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MDLSX

MDLSX di Motus con Silvia Calderoni

Good time for a change. Potremmo iniziare così. Difficile è parlare di MDLSX, forse soprattutto perché si vorrebbe dire troppo. MDLSX è innervato di complessità. La sua carne partecipa della natura di Proteo: siamo nel regno della metamorfosi. Bandita è la simulazione. MDLSX frequenta una terra antica, quasi mitica, dove l’essere partecipa della natura di ogni cosa, dove si può essere uomo, donna, dio, animale o pianta. Ma MDLSX è anche fuga, rifiuto, dalle categorie, dai generi, dalle definizioni. Si canta il desiderio di essere mutevoli, di essere non uno ma molti, di essere legione.

È una generazione equivoca, ibrida, mostruosa. Il mostro partecipa di più nature, non è definito né dal sesso, né dall’appartenenza a un unico regno. Essere ambiguo è essere sfuggente. Si fugge il semplice della definizione per congiungersi con il complesso della trasformazione e del divenire.

La storia che viene raccontata è pur essa ambigua, non sopporta la chiarezza, la sovrapposizione con l’attrice che la racconta. Si resta sempre in dubbio. Silvia Calderoni con la sua fisicità androgina, racconta di sé (le immagini proiettate fanno parte della sua adolescenza di femmina/maschio), ma il racconto è anche di altri che partecipano di nature sessuali inqualificabili. Ma a queste storie parallele, quasi adiacenti, si sovrappone uno stato mitico che aggiunge profondità, gettandoci al di là delle quinte del tempo, laddove l’oscurità indefinibile dell’essere era indagata e scrutata nelle nebbie dell’origine: la storia di Tiresia, l’indovino che partecipò della natura dell’uomo e della donna; il mito di Hermafrodito, il rapito dalla ninfa Salmace, che volle unirsi a lui nelle acque, fondendosi con il suo amato, diventando un essere che partecipa di entrambe le nature sessuali; l’oscillare dell’anima greca tra i poli apollineo e dionisiaco, abissi di luci e ombre, dove è impossibile distinguere nell’ambiguità delle loro nature, dove sia la luce e l’ombra.

Questa semina di indizi mitici ci porta in quell’epoca antica dove vigeva l’imperio della metamorfosi, che rivive nella sua piena potenza in scena dall’agire di Silvia Calderoni, essere ambiguo in continuo divenire: uomo, donna, vecchio, mostro, sirena. Metamorfosi che si riflette nel video/specchio dove lei perenne oscilla tra essere maschio e femmina. Continue trasformazioni, con oggetti, vesti, luci, musiche, tra ricordo, realtà, finzione. Sempre in moto, perennemente in movimento, alla ricerca del plurimo per sfuggire all’unico.

Ultima una preghiera, con la voce di Morrisey: please, please, please let me get what I want. E poi un diluvio di applausi.

ph: Ilaria Scarpa

Licia Lanera

Licia Lanera in ORGIA

Devo ammetterlo: ho molti problemi a scrivere di questo spettacolo di Licia Lanera. C’è qualcosa nella natura del lavoro che mi blocca, mi impedisce. E questi ostacoli sopravvengono ogni qual volta mi trovo di fronte a lavori che condividono lo stesso DNA o meglio le stesse patologie. Mi rendo conto che questi problemi sono miei e derivano dalle mie scelte artistiche e che queste scelte sono, mi si passi il termine, eretiche rispetto alla norma. Quindi prima di parlare dello spettacolo, devo spiegare la mia idiosincrasia e cercare di rendere chiaro quali siano le patologie che mi impediscono di apprezzare lavori di questo tipo e perfino di scriverne.

Io provo una sorta di rigetto fisico, come se avessero tentato di inserire nel mio corpo organi estranei, quando mi trovo di fronte a spettacoli dove, come diceva splendidamente Carmelo Bene, c’è qualcuno che simula di essere qualcun altro scritto da un altro ancora. Tutti sanno che l’attore in scena non è la persona che parla ma facciamo finta di crederci e applaudiamo alla riuscita magia della simulazione.

E poi il testo che precede l’atto scenico e lo schiavizza. Questo fatto dell’interpretazione, di dare un senso, un taglio a qualcosa che preesiste. Questo gioco di inganni. Ma il testo, sempre per citare C.B:, tranquillizza, il testo è legge, è garante di una censura. Dona uno scopo a un’arte che scopo non ha, che è potente proprio quando non ha scopo e ciò che nasce sulla scena è per la scena, e non è simulacro di qualcosa di estraneo che nasce altrove. Questo mettere in scena i testi, le drammaturgie d’autore, questo rendere omaggio al grande poeta o drammaturgo, è in fondo, un teatro per chi non legge. È sussidiario che si fa carne, è alimentazione forzata di cultura. Non ho tempo o voglia di leggere Pasolini, allora vado a teatro e lo sento dire da altri, che sono magistralmente bravi a leggermelo, a farmi credere che ciò di cui si parla abbia vita vera in scena. E quello che più mi stupisce è il fatto che tutte le rivoluzioni nel teatro dell’ultimo secolo e mezzo volte a garantire al teatro la possibilità di esistere senza soggiacere ad altre arti, che il teatro possa infine parlare con la sua lingua, fatta di immagini, parole, tempo, spazio, ritmo e soprattutto corpi, ecco che tutte queste rivoluzioni divampate non lascino quasi traccia in lavori denominati: creazioni contemporanee. Per trovare il teatro che parla la propria lingua e non quella di qualcun altro bisogna sfuggire al teatro, andare a vedere la danza, la performance, gli ibridi miscugli, le generazioni equivoche. Il teatro in sé ancora è ancorato a concetti quali l’interpretazione di un testo, la simulazione di una parte, l’inganno di far sembrare ciò che non è. E questo discorso nulla toglie alla bravura dell’attrice in scena, quella Licia Lanera, che è un’attrice straordinaria. E questo nulla toglie nemmeno a Pasolini. È il linguaggio del teatro che ne risulta dimezzato. Perché non agisce al suo pieno potenziale, non parla la sua lingua ma quella scritta altrove. E le parti dello spettacolo che più sono efficaci sono proprio quelle in cui la voce, che interpreta il testo, si scinde dall’attore, diventa audio e l’immagine può finalmente parlare la sua lingua senza un kapò a controllarla. Poi però ritornano i giochi delle parti, l’assegnazione dei ruoli, quel processo che rende così conforme alla norma di cosa sia o non sia teatro nella mente dei più.

