoveva in continuazione. Poi è arrivato Nanni Svampa, spostava solo un cavo con il piede e la gente rideva, ma non perché era ridicolo, ma perché lui era presente, era la presenza, la capacità di stare lì, gestione dei tempi, delle energie. Lo slam mi ha dato questo. Mi ha insegnato queste cose.

EP: Paolo tu sei un poeta che frequenta molto gli slam, cosa diresti a chi pensa e sostiene che questa non sia poesia?
PA: È tutta fuffa. Chi sostiene questa posizione è chi si trova spiazzato e che non riesce più a comunicare. Qual è l’artista che è testimone del suo tempo? Quello che riesce a capirlo. Lungi dal volermi paragonare, ma pensiamo a Warhol. È quella roba lì. Capisci cosa sta succedendo. E un buon poeta, senza diventare il Warhol di questo secolo, deve capire che la poesia è un mezzo di comunicazione, che compete con altri mezzi di comunicazione che sono più freschi, più dinamici. Ripeto: non c’è nessuna lotta se non quella del poeta che si trova spiazzato e non riesce più a parlare con nessuno. Non si trova nella modernità e quindi la schifa. Per quanto mi riguarda, quando avevo diciotto anni e ho vinto il primo concorso, premio che mi ha salvato all’esame di maturità, ho visto che la gente non vedeva l’ora di leggersela da solo questa poesia, guardava in giro disattenta, insomma una serata noiosissima e mi son chiesto: ma io voglio fare questa cosa qua? Poi c’è un’altra cosa che vorrei dire: c’era qualcuno, non ricordo esattamente chi, forse Picasso, che diceva: il gusto è per gli stupidi. Cosa vuol dire? Che il gusto mi porta a mettere la maionese sul tiramisù. Il problema è che bisogna capire uno sforzo creativo. Se hai anche una piccola predisposizione verso l’esterno, lo sforzo creativo lo capisci e non ti deve per forza piacere. Comprendi che c’è un equilibrio o un disequilibrio, che c’è una costruzione. È lì il punto. E poi la poesia orale non esclude quella scritta, per questo dico che non c’è lotta. Comunque diciamocelo, io sono anche un po’ stufo di quelli che mi dicono cos’è la poesia. Che poi non è neanche la domanda. È la risposta. C’è gente che vuole dare la risposta e uno lo capisce già a sedici anni che non si può dare una risposta.

EP: È molto giusto quello che dici e purtroppo c’è sempre chi vuol cercare di definire e mettere confini. Ma parliamo di poesia orale e dal vivo: è un dato di fatto che la gente legge poco eppure gli slam e i reading attirano molto pubblico. Non pensi che sia un’esigenza di condivisione, di sentire più che di leggere, di fare un’esperienza dal vivo e non relegare la cultura a un fatto privato?
PA: È vero. Anche se la poesia orale non esclude quella scritta. E bisogna dire che la poesia comunque in qualche modo chiama la pagina. Scrivere una poesia è una cosa complessa, richiede molto tempo a volte, un lavoro di cesello sulle parole per trovare quelle giuste, il giusto suono. Anche nella poesia orale esiste questo lavorio, ma serve un’esigenza diversa. Un poeta cosa prende dallo slam? La consapevolezza di avere un corpo e una voce. E una sorta di umiltà, perché metti la tua poesia nelle fauci del pubblico. Accetti il giudizio del pubblico. E se non piaci non è perché il pubblico non capisca un cazzo, perché non è questione di capire, ma di sentire, e può benissimo darsi il caso che hai sbagliato, che non hai fatto la cosa giusta. Bisogna essere umili e ascoltare. Lo slam sta creando un linguaggio nuovo, altro. Un linguaggio costruito sul corpo, che a volta non ha bisogno neanche della pagina, perché le poesie sonore, i suoni sono difficilmente riproducibili sulla carta. A volte appaiono noiosi o orribili. Nel reading invece succede un’altra cosa ancora. Il reading è un viaggio all’interno delle molte facce del poeta. Io lì doso tutti gli elementi, la parte ludica, la parte romantica, una più dura. Nello slam invece devi dare tutto in tre minuti.

EP: Quali sono i tuoi progetti attualmente?
PA: Spero di andare al Festival di Lima in Perù. Ho un libro in lavorazione in Cile con una piccola casa editrice. Anche questo da confermare. Sto anche scrivendo il prossimo libro, composta da piccole poesie sui suicidi anche se non ho nessuna intenzione di uccidermi. Sarà un libro illustrato. Infine, sto cercando di fare un disco. Diciamo che quest’anno mi dedico al multimedia.

she she pop

SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.

Virginie Brunelle

COMPLEXE DES GENRES di Virginie Brunelle

Tre corpi ibridi. Metà maschio, metà femmina. Avvinti in un amplesso danzante. Una danza classica, ironicamente parodistica con tanto di tutù, su questi corpi improbabili, di genere misto. E il requiem di Mozart a invocare un’altra congiunzione, divina e inquietante: Eros e Thanathos.
Al tema segue lo sviluppo con le sue infinite variazioni. I generi, maschile e femminile, in perpetua relazione che sia di scambio, d’amore, di comprensione o di lotta, ma sempre con la sensazione di aver perso qualcosa, di non aver raggiunto l’essenziale, in costante ricerca di una sostanza sempre sfuggente. Una danza delicata e espressiva nonostante l’audacia acrobatica delle forme, un’audacia velata sempre di profonda malinconia. Virginie Brunelle, nonostante la sua giovane età (nata nel 1982), possiede già una maturità espressiva e compositiva impressionante. Ma forse qui il problema è tutto italiano, in un paese dove un cinquantenne è una giovane promessa.
Come in un componimento di Mozart dove convivono molteplici invenzioni anche di segno opposto, in Complexe des genres, la complessità dei generi e il loro reciproco rapporto si sviluppa in figure animate da ritmi e respiri di battito differente: violenza e tenerezza, sensualità e algida frigidità, malinconia e gioia, classicità e barbarie. E infine la speranza che alla fine del percorso si trovi un modo per comunicare, per interagire senza ferirsi per infine capirsi o forse solo per convivere. Un volo di aeroplani di carta, di speranze lanciate verso l’alto nonostante la certezza della caduta. Eppur resta il tentativo, reiterato, motivato dalla fede in un’improvviso cambio di rotta che smentisca le leggi della fisica.
Virginie Brunelle tesse con abilità le forme ai linguaggi, intrecciando la musica ai corpi danzanti in un scaturire di sensazioni inaspettate. E così il neominimalismo della musica di Max Richter, nell’ossessivo ripetersi di sé richiama il continuo incepparsi della comprensione della coppia danzante che si seduce e si lascia incapaci di superare la differenza per un momento dimenticata nel flusso dell’attrazione. O come quando l’inno alla gioia è contrappuntato dalla violenza dello scontro, dalla violenza della separazione, dall’urto di uno scontro che è desiderio e repulsione. A volte invece il contrappunto diviene armonia come il notturno di Chopin vena di dolce malinconia il reciproco non capirsi. Una scrittura artistica senza incertezze che esalta l’arte antica della composizione.
Complexe des genres è uno di quei lavori che restano impressi, di quelli di cui ci si ricorda perché risuonano nell’animo per lungo tempo, perché evoca e non afferma, non dice ma contiene e rilascia, dona e non pretende nulla in cambio.