Teatro è simulazione. Fare teatro, anche in Montalbano, è metter su una trappola per credere ciò che non è. Una truffa. Un imbroglio. Questo sapore di falsità è ciò che non riesco a farmi andare giù, quello che mi provoca violente reazioni di rigetto. Eppure in Italia abbiamo avuto C.B. che si è battuto come un gladiatore per far capire che era ora di finirla con queste rappresentazioni. Come se non fosse mai esistito per il teatro italiano. Si continuano a proporre rimesse in scena di testi, di drammaturgie, si premia la nuova drammaturgia, si cercano nuovi drammaturghi, come se ce ne fosse bisogno. Il teatro ha la sua lingua, parla da solo senza bisogno del gendarme, della scorta del testo, del poeta che lo fa parlare e gli dice le cose da dire. Perché se no cosa resta al teatro? Dar un’interpretazione, un nuovo taglio di luce alla parola? Un po’ come le signore che vanno una volta alla settimana dal parrucchiere per farsi un nuovo look? Eppure questo tipo di messinscena è ancora la più applaudita, la più ricercata, perché tranquillizza, ci mette di fronte a ciò che è noto, a un rito stantio di cui però si sa i confini e le procedure. Si ammira quanto è bravo l’attore che interpreta, quanto è bravo a imparare tutto quel testo a memoria e poi lo dice così bene. Nessuno si pone la questione che il teatro non ci sia, ci sia solo la rappresentazione. Un gioco di illusione, dove ci sono persone che fanno le marionette viventi di altre persone che vivono sulla carta scritta altrove. Una roba da Croce Verde, come diceva C.B. Questo è ciò che chiamiamo linguaggio contemporaneo benché sia un giochino che va avanti da svariati secoli. E intanto il miglior teatro, quello che nasce sulla scena con il linguaggio della scena emigra, lo trovi compagno alla danza, alla performance, ad artisti di varie provenienze. Lo trovi nei confini, negli interstizi, là dove le cose succedono, non dove si replica ciò che ci si aspetta, dove non c’è simulazione, ma metamorfosi, la proteica trasformazione delle immagini una nell’altra, quel dire la verità attraverso la permutazione infinita dei linguaggi, nei loro balbettii, nelle loro incertezze e cadute, la dove si frantuma il senso, e non lo si da preconfezionato per tutte le bocche.

ALEARGĂ di Nicoleta Lefter (RO)

Nicoleta Lefter corre. Sola. Verso dove? Oppure fugge? Ma da cosa? Nicoleta Lefter non sta mai ferma, corre, come molti, nel parco. Si sfinisce. Ogni tanto la cuffia per non sentirsi sola, per escludere il mondo. Corre. Continuamente. Questo riempirsi la vita, badare al corpo per arrivare sani alla morte. Si ha l’impressione che si corra ciechi verso il baratro, come nella parabola pittorica di Brughel.

Un’altra immagine viene evocata. I Runners de Il Paese delle ultime cose di Paul Auster. Una sorta di setta. Si allenano per morire di sfinimento. In gruppi da sei a dieci, perché da soli non ce la si potrebbe fare. Anni di allenamento per rafforzare il corpo mentre contemporaneamente ci si allena a ridurre progressivamente il cibo. Così al massimo della forma si può chiedere al corpo di fare di più, passare il limite e correre verso la morte, che avviene così, correndo, quasi l’anima fuggisse fuori dal corpo.

Soli, iperattivi, sani, in perenne fuga da se stessi, dagli altri, dal mondo, dai ricordi. Una parabola triste. Senza speranza. Il video iniziale presenta una donna sola, con i suoi gatti, i suoi allenamenti, nella sua casa, il guscio che protegge e isola dal mondo.

A volte piccole domande al pubblico: Cosa farai da grande? Cosa farai dopo lo spettacolo? Sei felice? Ti piace la mortadella?

Il cibo. Si mangia senza gusto, bulimici, riempiendosi la bocca fino a scoppiare. Non c’è piacere, non c’è scopo. Tutto è fatto per riempire, ma il vaso è senza fondo.

Lei corre. Sola. Non si sa verso dove, non si sa per quanto. Intanto il tempo passa, i giorni scadono, il limite si avvicina e forse l’anima scapperà dal corpo fuggendo ancora.

Ph: Adi Tudose

Daniele Albanese

DRUMMING SOLO di Daniele Albanese EVERYTHING IS OK di Marco D’Agostin

Sabato 28 maggio alle Fonderie Teatrali Limone la serata di Interplay ha visto in scena alcuni lavori che, benché vi sia diversità di poetiche e di estetiche, hanno una sorta di tema comune. Rubando il motto a Gilles Deleuze, potremmo riassumere questa sorta di tema comune in due parole: differenza e ripetizione. Il lavoro di maggior spicco è stato Drumming Solo di Daniele Albanese. Un lavoro molto severo e rigoroso nel quale un ininterrotto mosaico di piccole frasi coreografiche si intrecciava magistralmente con le ritmiche minimaliste del pezzo per percussioni di Steve Reich. La dinamiche, le microvariazioni della tessitura musicale, si abbracciavano con il movimento continuo ed intenso di Albanese. Un quadrato rosso al centro, appariva e spariva lasciando posto alla vastità della scena. Questo alternarsi della danza da un interno, a un esterno e il relativo indugiare sul confine tra i due spazi, era il controcanto alla trama di intrecci tra movimento e musica. Indagare il confine, il limite e il necessario sconfinamento da una parte, dialogo, intreccio, composizione e scomposizione dall’altro. I gesti che compongono la coreografia sono minimi, quasi quotidiani, incastonati nel fraseggio ritmico di tensione, abbandono, forza e debolezza, il tutto in un fluire inarrestabile e continuo come il fraseggio di percussioni incalzante fin quasi all’ossessione della musica di Reich.

Interessante il solo di Marco D’Agostin Everything is ok sebbene un po’ azzoppato da un finale non proprio convincente. Il danzatore avanza sulla scena fino al proscenio e incomincia un divertentissimo lavoro di voce in cui stili musicali diversi dall’Hip-Pop alla canzone latino-americana, annunci di premi inesistenti, pezzi di show si mischiano in un melting pot frutto di una sorta di zapping selvaggio. Poi una musica ipnotica, quasi per citare Brian Eno, una sorta di music for airport, accompagna una danza costruita da inserti e citazioni di stili, sport, avanspettacolo, televisione. Si vedono le Kessler, un po’ di Hether Parisi, x-factor, uno sciatore di fondo, e mille altre piccole forme provenienti per lo più dall’immaginario televisivo, come se quello che siamo fosse ciò che assorbiamo dai media e dal bombardamento di immagini che subiamo da quando siamo al mondo. Siamo la somma di tutto questo e niente altro sembra dire questa coreografia che ha il solo difetto di esser smisurata, abnorme nella durata. Il finale poi è un po’ inconcludente, non riesce a tirare le fila di tutto questo esser altro da sé per alimentazione forzata da media. D’Agostin è un interprete giovane che ha comunque dato prova di essere un coreografo e un danzatore promettente, che ha grandi margini di crescita e saprà senza dubbio emendare i difetti che ora gravano un poco su questo lavoro.

Per chiudere due parole sulla presentazione di Maps di Daniele Ninarello, lavoro frutto di un laboratorio tenuto presso Belfiore Danza. Una fila di danzatrici, ciascuna incanalata su una propria corsia, come una batteria di nuotatrici, comincia lentamente a costruire piccoli movimenti avanzando e retrocedendo. Mano a mano la frequenza di questi andirivieni si arricchisce di forme e di gesti, fino al culmine in cui tutte le danzatrici si sincronizzano e mano a mano escono di scena una per una. Al di là che il lavoro è risultato di un laboratorio devo dire che da Ninarello mi aspettavo qualcosa di più per complessità e spessore. Il lavoro mi sembra un po’ troppo basico, frutto di uno schema più che di una vera ricerca, schema che finisce per imbrigliare le diverse energie delle danzatrici partecipanti al progetto, addirittura limitandole. É stato un po’ come ammirare la quadrettatura sotto il disegno e questo pareva meno interessante dei quadretti che lo supportano. Emerge lo schema e non la danza.

foto: Andrea Macchia

blitz metropolitani

SPECIALE INTERPLAY: BLITZ METROPOLITANI

 

Sabato pomeriggio 21 maggio in Piazza Vittorio Veneto a Torino hanno avuto luoghi i blitz metropolitani di Interplay. Uno spazio, all’interno della programmazione, in cui la danza incontra i contesti cittadini e esce dal teatro. Andare altrove dai luoghi costituiti, essere in contesti non inquadrati è un movimento costante delle arti a partire dai primi del Novecento. Una ricerca da parte degli artisti di ogni linguaggio di uscire dai contesti rigidi in cui si formalizzano i rapporti tra opera e pubblico. Non sempre queste uscite garantiscono un diverso rapporto, spesso siamo talmente incastrati nello schema che sfuggirvi diventa impossibile. Eppure nonostante tutto, vi è sempre un respiro maggiore, un’interazione più consapevole e dettata da una scelta precisa, più che un subire una ritualità stantia. Si dovrebbe cercare di più la possibilità di creare nuovi rapporti tra arte e pubblico, incontrare la comunità, confrontarsi fuori dal recinto protetto del teatro. L’intervento estemporaneo rischia di essere solo un momento esotico. Per lo meno si è provato.

Protagonisti di questi blitz metropolitani sono lavori in cui la danza incontra le forme ibride nate in contesti urbani di strada. Il circo, la street dance, break dance. Linguaggi spurii che raggiungono livelli di raffinatezza notevoli come nel caso di Eterea dei Los Innato. Due ballerini straordinari che eseguono un duo di grande impatto emotivo e di forte carica erotico-sensuale. Una danza piena di un ritmo dettato da movimenti carichi di energie trattenute e scaricate all’improvviso, di piccoli tocchi, di lotte furibonde. Forza e debolezza in continuo rapporto, un travasarsi di una nell’altra, non potendo sussistere l’una senza l’altra.

Impressionante anche Te odiero della compagnia spagnola Hurycan. Un ballerino (lo straordinario Arthur Bernard Bazin) si aggira nel cerchio formato dal pubblico. Incontra lo sguardo di una ragazza. La invita nel cerchio e inizia con lei un goffo ballo. Sembra tutto reale, che l’incontro sia casuale. Invece è solo un pretesto per dare l’illusione di un incontro. La danzatrice è la bravissima Candelaria Antelo. La danza che intrecciano è fatta di grande acrobazia che sconfina con la goffaggine, cadute, piedi pestati, errori, che diventano alfabeto di un incontro. Baci negati, baci rubati, litigi e lotte, rappacificazioni, tenerezze improvvise. Un rapporto amoroso danzato e composto da tutte le intermittenze, fraintendimenti, incontri e scontri tra due amanti. Un lavoro molto commovente e divertente allo stesso tempo.

Tra i lavori presentati in questi blitz metropolitani anche Humanhood dei Nomadis con Rudi Cole e Julia Robert-Pares. Un lavoro molto delicato seppur un po’ troppo classico, ma molto ben eseguito. Da ultimo il lavoro di Mathias Reymond e Christine Daigle una performance molto contaminata dalle arti acrobatico-circensi seppur un po’ debole a livello di drammaturgia.

foto: Andrea Macchia

 

Euripides Laskaridis

RELIC di Euripides Laskaridis (GR)

Francia 1896. sulle scene arriva una strana figura a forma di pera, con una sorta di spirale disegnata sul grasso ventre. La testa anch’essa a forma di pera. È vile, dissennato, vizioso, senza vergogna, osceno. Quell’apparizione è destinata a segnare le scene del teatro a venire. La sua presenza è scomoda, perché non ha misura, è fuori da ogni misura. Sgraziata, non bella, piena di tutto ciò che non vorremmo essere, dissacrante, ironica. È Padre Ubu. Il parto della mente patafisica di Alfred Jarry. L’Occidente non è stato più lo stesso da quando Ubu è apparso sulle scene.

Euripides Laskaridis, attore straordinario e artista sublime e intelligentissimo, ha molto di Ubu. Appare sulla scena tra improvvisi lampi di luce in un costume di figura umana sgraziata, eccessiva, con un culo enorme, con un culo in testa come corna, cosce esorbitanti, tacchi alti, viso cancellato dal collant.

Questa figura senza nome né volto attraversa la scena, danza volgare, piscia sulle rovine dove una testa di Alessandro o Apollo funge da WC, fa discorsi vuoti di significato perché sono solo suoni che imitano una lingua, imbastisce uno show osceno fatto di paillettes, luci e fumi, gioca con una palla come il Grande Dittatore ma senza saper bene come e perché. Tutto è osceno, senza misura perché fuori dalla misura, perfino disgustoso. Benché qualche risata attraversi il pubblico la sensazione è che si sia a disagio.

Ma questo spettacolo di Euripides Laskaridis ricorda anche le icone sante di Grecia, dove storie multiple appaiono sparse sulla tavola di legno, tra ori e luci. In questo caso la luce che emana questa parodia di icona è poco scintillante, fatta più di riflessi, cortocircuiti, lampi più che di pura emanazione. Le vicende che emergono sono dissacranti, quasi delle blasfemie. L’osceno ha preso posto sulla scena, la riempie tutta. Non esiste il fuori scena. Ma se tutto è piattamente osceno perché si prova disagio? Dovremmo essere confortati dall’eguaglianza che smussa i picchi, appiattisce le punte, ci rende tutti complici di quest’orgia disgustosa. È che lo specchio non restituisce mai il volto che ci immaginiamo, come una voce registrata che non ci pare mai la nostra. Eppure è così. Siamo parte di un’Europa oscena, che dilania la sua cultura e le sue radici, che si perde in vuoti discorsi senza sostanza né significato, che si perde in vaniloqui e show disgustosi. Siamo corpi sgraziati, senza volto, senza misura, solo ombre che camminano, poveri commedianti che si pavoneggiano e si dimenano per un’ora sulla scena e poi cadono nell’oblio. Siamo la storia raccontata da un’idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa più nulla.

 

 

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Michele Rizzo

HIGHER di Michele Rizzo

Una piccola lampadina si accende nel buio. Poi un’altra. E poi ancora. Man mano le piccole luci nel buio cominciano a diventare molte, a comporre linee geometriche, figure, percorsi nella notte. Infine esplodono in un bagliore che acceca.

All’eruzione della luce nella sua potenza, segue un buio in cui ancora lampeggiano sulla retina le immagini residue. Solo allora emerge il primo danzatore che sulla musica assillante e ripetitiva di Lorenzo Senni, comincia a disegnare sul palco una piccola danza fatta di passetti e piccole gestualità. Una sequenza che si ripete nello spazio, ora accompagnata da un secondo e infine un terzo danzatore. Una sequenza che si ripete anch’essa infinite volte, con piccole variazioni, accumulazioni, mutazioni. In Higher di Michele Rizzo tutto si ripete geometrico, infinito, ossessivo. Nonostante le micro variazioni del movimento e della musica che, piano piano, accumula sonorità e ritmi, si ha l’impressione che il tempo scompaia, si dilati nella ripetizione, nella riproduzione. Tutto torna sempre uguale, sempre diverso. Sembra che questi moduli ripetuti non debbano finire mai. Una generazione costante di forme modulari dallo stesso DNA che mantengono una loro unicità d’esistenza. Tutto scorre come non dovesse finire mai. Senza sentimento, senza immedesimazione, senza significazione. Le sequenze di danza e musica, si manifestano costanti, ipnotiche, come prodotti in una catena senza inizio né fine, il cui sviluppo è indeterminato, imprevedibile. Poi tutto sparisce nella notte. Il buio si riprende tutto. La trance ipnotica si evapora. Si torna nel tempo.

Quest’opera di Michele Rizzo che ha aperto Interplay possiede la rara qualità di affascinare nonostante i gusti personali. Io, per esempio, mi trovo in forte disagio di fronte a lavori fortemente ripetitivi, razionali e astratti nel loro formalismo. Eppure si supera il disagio, lo si mette per un momento da parte, apprezzando il tentativo di far nascere una nuova forma di trance estatico-religiosa, a partire dalla danza e musica per club. Benché comprenda la possibilità della manifestazione di una trance che sorga dalla ripetizione di moduli sonori e di movimento nello spazio, faccio fatica ad associare questo fenomeno a un sorgere di un qualche contatto con il sacro. La religiosità associata dalle asserzioni del coreografo al fenomeno di danza e musica per club, il paragone club-chiesa, mi pare un po’ azzardato. Più che una religiosità mi pare si possa scorgere nel fenomeno una ritualità laica, svincolata dalla coscienza che l’agire rituale possa condurre al divino o al sacro. Mi sembra più che altro un trascendere dal quotidiano, dal sé. Una ricerca di un abbandono che conduca al superamento di sé per un periodo di tempo. Poi come alla fine dello spettacolo si torna a essere se stessi, senza il raggiungimento di una nuova conoscenza e coscienza del mondo. Un esperimento interessante. Razionale e geometrico come un Mondrian, che però mi pare alla fine si riduca a un formalismo vuoto di sostanza. Il rito per il rito. Senza finalità. Auto giustificante. Senza sbocchi. Uno strumento senza scopo, perfettamente funzionante, lucidamente concepito.

fotografie@Jasmijn_Slegh

collective loss of memory

COLLECTIVE LOSS OF MEMORY di Jozef Fruček e Linda Kapitanea – RootLessRottDOT504 (SL/GR/CZ)

Collective loss of memory: nell’inizio c’è già il finale. Ma non lo sappiamo. Non lo possiamo sapere. Due uomini lottano a destra della scena. Uno guarda. Uno è seduto su una sedia. Uno al microfono ripete come un mantra: being a man, mainly a man.

Sembra un inizio un po’ concettuale. E gli interpreti ci scherzano sopra subito. Il tono da serio diventa buffo. I danzatori si presentano. Uno addirittura con un grosso e finto pene che viene presentato al pubblico. Sarà un elemento ricorrente questo pene grosso. Poi comincia lo sviluppo. La danza è maschia, acrobatica, coinvolgente (i cinque danzatori in scena sono straordinari). Elementi violenti appaiono costantemente, ma lì per lì, non ci si fa troppo caso.

Poi si offrono caramelle al pubblico. Non vengono date con gentilezza. Vengono lanciate con violenza. E poi il mantra si ripete: being a man. È una affermazione che si fa domanda. Comincia a essere chiaro che è il maschile l’elemento su cui ci si interroga. Ritorna il pene, che viene offerto al pubblico come oggetto da testare, toccare, farne esperienza.

Infine il racconto dell’origine di questo spettacolo: siamo nel 2008, in una piazza, dove tutto è molto tranquillo. Un uomo entra correndo inseguito da un altro. Spariscono. La scena torna calma. Poi altri che inseguono i primi due, in formazione, come una freccia. Un uomo guarda, non fa niente, guarda e basta perché chi guarda non fa. Il gruppo torna sulla scena e compie movimenti circolari e semicircolari. Poi tutti escono. La scena torna calma. Resta solo l’uomo che guarda e non fa niente.

Ancora non si è ben capito cosa sia successo, perché il racconto volutamente astrae, indica delle linee di movimento e di sviluppo, fa emergere i punti salienti: la calma, l’azione principale del gruppo, quella secondaria, ma non meno importante, dell’uomo che guarda e non fa nulla. Infine si svela l’evento reale, che in verità è già, come detto, contenuto nell’inizio: un video mostra la scena descritta. Un fatto accaduto in un centro commerciale nel 2008. Un uomo è inseguito. Prima da un uomo, poi da un gruppo. Per un attimo tutti escono di scena poi tornano. È un pestaggio. Di una crudeltà e violenza inaudite. L’uomo è percosso dal branco in ogni modo possibile. Gli saltano in testa a piedi pari, calciano il suo cranio come fosse un pallone da rugby. Il sangue sprizza, l’uomo percosso è preda di tremori fino all’immobilità. A fianco di questa scena terribile, un altro uomo guarda e non fa nulla. Niente di niente. Nemmeno quando l’uomo percosso, giace a terra, nel suo sangue, solo. Chi guarda non fa nulla. Guarda e basta. Questo guardare e questo essere uomini sono la domanda. Chi guarda davvero non fa nulla? Essere uomini è veramente questo truce delitto? Non è necessario rispondere. È necessario porre la questione. E l’altra che sta in sottofondo. In tutto quanto accade non c’è presenza femminile. Sia nella coreografia che nell’evento del 2008. Chi guarda, chi agisce, chi danza sono solo uomini. Being a man.

Il modo in cui sono state poste queste domande da Jozef Fruček e Linda Kapitanea in Collective loss of memory è intelligente, tagliente, ineludibile. Tutto è accennato, fin dall’inizio. La comprensione di quanto sta davanti ai nostri occhi viene svelato a poco a poco. La coscienza emerge dal suo sonno pian piano, fino a essere scossa, se non percossa, al termine di questo percorso.

Collective loss of memory, spettacolo inquietante e sconvolgente, ci pone di fronte a delle domande a cui non si può scappare. Bisogna porsele. Bisogna farci i conti. La scena in questo lavoro assume un valore tragico ma pregnante. Quello che ci viene posto davanti agli occhi è necessario alla comprensione della nostra natura, di uomini, di civiltà: siamo tra coloro che guardano e passano? Che accettano la violenza insita in noi senza far nulla? Siamo solo spettatori? O siamo qualcos’altro? E il femminile dov’è?

CHIAMALACULTURA: INTERVISTA A ENZO FRAMMARTINO CANDIDATO AL CONSIGLIO COMUNALE DI TORINO

Ieri sera, giovedì 05 maggio alle ore 19, al Fluido di Torino sulla terrazza che da sul Po, sono andato ad ascoltare il programma per le politiche culturali del candidato PD al consiglio comunale di Torino di Enzo Frammartino. Sono sempre scettico, tremendamente scettico e disilluso, quando sento un candidato che parla di strategie di politiche culturali in tempi di elezione. Le promesse elettorali in questo paese trovano raramente, se non mai, spazio nella vita reale una volta raggiunto lo scopo. Per cui sono andato per curiosità, per sentire sulla carta se ci fosse un vago e raro spiraglio di apertura che lasciasse intendere per lo meno la volontà di trapassare il muro del consueto. Le politiche culturali in Italia sono in uno stato di abbandono, ne abbiamo già parlato molte volte su queste pagine: produzione incancrenita in schemi obsoleti, distribuzione inesistente, nessuna attenzione al contemporaneo, nessun sostegno alla ricerca e alle sue metodologie, teatri stabili e enti lirici affossati da debiti e ingessati in programmazioni veterotestamentarie, giovani generazioni allo sbando, i trenta e quarantenni disillusi, sfiduciati, alla ricerca spasmodica della fuga all’estero, costantemente alla rincorsa di un bando che faccia racimolare quattro soldi per la sopravvivenza. E non parliamo poi che nel paese dello spreco costante e assoluto, se si deve tagliare qualcosa, la prima voce, chissà perché, è sempre la cultura. Ma cos’è la cultura? Da una parte, potremmo affermare, per dirla con Simmel, che sono tutti quei prodotti dello spirito che partono dall’io per tornare all’io, ossia tutti quei fenomeni che permettono all’io, io direi alla comunità, di riflettere su se stessa, di affrontare ciò che la tormenta, che la scuote, che la inquieta. Uno sguardo sulla vita del mondo in tutti i suoi aspetti e fenomeni, uno sguardo tagliente che induca a riflettere, a scostare il velo del quotidiano e scoprire ciò che fa fremere la vita intorno e dentro la società.

Poi c’è l’enterteinment. Prodotti intesi al passare lietamente il tempo. Ciò che ci permette di dimenticare per un momento le noie della vita, i problemi che ci affliggono. L’intrattenimento è utile, serve. Mica si può stare a spaccarsi il cranio tutto il giorno, c’è bisogno anche di sollievo, di divertimento, di leggerezza.

E infine c’è il patrimonio culturale acquisito dal passato. Questo in Italia è enorme. Il più grande del mondo. E questo pesa come un macigno sull’oggi. Mantenerlo, tenerlo in buono stato di conservazione, renderlo visibile e accessibile. Marinetti già nel 1909 affermava che questo patrimonio era un freno al contemporaneo, impediva all’oggi di emergere con tutta la sua potenza. Ovviamente estremizzava per far comprendere un problema reale. Oggi potremmo dire che il necessario sostegno e mantenimento di quel nostro glorioso passato culturale assorbe tre quarti del budget disponibile. E questo è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che dobbiamo far cadere Pompei, per sostenere la cultura di oggi. Vuol semplicemente dire che devono essere due problemi separati. La cultura di oggi non è quella di ieri e non ha gli stessi problemi. Dovrebbe occuparsene un ministero diverso, un assessorato diverso. Perché il patrimonio culturale italiano del passato può essere fonte di turismo, di impiego, di immagine del nostro paese.

Ma anche la cultura di oggi può e dovrebbe essere volano di economia. Perché ciò avvenga però sono necessarie delle politiche forti che disarticolino e scardinino le pratiche invalse negli ultimi venticinque anni in questo Paese. Carmelo Bene già negli anni ’80 affermava con forza che la ricerca era negletta agli occhi delle istituzioni. Il lavoro dell’artista che cerca nuove forme e nuovi linguaggi non era riconosciuto. L’occhio era puntato sul risultato, senza considerare il lavorio estenuante e lungo di ricerca. Oggi di fronte a questo si risponde con il sistema delle residenze: dieci giorni qui, sette là, due da un’altra parte. Come se questo bastasse, ma basto solo a calmare la coscienza e a dire che in fondo si fa pur qualcosa. E si nasconde con questo discorso che le residenze servono più a chi le organizza che a chi le fa. Inoltre mancano gli spazi, l’accessibilità a luoghi di prova e ricerca. Quasi inesistente la possibilità di sperimentare su grandi pezzature. Ci si limita a piccoli spazi, al monologo, al solo, al duo. E come si formano le competenze quando a muoversi sulla scena sono dieci persone su grandi spazi?

Difficile l’accesso a professionisti che si occupano di produrre il lavoro di un artista. La figura del produttore di teatro o di danza contemporanea, è inesistente se non a livelli di musical e grandissime produzioni. L’artista solo deve occuparsi anche di questi aspetti sottraendosi al lavorio artistico che gli compete. Il produttore è figura fondamentale sia per le competenze che mette in campo, ma anche perché protegge e solleva l’artista dalla burocrazia. Permette che il lavoro di ricerca sia protetto e fecondo. Ma tali figure mancano quasi totalmente.

Poi c’è la distribuzione dei lavori che faticosamente, quasi senza sostegno, vengono alla luce. La distribuzione quasi non c’è. Non si sono occasioni per smuovere il mercato, per attirare i buyers, per offrire il prodotto italiano contemporaneo all’estero e all’Europa e non solo all’Italia. Anziché creare le condizioni di esportare l’eccellenza italiana, proteggendola come fosse un grande marchio, si lascia che l’emorragia di cervelli svuoti questo Paese, che intere generazioni fuggano oltre confine arricchendo gli altri.

E tutto questo tralasciando l’accessibilità al sostegno, necessario come il pane. I bandi privilegiano il noto e il grande evento, tralasciando ciò che emerge, e che non ha una rete sufficientemente allargata o strutture associative importanti. La piccola compagnia, l’artista singolo, il giovane che tenta di emergere, l’outsider. Non si privilegia in sede di valutazione il progetto di ricerca in sé, ma i suoi aspetti economici, dimenticandosi che il valore economico di un’opera d’arte, quale essa sia, non è certo e che i nuovi linguaggi per affermarsi, necessitano di tempo. Il loro successo non è immediato. E la storia dell’arte è piena di fenomeni negletti che sono diventati importanti dopo anni se non decenni.

E il problema non ce l’hanno solo gli artisti ma anche gli operatori di festival, i direttori artistici costretti a lavora al buio sui finanziamenti, con delibere che vengono emanate post eventum, a fronte della concorrenza europea che può contare su programmazioni a legislatura.

A fronte di questi problemi che ho trattato velocemente, a volo d’uccello, solo per accenni, ma, lo sapete, se ne potrebbe parlare per ore, il ruolo della politica diventa fondamentale. Ecco perché sono andato a sentire cosa il candidato Enzo Frammartino vorrebbe fare per la cultura di questa città che abito e ho imparato ad amare come fosse la mia.

E dalle sue parole ho intravisto una sincera passione, una volontà di far bene. Ma ho anche sentito parole che ricalcano schemi obsoleti. Bisogna pensare laterale, essere imprevisti e imprevedibili, per far fronte a un’emergenza e a problemi che il Paese e la città si trascina da decenni. Ho sentito il progetto di far emergere ciò che non è a sistema per farlo rientrare nel sistema, la volontà di mettere tutti in rete, di far diventare la cultura un volano economico per la città. Ma ho sentito parole più rivolte alle grandi mostre e ai grandi eventi più che alle fasce deboli del sistema. Per cui alla fine della sua presentazione gli ho chiesto un’intervista che riporto. Frammartino mi ha concesso il suo tempo e ha cercato di spiegarmi cosa intende davvero fare. Io gli auguro, se verrà eletto, e sottolineo che non mi interessa minimamente a che partito appartenga, che ascolti più le critiche che i complimenti, che faccia le cose giuste anche se questo dovesse alienargli i consensi, che sappia essere veramente un attore di una politica seria e innovativa. E così mi aspetto da da chiunque venga eletto.

EP: Come intendi attuare il programma che hai presentato? Intendo nella pratica, perché serva veramente agli artisti e al loro lavoro quotidiano.

EF: Per quanto riguarda la cultura dobbiamo cercare di mettere a sistema quella che è l’offerta, settore per settore. Faccio degli esempi così magari è più chiaro. Noi abbiamo un problema serissimo, per esempio, nel teatro, dove abbiamo tantissimi operatori accomunati da un’unica cosa: di essere generalmente delle monadi straordinarie, di grande valore, ma che hanno poca interazione con gli altri soggetti. Ognuno di loro va messo a sistema, bisognerebbe cercare di costruire una rete con i grandi teatri e le grandi istituzioni del teatro con i piccoli soggetti che stanno facendo dei progetti di ricerca straordinari. Così facendo siamo in grado di costruire un sistema teatrale più forte, un sistema teatrale che condivida le risorse sia sul piano economico, ma anche sul piano delle risorse umane, degli spazi. Attraverso una rete possiamo fare dei progetti europei per recuperare delle risorse che non riusciremmo a prendere diversamente, mettendo in rete il lavoro che si fa sul territorio, perché per vincere un bando europeo serve una rete locale, e serve poi una rete internazionale. Quindi se il TPE ha dei contatti importanti a livello internazionale e li mette a sistema con quelli che ha il Teatro Stabile e con quelli che hanno altri soggetti più piccoli, noi saremmo in grado di ottenere delle risorse in più, ma saremmo in grado anche di avere un sistema più ricco anche per il pubblico e a un’offerta più interessante.

EP: Questo è un discorso importante. Ma c’è un però. Gli strumenti che sono predisposti dalle istituzioni non tengono conto delle reali esigenze degli artisti. I bandi bancari, per esempio, privilegiano l’aspetto economico finanziario a quello artistico, non tengono conto dell’accessibilità agli spazi, e delle condizioni reali di lavoro che spesso si avvicinano al volontariato, con associazioni che accedono a fondi limitati benché i loro progetti abbiamo un reale valore di ricerca. E questo impedisce loro l’accessibilità a tali fondi. Tali strumenti sono spesso motivo di isolamento e frustrazione più che un reale aiuto. Privilegiano chi è già a sistema più che dare un’opportunità a chi è fuori dal sistema.

EF: Guarda normalmente mi propongono di fare degli spazi dedicati alla ricerca, e nell’arte questo è un tema tutto aperto che va realizzato. Ma pensare di fare quegli spazi lasciandoli liberi diciamo di progettazione e totalmente scollegati dal sistema è perfettamente inutile. Noi creeremmo dei buchi neri, perché anche se quei ragazzi trovano delle cose, rimarrà lì e morirà lì. Se noi non costruiamo dei sistemi scalabili, in cui tu puoi partire dal basso, fare ricerca, avere una formazione, perché nessuno nasce imparato, avere una formazione di livello e dopodiché riuscire ad agganciare un sistema di risorse, perché una rete la devono fare anche coloro che governano, perché è assurdo che ci sia un bando bancario che abbiamo criteri diversi da quelli del bando della Regione e da quelli del Comune. Occorre mettersi tutti insieme, studiare quali siano i criteri che, secondo me, aggancino il più possibile quelli che sono i parametri europei, in maniera tale dove ci sia un fondo europeo intercettato, c’è sia anche un fondo regionale intercettato, meglio anche se ci sono dei bandi nazionali a cui si può accedere, per provare a non disperdere le risorse, fare con queste un progetto di carattere formativo serio e poi abbinare a tutto questo il circuito teatrale. A un giovane bisogna anche spiegare che il problema non è fare una data in più a Torino ma cominciare a costruire un percorso che lo porti fuori da Torino.

EP: Prima però nel tuo discorso hai parlato dei trenta e quarantenni di coloro che insomma la loro formazione l’hanno già fatta e necessitano di altro, di distribuzione e produzione più che di formazione.

EF: Si io parlavo prima di classe dirigente. L’investimento va fatto sui ventenni.

EP: Questo però significa che da questo progetto si taglia fuori la generazione dei trenta e quarantenni, quelli che si sono fatti la gavetta in condizioni miserevoli e che vengono nuovamente abbandonati a se stessi.

EF: Sì, quelli bisogna recuperarli. Però bisogna anche essere meritocratici, perché se a quarantanni tu non sei formato, io ti assicuro che tu non sarai disponibile a questi percorsi.

EP: Io però non sto parlando di chi non è formato, ma di coloro che, e ti potrei fare tantissimi esempi perché conosco molto bene l’ambiente, che hanno altissima formazione e non trovano spazio nel sistema perché il sistema non è fatto per accoglierli.

EF: Quindi coloro che esprimono qualità e non vengono intercettati.

EP: Esatto. Sono coloro che hanno subito il malcostume in ambito di politica culturali degli ultimi vent’anni, che hanno creduto in questo paese, e che nonostante il loro valore sono rimasti sommersi. E quindi questi cosa sono? Sacrificabili? Ancora una volta?

EF: Questo è un problema che non riguarda solo la cultura, riguarda tutto il Paese. Se hai fatto attenzione a quello che ho detto prima quando dicevo :”siamo troppo giovani per… e in un attimo siamo troppo vecchi per…” è un problema che è avvenuto su un’intera generazione, forse su due generazioni, perché chi ha preso il potere, inteso nel senso di luoghi di potere, in tutti i settori, trent’anni fa, sono ancora le persone che hanno in mano quel potere. E questo non ha consentito di includere dei contemporanei e se tu vuoi fare un città contemporanea devi includere i contemporanei.

EP: Sì però se si parla di formazione, di residenze formative, non si include veramente quella fascia di artisti.

EF: Quello è un pezzo del ragionamento. Non è che le cose si limitano a quello. Fare un investimento formativo sulle nuove generazioni, sui ventenni che si affacciano sulla scena culturale, non vuol dire che non si faccia anche un investimento sui quarantenni. Quelli devono essere già pronti a prendere il posto.

EP: Sì, sono d’accordo, però vedi il sistema oggi prevede quasi solo ed esclusivamente residenze. E queste non sono così utili. Non è che due settimane aiutano la mia ricerca. Ci vorrebbero altri strumenti che garantiscano ad artisti già formati di poter effettuare il loro lavoro. Garantendo loro tempo e strumenti. Luoghi e supporti produttivi e distributivi. La formazione l’hanno già fatta anche se non si finisce mai di imparare.

EF: Ti dico una cosa: non credo che sia giusto pensare che si smetta completamente di formarsi nelle varie fasi della vita. Siamo solo noi italiani che pensiamo di essere arrivati.

EP: Sì, d’accordo, ma all’estero, e sono stato all’estero, uno a quarantanni non è considerato uno da formare. È considerato un artista maturo, nel fiore dei suoi anni e che può già esprimersi con un linguaggio complesso e personale.

EF: Questo è evidente, ma in tutto il mondo esiste la formazione continua. Da noi no. Noi abbiamo delle persone che spesso già si ritengono arrivate già a trentanni e non continuano a perfezionarsi e questo è un danno. Poi c’è un altro problema che sottende a quello che tu stai dicendo. Il problema di come a un certo punto, ok sono preparato, comincio a essere in grado di, come vengo incluso all’interno dei sistemi? C’è un sistema permeabile, scalabile, chiamalo come vuoi che mi consente di arrivare al vertice di strutture sulla base della preparazione e del merito che ho avuto anche senza essere del solito giro? Questa è la partita vera. La scommessa vera è qua. Ma io questo non lo dico nell’interesse dei quarantenni bravi che abbiamo e che rischiamo di perdere se non interveniamo, lo dico nell’interesse della città. Perché quello che dicevo prima è esattamente questo: io penso di poter dare in questa sfida proprio la mia contemporaneità, nel fatto che vada a visitare certi laboratori, che vada in certi locali dove si sta facendo cultura, e vada ad incontrare delle cose nuove in spazi e luoghi che mio padre non avrebbe frequentato.

EP: Io quello che però voglio dirti, la causa che voglio perorare in questa nostra conversazione, è che i quarantenni di valore, quelli che hanno combattuto e creduto in questo paese, cominciano a non crederci più, guardano oltre confine, cercano la fuga. E questo è un danno non solo per la città ma per il paese. Si perde della ricchezza perché non le si da luce. E a questo cercare delle soluzioni immediate. Trovare sistemi che ridiano fiducia e permettano a questa gente, e ne conosco tanti che hanno vinto premi nazionali, che hanno fatto cose importanti, che stanno smettendo perché non c’è spazio, non ci sono fondi, non c’è distribuzione. Questa è la sfida se vuoi veramente occuparti di cultura.

EF: Bisogna dare delle opportunità e ridare fiducia, questo è certo. Il problema non è sono non far fuggire quelli che abbiamo. Poi in un mondo globale è anche normale che qualcuno cerchi fortuna altrove, o che trovi opportunità interessanti da un’altra parte e le colga. La cosa importante è anche accogliere quello che viene da fuori. Questa è una città universitaria, piena di Erasmus, che raccontano di una città fighissima, ma poi vanno via perché non trovano l’opportunità di continuare. La sfida vale per le opportunità per i torinesi, ma vale anche per chi viene da fuori.

Arianna Dell'arti

ARIANNA DELL’ARTI: IO STO MOLTO BENE

Io sto bene. Lo cantavano anche i CCCP. Io sto bene è un eufemismo. Arianna Dell’Arti non è però una formalità, ma una questione di qualità. E così abbiamo compiuto il circolo. Abbiamo fatto la citazione, ma non per fare un complimento, per fare semmai una constatazione.

Arianna Dell’Arti racconta della vita, quella cosiddetta normale, dove tutto è una sorta di nevrosi, di idiosincrasia, con se stessi, con gli altri, con la propria sessualità. E lo fa con leggerezza, facendoci ridere e sorridere, partecipando con lei al racconto.

E lo fa così bene che pensi: e se questo raccontare fosse su un palco, sotto un bel riflettore, con un leggio, una voce impostata, senza quel romanaccio che le viene fuori spontaneo e accattivante, se il musicista che l’accompagna, il bravo Davide di Rosolini, avesse anche lui il suo bello spazio illuminato a lato di un palco, con la gente seduta nell’ombra: avrebbe la stessa forza? Direi di no. E questo è un complimento. Ciò che succede ad assistere ai monologhi, ai racconti di Arianna Dell’Arti, è che risorge il teatro popolare, quello dei racconta storie, quello che va nelle piazze, nelle osterie e condivide i suoi racconti con la gente, che è lì davanti a lei, che partecipa, commenta in piena luce. Ed è tutto un mare di sguardi che passano dal pubblico seduto ai tavoli del Polskykot di Torino, e lei, e Davide di Rosolini, e si sente che passa aria fresca, che c’è dialogo, e c’è presenza.

E questo è quello che manca a tanto teatro di parola che oggi spadroneggia sulle scene dei teatri italiani. Ci si dimentica che il pubblico non è mica lì solo per ascoltare quieto e in silenzio ciò che si declama aulici sul palco. Si è lì per condividere esperienza, comunità che riflette se stessa e su se stessa. Non c’è chi agisce e chi subisce, chi riempie un vaso vuoto e chi entra pronto e riempirsi di cultura.

Il teatro quando è in forma di racconto ed è popolare, veramente popolare nel senso nobile del termine, è condivisione. La vita che racconta e si racconta è vita condivisa, è di tutti, ed è per questo che è al centro del cerchio che il cantastorie racconta. Il cerchio racchiude ciò che condivide al suo interno. Non c’è nessuna wagneriana oscurità a celare il pubblico che ascolta silente e riverente. C’è cagnara, c’è dialogo, interazione. Arianna Dell’Arti ha questo tipo di qualità: quella di portare le sue storie al centro del cerchio, farcele vivere, farci pensare a quanto siamo lontani dalla normalità e vicini alla psicosi, e farci ridere di noi stessi, con intelligenza e delicatezza. Son cose rare queste. Da non perdere per nessuna cosa al mondo.